Joe Biden presidente di un’America in guerra con se stessa

Sergio Baraldi

Joe Biden diventa presidente di una America in guerra con se stessa. Il conteggio dei voti è stata una lunga battaglia che minaccia di finire in tribunale, la campagna elettorale è stata dura. Non si sono risparmiati colpi all’avversario, soprattutto da parte di Trump che ha cercato di fermare il conteggio dei voti e ha provato a costruire la storia della (sua) vittoria rubata. Il Paese è arrivato all’elezione in uno stato d’ansia acuto che ha contagiato politici e cittadini. È un’America divisa quella ha deciso come raramente ha deciso nella sua storia: non riconfermare il presidente in carica. Un atto quasi traumatico accaduto due volte nel Novecento con Carter e Bush senior. L’America oggi è un Paese segnato da rancori e questa eredità allungherà la sua ombra sulla nuova presidenza.

Del resto Biden non può affermare di avere vinto perché ha saputo proporre al Paese una agenda definita e chiara, o perché la campagna è stata l’affermazione di un progetto di cambiamento e di modernizzazione ulteriore degli Usa. Biden non ha riformato il partito democratico, come fece Clinton, nè ha stipulato nuove alleanze sociali come il suo amico Obama. Biden ha vinto perché queste elezioni sono state trasformate in un referendum su Trump. La sua biografia di uomo pacato, moderato, di lunga esperienza, che può ascoltare quasi con saggezza un Paese inquieto, è apparsa agli americani, non solo democratici, necessaria in questo momento storico. L’America era a un bivio: avvertiva il bisogno tornare alla normalità civile per affrontare i suoi veri problemi, l’epidemia e l’economia innanzi tutto, e non poteva più seguire l’uomo che ha infranto la politica, Donald Trump. Il vero messaggio di Biden è stato un rassicurante: non sono Trump. L’elettorato che ha fatto vincere Biden, quindi, è stato unificato soprattutto dal rifiuto di Trump.

L’identità politica che assorbe l’identità sociale
La sfida più difficile e complessa per il nuovo presidente così comincia adesso: tocca a lui la fatica di ricucire il volto della nazione, di ridisegnare il suo cammino tra la complessa competizione con la Cina, l’emergenza sanitaria, la crisi ambientale, le profonde disuguaglianze sociali interne, l’emigrazione, e un sistema democratico messo a dura prova. È sua responsabilità distribuire speranza. Biden sembra consapevole che The Donald non è stato un incidente della storia. Non ha inventato lui l’America divisa e conflittuale che poi ha rappresentato. Ma lui l’ha cavalcata e estremizzata. Lui le ha offerto un immaginario e una voce. Questa America deve essere curata.

La resistenza a sorpresa di Trump ha rivelato il problema di fondo cresciuto a dismisura negli anni in America: l’identità politica ha lentamente assorbito l’identità sociale e quella individuale. La conseguenza di questo cambiamento ha cominciato a produrre i suoi effetti prima di Trump. A mettere a fuoco questo processo sono stati i professori Iyengar, Sood e Lelkes in un saggio breve (A social identity perspective on polarization, Public Opinion Quarterly, 2012). Il punto di partenza era la crescente polarizzazione della società, vale a dire la concentrazione degli orientamenti politici su posizioni più estreme e la dispersione del mainstream centrale in un Paese che ha una storia moderata. Iyengar preferisce utilizzare il concetto di distanza sociale che tra democratici e repubblicani ha superato i confini storici. Sempre più spesso i cittadini che votavano per l’uno o l’altro partito hanno cominciato a guardare all’altro come un possibile traditore dello spirito americano. L’avversario si è lentamente trasformato in un nemico degno persino di disprezzo. Nelle persone è prevalsa quella che in psicologia viene definita la cognizione motivata, una percezione della realtà che viene influenzata dalle motivazioni dei soggetti. È per la cognizione motivata che tendiamo a dare più fiducia a chi riteniamo vicino, simile, che stimiamo, o ai membri del gruppo (anche politico) di cui facciamo parte. Agli altri la fiducia e la stima vengono negate.

In passato i liberali e i conservatori erano distribuiti in entrambi i partiti, ma nel tempo un più forte allineamento ideologico e persino geografico ha trasformato l’orientamento politico in una identità dominante. Una conseguenza è che si cercano, si approvano, si crede a informazioni che parlano positivamente del proprio partito e negativamente degli avversari. Non ci sarebbe solo un bisogno di conferma alla base della selezione delle informazioni, concorrerebbe la cognizione motivata. In effetti, in Usa sono diventati sempre più evidenti fenomeni sociali prima più rari: matrimoni solo tra persone che condividono le medesime idee politiche, la scelta della residenza dove il contesto sociale corrisponde maggiormente alle proprie posizioni politiche. Esiste ormai una vera e propria geografia politica: i democratici in genere sono più numerosi nelle aree urbane e i repubblicani nelle aree esterne, in provincia, in quelle rurali. Un cambiamento che ha investito anche l’Europa. Le dinamiche dei gruppi, che la psicologia studia da decenni, con le preferenze in-group e l’avversione out-group, si sono generalizzate e estremizzate.

