Quarantacinque anni fa moriva a Belgrado lo scrittore Ivo Andrić, autore del romanzo Il ponte sulla Drina che gli valse il premio Nobel nel 1961.
Era nato nel 1892 a Dolac, Bosnia Erzegovina e, con gli scrittori suoi contemporanei, Miloš Crnjanski serbo, e Miroslav Krleža croato, fa parte della triade irripetibile che rappresenta, a tutt’oggi, la letteratura dell’ex Jugoslavia.
Sarà impossibile riassumere in poche righe la sua poetica, ma nel dirvi che Andrić si riconosce subito dalla sua melanconia slava e dalla razionalità occidentale, per una volta confesso e mi concedo la libertà, come studiosa di Andrić di poter offrire, da dentro, un’indicazione per una lettura dello scrittore proiettata verso quella forma letteraria e culturale che induce alla conoscenza.
Una narrazione, la sua, a noi vicina ma ancora mancante di una ricezione da non rimandare oltre perché è uno di quegli scrittori che non ha smesso di dialogare con il nostro tempo.
Andrić ha fatto propria la storia del suo popolo, dove la modernità è sempre quella di prima: crogiolo di lingue, etnie, religioni. Un visionario dell’epoca contemporanea che scava nel passato e lo riporta al futuro, con l’obiettivo di scongiurare la negazione. L’appartenenza a quel fazzoletto di terrà «in mezzo al mondo», la natia Bosnia «che ha portato sempre dentro di sé» – come amava ricordare è, di certo, il segreto della sua scrittura intrisa di storia e dell’uomo alla sua mercè.
Andrić nella sua opera narra di come, per ogni nativo della Bosnia – l’essere nati al confine tra l’Oriente e l’Occidente, è una porta che si finisce per ritenere la memoria ereditata. Ne è la conferma l’intangibile descrizione delle tre diverse confessioni religiose che solo nella vita comune e nella koiné bosniaca si completano.
ll topos Bosnia è diventato un’elevazione apologetica, una sorta di cosmogonia da cui si apprende la verità, la libertà. La Bosnia di Andrić è quella dell’infanzia a Travnik e Višegrad, del liceo a Sarajevo dove inizia a scrivere le prime poesie, a leggere i classici greci e latini, a tradurre racconti di Pirandello e le poesie di Whitman.
Sono gli anni in cui diventa attivista del movimento Mlada Bosna (Giovane Bosnia), di cui faceva parte anche Gavrilo Princip, l’assassino dell’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando D’Asburgo e della moglie, il 28 giugno 1914, data che segna la fine dei tre imperi austro-ungarico, russo e ottomano. Gli anni in cui si iscrive all’Università di Zagabria per poi frequentare alcuni semestri all’Università di Vienna e di Cracovia dove si trova quando viene accusato di aver fatto parte della Giovane Bosnia e incarcerato dal 1914 al 1917, prima a Spalato, Maribor e Sebenico e poi mandato al confino a Ovčarevo e Zenica.
Durante quegli anni compone le raccolte di poesia: Ex Ponto che uscirà nel 1918 e Inquietudine nel 1919. La terza raccolta dal titolo Cosa sogno e cosa mi accade uscirà postuma nel 1976.
Nei due taccuini inediti, che ho avuto la fortuna di consultare, catalogati sotto la dicitura Piccolo bloc notes copertina colorata (scucita) – 1915-1917 Andrić ha scritto le sue poesie e, nell’altro Bloc notes marrone (1917-1918) ha annotato proverbi jugoslavi e citazioni di versi a memoria di Dante, Tasso, Goethe e i pensieri di Kierkegaard.
