Italia-Inghilterra, Europa-Brexit

Sergio Baraldi

In questa domenica necessariamente storica, in campo non sono scese solo due nazionali di calcio o due Paesi, l’Italia e l’Inghilterra. La posta in gioco non era solo la coppa Europea, che le due squadre non vincevano da decenni. La sfida non ha riguardato solo il calcio, che pure appassiona e coinvolge milioni di tifosi. Con il passare dei giorni è apparso sempre più chiaro che quella partita si stava trasformando in qualcosa di più complesso: due nazioni, due comunità, si sarebbero disputate l’affermazione di qualcosa, di un bene pubblico, di uno spirito dal valore inestimabile: la costruzione e la trasmissione al mondo in diretta tv della propria identità.

Così la partita, con il passare delle ore, ha assunto la forma di un evento che avrebbe dovuto assegnare un significato non solo alla sfida, ma al loro e nostro stare nel mondo. Giorno dopo giorno, la partita è diventata un rito, con la ripetizione dei gesti e delle parole, e insieme un mito, quello della conquista di una rivincita di due popoli, quasi una contesa tra due idee diverse di nazione.

Il rito e il mito sono narrazioni distinte, intrecciate dal calcio, che milioni di persone in tutto il mondo hanno vissuto, sofferto, condiviso. Lo stadio di Wembley è così diventato il luogo sacro di questa rappresentazione e narrazione, che ha restituito all’immaginario il ruolo centrale che può occupare nell’esistenza degli individui e delle società. La partita è stata la fantastica messa in scena di un immaginario globale diviso tra due interpretazioni contrapposte: quella impersonata dagli italiani, che si sono conquistato il diritto vittoria dopo vittoria di essere i campioni che giocavano per l’Europa; quella della Brexit incarnata dagli inglesi, che hanno strappato con la forza dei risultati il diritto di affermare la propria irriducibile differenza.

Entrambe avevano necessità di vincere, cioè di affermare la propria identità come vera. Il mito è il racconto che sviluppa archetipi e simboli che, nel momento in cui si fa discorso, implica una struttura narrativa, un’organizzazione logico-razionale. Il rito invece mette in scena simboli e relazioni attraverso gesti, comportamenti, emozioni. Entrambi sono portatori di senso, che viene rivelato da una costellazione di immagini che ci siamo trascinati nella lunga vigilia della partita. Il risultato è stato la mobilitazione di emozioni collettive profonde.

Gli inglesi avevano la necessità consacrare la decisione di separarsi dall’Europa come la scelta che consentiva alla nazione di ricollegarsi alla storia, all’identità, al mito del Paese imperiale, capace di mettersi in relazione con il mondo da pari a pari, senza più la necessità di ricorrere all’intermediazione europea. Il governo di Boris Johnson in modo silenzioso ha avallato questa narrazione in molte occasioni. Innanzitutto quella dell’Inghilterra finalmente libera che sconfigge il virus con le sue forze e diventa un esempio globale. E ora la nazionale di calcio che dimostra la sua superiorità, piegando le squadre europee, con l’Italia come agnello sacrificale.

Prima della partita, gli inglesi avevano già chiesto che il lunedì fosse dichiarato giornata festiva per poter celebrare la vittoria. Il significato politico implicito del rito è che gli inglesi sono i migliori. E ora che si sono emancipati dai vincoli europei possono dimostrarlo senza infingimenti. È l’immagine della potenza neoliberista affidata alla nazionale di calcio quella che scende in campo contro gli avversari azzurri. Come ci ha insegnato Castoriadis, una società è istituita da una costruzione immaginale che pone i fondamenti della sua esistenza e da un linguaggio che fa appello ai suoi simboli. Infatti, l’Inghilterra sembra essersi raccolta attorno a quello che Castoriadis ha definito l’immaginario centrale, un nucleo stabile con molti nodi periferici, che si organizza secondo una rete di immagini, simboli, significati che rispondono a bisogni sociali che acquisiscono un senso non separabile dalla vita quotidiana. Il senso era quello della rivincita del loro stile di vita, della loro scelta di tornare a navigare da soli davanti alla platea globale di spettatori connessi dalla TV. Dietro questo senso si indovinava il sentimento di orgoglio, di rassicurazione, di conferma della propria capacità di controllo del futuro, così come la squadra avrebbe dominato sul campo di calcio.