Identità e controllo
La polarizzazione della società americana ha cause profonde. In parte è guidata dalle diseguaglianze economiche ed è stata innescata dalla globalizzazione. Un’influenza l’hanno avuta anche i media, che sono apparsi sempre meno imparziali e più partigiani. Il successo di Fox tv, che ha scommesso su un mercato di telespettatori conservatori, ha fatto scuola. Anche i social network con le loro camere dell’eco avrebbero avuto un ruolo (comunità che condividono gli stessi orientamenti nelle quali informazioni e idee vengono ripetute e confermate, per quanto alcune ricerche abbiano messo in evidenza che non impediscono la diffusione di una informazione pluralista e inciderebbero su una quota minoritaria di persone). In ogni caso, i media hanno amplificato e rilanciato le bolle del nuovo conformismo. Ha contribuito anche la polarizzazione delle élites. Un peso non secondario lo hanno avuto politici e candidati americani come Newt Gingrich, che con la sua retorica dell’oltraggio morale ha finito per influire su entrambi i partiti. Gingrich aveva ottenuto buoni risultati.

Diversi processi psicologici, sociali, economici hanno favorito un allineamento dell’identità individuale e sociale con l’identità politica, che ha alterato le auto-identificazioni religiose, di classe, persino riguardo l’orientamento sessuale. La conclusione è stata una nazione frammentata, che tende a rinchiudersi in cleavages omogenee, gruppi divisi da linee culturali, da interessi politici e economici che tendono a politicizzarsi sempre più nel conflitto con gli altri. Il proprio vissuto, la propria esperienza personale diventano l’unica base del giudizio. Le perdite politiche sono vissute come minacce esistenziali. Le proprie credenze sono sempre meno negoziabili, diventa più difficile ricercare accordi e compromessi. Secondo molte ricerche, democratici e repubblicani sovrastimano le differenze che ci sono tra di loro e vivono l’uno un pessimo giudizio dell’altro. Entrambi i partiti tendono a pensare che se comanda l’altro, comanda una minoranza. Emerge negli anni un sistema di credenze normative, come dicono i sociologi, che implicano una ridefinizione simbolica della realtà con nuovi significati e interpretazioni che non si conciliano con quelli dell’altro partito.

Trump non ha inventato questa America, ma le ha offerto un canale di accesso al massimo decisore del Paese: il presidente. Ha trasformato la frustrazione crescente di settori sociali che si sono percepiti come gli sconfitti della globalizzazione: ceto medio impoverito, ceto operaio, in prevalenza bianchi. La protesta degli esclusi è stata modellata in una pressione politica e questa in una politica simbolica. Che difendesse davvero i loro interessi era diventato persino meno rilevante. Quello che contava è che la protesta era vincolata a una identità collettiva basata più sulla affettività, sulla dimensione emozionale che ideologica. E l’identità chiede innanzi tutto riconoscimento e autorispetto. In alcuni quartieri periferici delle città americane con un’alta disoccupazione sono comparse scritte che esprimevano questo bisogno in uno slogan: «Vota Trump, continua a vincere». Quasi una richiesta di aiuto.

Non può sorprendere, quindi, la resistenza dimostrata dal presidente uscente presso un ampio elettorato popolare e in parte nascosto ai sondaggi: la difesa dell’identità sembra per tanti un modo per esercitare un controllo su un mondo che appare sfuggito di mano e che è diventato ostile. Identità e controllo sono necessari per riprendere il proprio posto nel mondo e per dare un senso alla sofferenza individuale. E mitigarla. Il nesso tra identità e controllo non è stato colto dai democratici già con Obama, che pure ha varato una importante riforma sanitaria. Come aveva scritto Foucault (Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, 2004) la maniera di condurre e condurre se stessi, di governarsi e governare, ha consentito la nascita di nuove forme di rapporti economici e sociali e di strutturazione politica. Trump ha messo in scena tutto questo e ha usato la protesta per raccogliere consensi. Imitato dalla destra internazionale.

