Se dopo cinquant’anni esatti (proprio oggi) siamo ancora qui parlare di quella partita, non sarà solo un problema di nostalgia per chi quella notte (magica davvero) aveva dieci, venti o trent’anni. Se in questi cinquant’anni quella partita ha ispirato romanzi, saggi, commedie e film così belli che quelli nati attorno ad altre imprese calcistiche (Italia-Brasile 3 a 2, la finale del 1982 o quella del 2006) sembrano solo pallide imitazioni, ci sarà un perché.
Proviamo a cercarlo, a identificare i motivi per cui rimane unica, indimenticabile, irripetibile, quella partita del secolo (scorso e per ora anche di questo) che si pronuncia tutta di fila Italiagermaniaquattroatre. Diciamo subito che i motivi sono vari e, chiedendo scusa se togliamo un po’ di poesia, ora li schematizziamo.
C’è la spiegazione in chiave politico-sociologica, diciamo la linea Pastorin-Dalla Chiesa, che attribuisce a quella vittoria calcistica il significato di un’inattesa rinascita dell’identità nazionale, della ricomposizione delle fratture sociali. In effetti, il paese stava vivendo uno dei frequenti momenti di forte divisione, di tensione e contrapposizione. Erano passati pochi mesi dalla strage di Piazza Fontana e dai suoi veleni e da un autunno caldo che aveva visto uno duro scontro di classe attorno al contratto dei metalmeccanici. Uno scontro che aveva avuto un’eco persino al festival di Sanremo vinto, tra varie polemiche, da Celentano e Mori con la discutibile Chi non lavora non fa l’amore.
Per non parlare di quello che stava per accadere: in Parlamento era depositato un progetto di legge proposto dagli onorevoli Fortuna e Baslini, cioè le legge istitutiva del divorzio, la questione che avrebbe diviso in due l’Italia negli anni successivi. La vittoria in semifinale unificò di colpo un paese così diviso: insomma, un po’ in versione più soft, la riedizione della vittoria di Bartali al Tour de France del 1948 dopo l’attentato a Togliatti. Senza nulla togliere al valore di questa lettura e dei loro artefici (con Darwin Pastorin ho scritto un libro che riprende quell’evento), mi permetto di aggiungere un dettaglio. Lo spirito unificatore era già insito anche nella formazione di quella nazionale che, a differenza di altre precedenti e successive, era un mosaico rappresentativo di diversi club di varie regioni: dal Piemonte alla Toscana, dalla Lombardia alla Sardegna.
Fuori dalla nobile lettura Pastorin-Dalla Chiesa, ne possiamo trovare altre. Non trascurerei, per esempio, un aspetto antropologico-culturale, legato all’avversario, la Germania. In quel 1970 erano di certo e per fortuna sopite le tensioni e le pulsioni peggiori del dopoguerra, che anni prima avevano trovato spazio anche in ambito sportivo (soprattutto nel ciclismo), ma l’idea di un’Europa unita senza frontiere era ancora ben lontana. Diciamo che tra paesi e popoli europei c’erano sane rivalità, qualche simpatia e qualche ripicca che nello sport trovava la sua giusta dimensione. La Germania era vista dagli italiani con qualche sospetto, non più per il passato ma per il suo fortunato, prospero, ricco presente, con quel suo essere già una sorta di prima della classe che genera complessi e gelosie.
Il football era uno specchio fedele di questa situazione, del complesso di inferiorità che aveva colpito gli italiani. Dal dopoguerra in poi il calcio italiano aveva vissuto un periodo di decadenza, con una serie di pesanti sconfitte e clamorose eliminazione nei tornei internazionali, che la recente vittoria agli Europei del 1968 non aveva certo cancellato (troppo facile una vittoria in casa, con un bel po’ di buona sorte). La Germania ovest, come si chiamava allora, invece, si era incredibilmente risollevata anche sui campi di calcio. Vittoriosa ai mondiali del 1954, con una specie di miracolo sportivo (più tardi celebrato anche dal cinema con Il miracolo di Berna, appunto, e gli ultimi straordinari sette minuti di Il matrimonio di Maria Braun), semifinalista nel ’58, finalista ingiustamente sconfitta nel ’66. Insomma, affrontare la solida, forte, organizzata Germania era complicato, batterla una soddisfazione incredibile.