La narrazione italiana è costruita secondo una storia diversa. Essa comincia con l’esclusione dai campionati mondiali. Una umiliazione che era andata a sommarsi ad altre mortificazioni: il primo paese europeo colpito dalla pandemia e quello con più morti; l’isolamento del lockdown sperimentato per primi; la crisi che minacciava di rendere ancora più fragile l’economia di un Paese diviso e frammentato. Una società che ormai stentava a credere nella sua nazionale di calcio, ma che poi l’ha vista con crescente curiosità affrontare una sfida dopo l’altra senza perdere. Che ha visto scendere in campo un suo campione, Roberto Mancini, come allenatore, che pronunciava parole nuove, andava compiendo scelte coraggiose, costruiva una squadra giovane ed entusiasta.

Lentamente l’Italia si è riconosciuta in quel pellegrinaggio per i campi europei di calcio intessuto di sacrificio, di determinazione, di dolore. Il Paese via via si è identificato con quella squadra che non mollava, che non perdeva, che cancellava la sua umiliazione. Anche la società italiana, nel frattempo, ha cominciato a contenere il virus, a ridurre contagi e morti, ha affrontato la crisi economica con un progetto di riforme che l’Europa ha approvato, prevedendo che avrebbe portato una crescita oltre il 4 per cento. Sconfitti gli avversari uno dopo l’altro, gli azzurri si sono ritrovati senza volerlo a essere i campioni rappresentanti dell’Europa che non voleva cedere agli inglesi della Brexit.

Mancini è apparso sempre più non come l’allenatore-stratega, bensì come l’allenatore-condottiero che guida la sua formazione attraverso la foresta delle prove. Mentre i partiti litigavano attorno al premier Draghi, gli italiani si sono accorti di avere per le mani una nuova immagine dell’Italia che, come spiega il sociologo Maffesoli, è una sorta di matrice che sta alla base della vita quotidiana, che permette di interpretare la realtà, che suscita sensibilità comuni.

É l’immagine della Rinascita, che il Paese desidera senza ammetterlo. L’Italia vuole giocare in nome di tutti gli europei, riprendendosi il posto che le spetta nella comunità internazionale. Infatti, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha affermato che avrebbe tifato per l’Italia, lo stesso hanno fatto politici tedeschi e di altri paesi. Forse era il segno che la nazionale aspettava, l’Europa che affermasse: siete i nostri campioni, ve lo siete meritati. Batteteli.

Il calcio è riuscito, quindi, dove la politica ha fallito: ha saputo fondere i sentimenti estetici della comunità, i suoi simboli, nei quali tanti si riconoscono e che vivono ogni giorno. Il sentimento comune, il sentire con, è la sorgente dell’attesa religiosa, della speranza, della domanda di redenzione, che sono salite sull’aereo per Londra con i giocatori. Gli operai dell’azienda toscana Gkn, licenziati in modo incivile via mail proprio da una società inglese, scrivono una lettera colma di dignità ai campioni: fate un gesto per noi. Batteteli, sussurra il Paese. Bisogna comprendere questa dignità, questo dolore silente, questa volontà per capire perché abbiamo vinto. È questo sentire estetico, infatti, il presupposto della vita comune, anche in luoghi e momenti che possono sembrare lontani dalla dinamica affettiva innescata dalle immagini: Mancini, i giocatori, Mattarella che corre a fare il tifo in uno stadio quasi interamente inglese. Noi stranieri in una ex-Europa diffidente.

Le due squadre sono entrambe forti, hanno molti campioni, due allenatori preparati tecnicamente, contano su punti forti e punti deboli. Ma la partita non si è decisa né sul piano della strategia di gioco, né su quello della tecnica calcistica, per quanto abbiano pesato nell’incontro. Gli italiani hanno vinto per il motivo per cui potevano sembrare perdenti alla viglia: il carattere. Però l’Italia non ha prevalso perché ha messo in pratica le raccomandazioni di una intelligenza emotiva, al contrario perché è apparsa emotivamente intelligente.