La presa del settarismo morale sulla politica
Dopo la stagione dei diritti e della contestazione negli anni ’60 e ’70, in America c’è stato un riallineamento del sistema dei partiti e della società. I bianchi del sud, soprattutto con basso livello di istruzione, sono approdati al partito repubblicano e il partito democratico è diventato più il partito delle minoranze e dei bianchi con alto livello di istruzione e (spesso) di reddito. Oggi i liberal sono irreggimentati più di ieri nel partito democratico e i conservatori nel partito repubblicano. Gli schieramenti si sono ordinati secondo linee di demarcazione più nette e semplificate del passato. Lo ha spiegato la professoressa Liliana Mason, della Stony Brook University di New York in un saggio breve (The rise of uncivil agreement: issue versus behavioral polarization in the american electorate, American Behavioral Scientist, 2013). In realtà, su alcuni temi e problemi, democratici e repubblicani sono distanti, ma lo sarebbero meno di quanto appaia. Lo scontro sarebbe più sul livello del comportamento, dello schieramento, della militanza, del voto. Le due polarizzazioni non sarebbero automaticamente connesse, in alcuni casi potrebbero persino divaricarsi.

Questo fenomeno fa emergere due fattori diventati rilevanti nella politica americana. L’identità politica ha subito negli ultimi tempi una torsione: sempre più spesso l’identificazione con un gruppo è diventata meno ideologica e più morale, quindi anche affettiva. La presenza di valori, scelte etiche, sentimenti ha contribuito ad alimentare la faziosità delle posizioni. La convinzione della propria superiorità morale sull’altro ha agevolato la presa del settarismo sulla politica. Sempre più spesso il conflitto politico ha assunto toni e comportamenti di un conflitto religioso. Il settarismo ha condotto i due partiti a un aspro scontro sul confine tra tradizione e detradizionalizzazione (la prima sostenuta dai repubblicani, la seconda dai democratici), anche se si tratta di una tradizione immaginata. Nella tradizione del passato, l’identità politica è secondaria rispetto alla religione, nel nuovo settarismo sembra accadere il contrario: l’identità politica sembra definire la religione, se sei conservatore e sei credente probabilmente sei evangelico. Un processo che con Trump si è estremizzato con un blocco sociale cristiano tradizionalista che appoggia la destra.

Secondo la Mason il settarismo politico poggia su tre ingredienti: l’othering, che potremmo forse tradurre come affermazione del proprio gruppo e costruzione dell’altro visto come estraneo, alieno rispetto a se stessi. L’avversione: la tendenza a considerare indesiderabile socialmente, nemico l’altro, e a non stimare gli avversari. Non a caso Trump ha diffuso una retorica dell’offesa contro i democratici e chi gli si oppone. Infine la moralizzazione: la tendenza a vedere chi non fa parte del proprio gruppo come iniquo e amorale. La convergenza di questi fattori renderebbe il settarismo politico corrosivo della sfera pubblica. La faziosità pone in discussione la funzione delle istituzioni di rappresentare tutta la società e giustifica il tentativo di farne strumento politico e morale di parte. Gli elettori tendono a non cambiare voto e a non votare mai l’opposizione: i politici così una volta eletti sono incentivati a rappresentare solo la loro base elettorale. Sembrano queste le radici della divisione dall’alto della società (già divisa) operata da Trump. Ed è per forse questo che Biden ha spiegato ai suoi sostenitori che si deve smettere di considerare i repubblicani degli avversari, che lui vuole essere il presidente di tutti, che c’è una sola America. Il settarismo stimola a utilizzare tattiche che forzano le regole democratiche. Trump per evitare la proclamazione della vittoria di Biden e per costruire il frame della vittoria rubata è pronto a una guerriglia legale per sospendere lo scrutinio e diffondere il sospetto sul conteggio dei voti. La sua insistenza nel diffondere la narrazione falsa della vittoria rubata (non ha dato nessuna prova) rischia di minare la fiducia dei cittadini nel sistema elettorale democratico. Ma il settarismo impone uno scontro totale pur di non cedere al nemico. L’immagine di sé alla quale lavora è quella della vittima di una cospirazione, del difensore del suo popolo fino all’ultimo, non dello sconfitto dagli elettori. Per riuscirsi mette sotto accusa la correttezza, la competenza delle istituzioni (la posta, le amministrazioni degli Stati) nel garantire un servizio imparziale ai cittadini. I suoi tweet le notti dello spoglio erano appelli al suo popolo a mobilitarsi, quasi una sorta di chiamata alle armi. La competizione politica è tornata a essere una guerra.