In quel modo poi. Perché se vogliamo trovare i motivi dell’immortalità di Italiagermaniaquattroatre un accenno al modo in cui andarono le cose bisogna farlo. Il gol italiano nei primi minuti, il tipico catenaccio a difesa del vantaggio per tutto il resto della partita, il gol di Schnellinger, uno che giocava in Italia, nel recupero, nei supplementari lo svantaggio per un incomprensione in difesa, l’immediato pareggio grazie a un difensore che non aveva mai tirato nella porta avversaria in tutta la sua carriera, il magnifico gol di Riva, un’altra incomprensione difensiva che riporta tutto in parità e il responsabile della gaffe che, come per cancellare la macchia, corre in attacco e va a segnare il gol decisivo.
Tutta la vita, dramma e happy end, patetico e sublime, orgoglio (ritrovato) e pregiudizio (cancellato, quello dell’inferiorità degli atleti italiani sul piano fisico), eroismi e ingenuità (molte queste ultime, disse subito il bastian contrario Gianni Brera), tutto in poco più di due ore.
Ecco l’ultima spiegazione della nascita del mito, quella che prediligo, quella che mette al centro le due ore di televisione, di palinsesto. Perché non fu solo la bellezza dello spettacolo e la qualità della rappresentazione (con il replay da poco inaugurato), a costruirne l’eccezionalità ma l’orario in cui andò in onda. All’epoca le partite si giocavano in orari dettati dalle esigenze climatiche e da quelle del pubblico presente, non da quelle dell’audience televisiva. Per cui a Città del Messico, a meno che si trattasse di un giorno festivo, si giocava nel tardo pomeriggio. Ma in Italia, quel mercoledì, quando si iniziò, erano già le 23, un’ora notturna, proibitiva per i palinsesti Rai.
Solo due anni prima, una serie di match di pugilato di eccezionale interesse, quelli tra Nino Benvenuti ed Emile Griffith per il titolo mondiale dei pesi medi, organizzati al Madison Square Garden, non erano stati trasmessi in diretta tv ma solo in radio per non alterare le abitudini del sonno degli italiani in un giorno feriale. Poi c’era stata qualche eccezione per le Olimpiadi messicane e soprattutto la maratona notturna dell’allunaggio.
Ma quello era l’inizio di una nuova epoca per tutta l’umanità, almeno così si pensava, e poi eravamo già in vacanza. Quel 17 giugno era invece un giorno feriale, in un mese di lavoro e di esami. Prevalse l’idea dell’eccezione: in fondo si trattava di sforare solo un po’ più di mezz’ora oltre la fatidica mezzanotte. Invece, complici i supplementari e qualche recupero abbondante, si finì che l’una di notte era passata da un po’.
Lì avvenne l’incredibile: gli italiani si riappropriarono della notte, in un’improvvisata movida quando non si conosceva ancora la parola. Macchine scoperte e clacson a tutto volume, bagni nelle fontane e cori in piazza. Non solo a Roma, come era avvenuto due anni prima dopo la vittoriosa finale degli europei, ma in tutta Italia, nelle grandi città, in quelle di provincia e, come racconta Gigi Riva, il giornalista, nei più piccoli borghi. Enrico Albertosi (qui non ci sono omonimie, si tratta del portiere) ha raccontato in una recente intervista al Fatto quotidiano una cosa interessante: solo nei giorni successivi, quando videro in Messico le immagini di quei festeggiamenti italiani, i protagonisti si resero conto dell’impresa che avevano compiuto. In effetti era la prima volta che nelle piazze tornava a sventolare il tricolore, spontaneamente, non in una cerimonia ufficiale ma solo per manifestare la gioia degli italiani. Ma qui siamo tronati al punto di partenza, alla linea Pastorin-Dalla Chiesa. E allora cinquant’anni dopo, viva l’Italia, viva l’Italiagermaniaquattroatre!