La sfida, in realtà, è stata: emozioni inglesi contro emozioni italiane-europee. Il gol dopo pochi minuti, il trauma subito tra i fischi assordanti degli inglesi, ci hanno subito posizionato in una condizione pericolosa. La partita sembrava decisa. Ma è stato proprio nel momento più difficile che i giocatori, guidati da Mancini, hanno saputo ritrovare in se stessi la forza per reagire, come ha detto uno di loro, «senza cedere mai». Ma per riuscirci l’Italia ha fatto appello al suo inconscio emotivo, a quelle emozioni che hanno alimentato e li hanno accompagnati partita dopo partita nella scalata alla coppa. Emozioni che vivono nel legame con il Paese, che hanno dato loro energia, che li hanno fatti concentrare, li hanno sostenuti nel riprendere il controllo del gioco, creando le condizioni per il pareggio.

Come ci spiegano psicologi e neuroscienziati, nel cervello la corteccia (la parte più alta) è la sede del calcolo razionale, ma è la parte più profonda della mente, il talamo e l’amigdala, la parte più antica e primitiva, che è depositaria delle emozioni. E le emozioni non sono in contrasto con il processo decisionale, ma vi partecipano, lo guidano, spingono ad agire. È questa la risorsa profonda che è apparsa in campo: le emozioni hanno sostenuto i giocatori nella reazione. Non abbiamo visto giocare la paura, ma l’orgoglio, il coraggio, la determinazione.

Nello stesso tempo, attraverso la televisione, dallo stadio di Wembley è avvenuto un contagio emotivo con il pubblico italiano, con quello europeo, propiziato dalle immagini dei giocatori che non arretravano, e dal modo con cui recitavano il loro ruolo sul campo: si aiutavano l’un l’altro, se cadevano si rialzavano, se si facevano male volevano rientrare. Il contagio emotivo ha rafforzato l’identificazione dell’Italia con gli azzurri. E quando sono arrivati i rigori, e con essi la vittoria, abbiamo visto la felicità, la rabbia repressa esplodere dopo anni di lavoro. E con loro quella degli spettatori incollati davanti agli schermi. È andata in onda la gioia incontenibile per la meta raggiunta di un viaggio sofferto, per il premio di vedere riconosciuta la propria identità, la propria storia.

Perché questa era la vera posta in gioco nella partita: il Riconoscimento di ciò che si è. Un riconoscimento che, come ha insegnato Honneth, implica molte cose: l’amore, cioè i rapporti affettivi tra i giocatori, che sono un gruppo di veri amici che combattono per l’uomo accanto; la fiducia in sé assicurata dal vincolo affettivo reciproco che hanno sentito con il Paese; il rispetto di sé, vale a dire la legittimità delle proprie pretese che hanno ricevuto l’approvazione degli altri, cioè il rispetto degli altri verso di noi; l’autostima, ossia la considerazione del proprio valore in rapporto al quale è riconosciuto il proprio merito. Fiducia, rispetto di sé, autostima: ecco il riconoscimento che genera solidarietà, perché dà senso al modo con cui noi interpretiamo le nostre relazioni sociali.

Ecco la vera Coppa che gli italiani hanno vinto sotto lo sguardo del mondo.

Il presidente Mattarella ha sottolineato come la squadra abbia fatto onore al Paese. La vittoria è stata così trasferita su un piano morale. L’esperienza emotiva, infatti, è anche un’esperienza morale. I valori influenzano il modo in cui si vivono le emozioni e la dimensione emozionale rivela cosa ha valore e cosa no per gli individui.  Il modello rivelato dagli italiani è quello della solidarietà, del successo condiviso, come ha detto Chiellini, mentre gli inglesi si toglievano delusi la medaglia di secondi quasi a voler delegittimare la sconfitta. Il pubblico londinese bruciava alcune bandiere italiane, ci sono stati episodi di violenza verso alcuni nostri tifosi. E tuttavia all’improvviso lo stadio Wembley si è illuminato di luci bianche rosse e verdi. La notte inglese è stata squarciata dai colori italiani in uno spettacolo elettrico. I colori di una speranza morale che non ha ceduto.

Batteteli, avevano detto. E loro lo hanno fatto. 

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