Dopo la Prima guerra mondiale, Andrić inizia la carriera diplomatica e la prima sede sarà Roma, tra l’inizio del 1920 e la fine del 1921, in qualità di III segretario presso la Santa Sede, in rappresentanza dell’allora costituito Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Esattamente cento anni fa Andrić è a Roma e, nonostante diversi malanni e i postumi della tubercolosi, inizia a scrivere i primi racconti. Catapultato dalle periferie delle terre appartenute alla monarchia asburgica, arriva al bagliore romano: dal buio della guerra, al sublime dell’arte. Le rovine e lo splendore si confanno al suo stato d’animo e Roma corrisponde all’idea che si era fatto di essa. In una cartolina, datata 12 aprile 1920, con un’immagine di Raffaello – «piccolo ricordo» -, scrive all’amico Miloš Crnjanski: «Studio senza sosta, questo è tutto, e questa è la mia vita di adesso». Altre sedi saranno Bucarest, Madrid, Ginevra e l’ultima sarà Berlino, come ambasciatore, all’inizio della Seconda guerra mondiale, che lascerà per ritirarsi a Belgrado dove scrive e pubblica, nel 1945, i tre romanzi: Il ponte sulla Drina, La signorina e La cronaca di Travnik.
Ne Il ponte sulla Driana si legge, nella motivazione del premio Nobel, Andrić «apre una pagina, finora rimasta sconosciuta, della cronaca mondiale, e ci parla dal profondo dell’anima dolente degli Slavi del Sud». Altri candidati di quell’anno furono: Graham Green, Lowrence Darell, Karen Blixen, John Steinbeck e Alberto Moravia.
Aggiungo una nota personale su Moravia in merito al Nobel assegnato ad Andrić.
Qualche anno prima della sua scomparsa avevo tradotto in serbo-croato il Breve racconto italiano tra cui il suo racconto C’è una bomba N anche per le formiche e, per lettera, gli ho fatto un’intervista e lui mi ha inviato le risposte scritte di suo pugno. Una delle domande riguardava l’incontro con Ivo Andrić a Roma nel 1962; fu l’unica alla quale non aveva risposto.
Nulla da eccepire se si rileggono i nomi altisonanti degli scrittori candidati, combinazione mai più ripetuta e così rappresentativa a livello mondiale.
La struttura del romanzo Il ponte sulla Drina si basa sul sacrificio di fondazione, canone poetico che riguarda la costruzione delle città e dei ponti già menzionato nell’Antico Testamento, nella costruzione della città di Gerico, quella di Alessandria e nel noto sacrificio di Ifigenia che, su richiesta degli dei fu sacrificata dal padre, prima che i greci entrassero a Troia.
Nella letteratura contemporanea, in molti scrittori balcanici, ricorre il tema del sacrificio di fondazione che non è incentrato sul sacrificio di una donna né di bambini gemelli, come nell’antichità, bensì sul sacrificio di un uomo e, nel caso di Andrić, un contadino scelto a caso.
La descrizione dell’impalamento è una delle scene più cruenti della letteratura mondiale in quanto la «punta del palo non usciva dalla bocca, ma dalla schiena, così, da non essere leso né il cuore né i polmoni», per soffrire più a lungo.
La leggenda del sacrificio umano garantisce che la costruzione giungerà al termine: ciò che resta è l’opera, e il ponte è l’opera d’arte. E colui che lo fa costruire sulla Drina, nel 1571, è un giannizzero che ricordando la fanciullezza interrotta fa erigere il ponte che eleva lo spirito della sua gente e la trasporta «dall’altra parte».
La giuria ha voluto premiare nell’opera di Andrić la «forza epica con la quale ha tracciato temi e descritto destini umani tratti dalla storia del proprio popolo».
Rare volte il giudizio è stato così appropriato per un’ opera che spazia dalle poesie ai romanzi, ai racconti e persino alla tesi di dottorato dal titolo La vita spiritale in Bosnia ed Erzegovina durante l’occupazione turca (Die Entwicklung de geistlichen Lebens in Bosnien unter der Einwirkung der turkishen Herrschaft), conseguito all’Università di Graz nel 1924 che, per l’appunto, descrive la storia della sua terra e il destino di quella umanità dolente che, coltivando la propria lingua, non soccombe e resiste, in silenzio, per i quasi cinque secoli di dominazione turca, coniando il canto orale che tanto piacque ai romantici europei, da Goethe a Grimm, da Lamartine a Mérimée, da Byron a Scott, da Tommaseo a Mazzini.