Lo scisma della società e il suo immaginario
Il settarismo politico, quindi, sembra stimolare la volontà di infliggere un danno agli avversari. Esige di dare la precedenza alle proprie priorità politiche sull’interesse generale. Per cui temi e problemi che non sarebbero di parte (il voto per posta) si politicizzano e impediscono di progredire. È quanto è successo con il governo repubblicano anche sul clima, sulla riduzione del debito federale, sul virus. E soprattutto sull’aborto, questione morale che per l’elettorato di Trump sembra più urgente del virus. Proprio la pandemia ha evidenziato la presa della faziosità morale sulla politica. Un rapporto del 2019 della prestigiosa John Hopkins University ha affermato che gli Usa sono meglio preparati di altri per affrontare la pandemia. Ma oggi oltre 232mila morti e 9 milioni di contagiati (ormai 100 mila al giorno) fanno degli Usa l’epicentro mondiale della malattia. Ma il settarismo politico e morale ha trasformato la mascherina antivirus in un simbolo partigiano, ha scelto di sottovalutare la scienza, ha posto l’esigenza produttiva davanti alla vita umana. Del resto molti democratici erano favorevoli alle chiusure nonostante i costi economici, rischiando di farne un altro simbolo di parte.

Uno scisma, quindi, sembra avere investito la società americana. Trump ne porta la maggiore responsabilità, anche se i democratici hanno commesso degli errori. È come se si fossero fronteggiati due eserciti: quelli che volevano difendere la crescita (consapevoli che avrebbe pesato nell’urna) e quelli che sostenevano il distanziamento sociale (nella speranza che premiasse elettoralmente). Ma il risultato è stato costoso e pericoloso per tutti. Il mix di ideologia e morale ha alimentato il settarismo. Per la Mason gli americani non avvertono rabbia perché in disaccordo sui problemi, ma principalmente per lo spirito di fazione che ha preso il sopravvento. I temi degli altri vengono rigettati. Il conflitto politico si è spostato da l’essere un disaccordo ragionevole a una discordia quasi religiosa. L’altro fa infuriare, è inferiore, deve essere fermato. Se non si riesce, la sconfitta viene vissuta come una catastrofe. Il sentimento di questa America sembra la rabbia. Per Biden non sarà facile promuovere comprensione e dialogo. Del resto lo scisma della società americana ha mostrato persino il doppio volto del nazionalismo: al tradizionale nazionalismo civico si contrappone l’altrettanto tradizionale nazionalismo etnico di Trump e della destra. La rabbia che si avverte nella società americana sarebbe, quindi, il frutto avvelenato di una identità politica attorno a cui gravitano le identificazioni degli individui fondate su una visione morale del mondo, e una avversione all’altro che o è come me o non esiste.

Spostare la frontiera
Se si guarda agli atti politici di Trump sembra di potere affermare che è soprattutto la dimensione dell’immaginario, emozionale e identitaria che ha provocato lacerazioni profonde. Le sue scelte politiche su tasse, economia, immigrazione, non si sono molto discostate dalle classiche posizioni repubblicane anche se Trump le ha radicalizzate. Al contrario il presidente uscente ha impresso una svolta profonda nella narrazione, nell’immaginario americano che l’ha sostenuta, nella decisione di cavalcare ed estremizzare la deriva identitaria. Non si erano mai viste in Usa le gabbie per i bambini degli immigrati, né un presidente che vuole schierare (senza riuscirci) l’esercito contro le proteste dei neri per l’uccisione di cittadini afroamericani. O mettere in dubbio il sistema elettorale. Trump ha utilizzato senza scrupoli il potere del simbolico, della narrazione, non solo per affermare valori e obiettivi politici che, per esempio, hanno riattivato il nazionalismo razziale (che era già emerso con Obama); lo ha usato per dare un ordine nuovo alla società. Trump usa abilmente la tendenza di molti di allineare le proprie preferenze all’identità politica. In Florida e Texas tanti cittadini ispanici a sorpresa hanno votato per lui invece di scegliere i democratici, che si battono per i diritti dei loro connazionali, perché difendono il loro benessere e non vogliono che sia insidiato da altri. Trump si serve dell’immaginario per produrre una realtà diversa dal reale: la sua sconfitta viene deformata e narrata come un’usurpazione, il voto democratico viene figurato come un imbroglio. Dice di aver vinto quando il conteggio iniziale lo dà in vantaggio, poi quando lo scrutinio ha offerto dati favorevoli a Biden, il presidente uscente ha gridato al complotto: «Nella notte il mio vantaggio è magicamente sparito».

Biden eredita così un’America in guerra con se stessa, che dovrà liberarsi del veleno della settarismo politico per ricominciare più unita. Non sarà facile. La sua presidenza rischia di impantanarsi in una trincea legislativa, dove potremmo vedere anche alcuni Stati contro il potere federale. I progetti riformatori rischiano di arenarsi. E tuttavia questa sembra l’impresa a cui è chiamato il «presidente tranquillo»: spostare la frontiera che divide i cittadini dall’interno nuovamente all’esterno dell’America.

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