Quei «canti modello», «canti immortali» erano l’unica possibile risposta culturale al razionalismo di Descartes, all’empirismo di Leibniz, all’enciclopedismo di Diderot, di Rousseau e di Voltaire.
Ma già dalla sua poesia, dai versi «tutto ciò che vedo è poesia, / tutto ciò che tocco è dolore» si era capito che Andrić aveva più talento per il dolore e, da qui, la mancanza della gioia nella sua opera che nessuno ha mai descritto e nemmeno menzionato. In proposito, è confacente la celebre espressione dello scrittore Miloš Crnjanski: «Scrivendo del dolore e avendo pudore delle lacrime, Andric ha descritto la nostra anima slava».
In Andrić il dolore si tiene e non si subisce. Aveva inaugurato un nuovo modo di esternare la presenza della sofferenza e l’indecifrabile prodigio della sconfitta come fine per risorgere.
È il retaggio delle ballate medievali della sua gente prepotentemente entrate e rimaste presenti nella sua scrittura. Vale a dire che nelle leggi terrene c’è sempre la mano tesa del destino e, qui si legge, destino ereditato da cui attingere.
Una considerazione che, a posteriori, conferma che l’opera di Andrić, in quanto autoctona e nel contempo universale, ha condizionato la letteratura – e dopo la disgregazione della Jugoslavia – si tiene a precisare oggi -, le letterature, termine plurinomico, della lingua del suo popolo.
Lo conferma il suo discorso più importante dal titolo Sul racconto e sul raccontare, tenuto il 10 dicembre 1961 durante la cerimonia del premio Nobel a Stoccolma. Con tutta la foga narrativa Andrić dimostra la sua padronanza dell’essere lo scrittore che emula e ripete, se si vuole, il solo racconto di cui è portavoce – la Bosnia, dantescamente Fiorenza mia, che gli ha insegnato come adeguare il suoi passi e incedere nella vita.
Oltre a menzionare quella proprietà tramandata del racconto e del raccontare, Andrić parallellamente inserisce una frase «Cogitavi dies antiquos et annos in mente habui» (Pensavo ai tempi antichi e ricordavo gli anni dell’eternità).
Sulla fonte, leggendo la Biblia Sacra (Vulgatae Editionis), ho scoperto che si tratta del Salmo 76/77 che aveva ispirato anche Francesco d’Assisi di cui Andric si era occupato nei suoi scritti. Quanto alla sua simbolica teologica si tratta di un lamento che invoca l’intervento divino e la scelta verte, non a caso, su due tempi, importanti allo stesso modo: quello che riguarda la storia – biblica della salvezza, e quello del tempo presente.
I Salmi sono dialoghi tra Dio e l’uomo e, la scelta di Andrić, anche in questo caso, dimostra quanto l’uso di ogni artificio letterario e tutto il fundus linguistico per descrivere, è ciò che si oppone al racconto dell’uomo nel tempo e nello spazio.
Il supporto si trova nella preghiera dei Salmi che si può considerare la descrizione ontologica della sua poetica non spiegabile solo razionalmente.
E così, in ogni dove, ogni città che ha il suo ponte, ha la stessa filosofia: «Che la vita è un miracolo impenetrabile, perché si consuma e si disfà incessantemente, eppure dura e sta salda come il ponte sulla Drina».
Letture
Ivo Andrić, Il ponte sulla Drina, Mondadori, 1960
Ivo Andrić, Poesie scelte, a cura di Stevka Šmitran, Le Lettere, 2000
Stevka Šmitran, Sul racconto e sul raccontare (O priči i pričanju), Politika, 16 dicembre 2006