Josè Altafini è uno dei migliori amici. Vive ad Alessandria, si occupa di campi sintetici, coltiva la nostalgia senza eccessivi rimpianti, segue il calcio con la consueta competenza e ironia. Il campione di Piracicaba è stato il mio primo beniamino nel football. Ero bambino a San Paolo del Brasile e mio padre mi portava a vedere le partite del Palmeiras, che un tempo si chiamava Palestra Italia, ed era la società degli italiani, tra ricordi e passione. Il centravanti della mia squadra era un fenomeno, un tipo dal gol facile e dal sorriso simile a un lampo di sole, lo chiamavano Mazzola perché assomigliava in modo straordinario a capitan Valentino, anima e cuore del Grande Torino: José Altafini.
Nel 1958 conquistò il mondiale in Svezia, con Seleçao di Garrrincha e Pelé, di Gilmar e Nilton Santos. Nel mio amato club, maglia verde con una P bianca sul petto, faceva il fenomeno. Lui, ricordando quei giorni, mi dice: «Quando entravo in campo mandavo sempre un saluto a te e al tuo papà. Perché non ricambiavate mai?». E scoppia nella sua solita, accattivante risata. Impossibile non volergli bene. Lui, che ha vinto tutto e che non ha mai commesso un peccato di arroganza o di presunzione. Il Milan, il Napoli, la Juventus, la carriera terminata in Svizzera e poi quel continuare a giocare, per divertimento, fino a tarda età, nei circoli privati o in campi di periferia, dando l’esempio ai giovani e dimostrando che la classe è qualcosa di innato, che possiedi nelle vene e nel cuore. È stato un goleador dotato di fantasia, capace di compiere qualsiasi prodezza, in acrobazia, di testa, in velocità, in dribbling: tutto gli riusciva semplice, naturale.
E ci manca vederlo o ascoltarlo in televisione. Il suo modo di commentare le partite è stato rivoluzionario: ha portato il paradosso, la simpatia, l’originalità. Cominciò a Telemontecarlo nel 1981, al fianco del telecronista (bravissimo) Luigi Colombo. Fece scuola con i suoi golasso, «incredibile, amici!» (che puoi suonava amisci), le sue iperboli, il suo manuale del football immaginario, dove ogni prodezza sul prato verde possedeva una pagina di riferimento. Ho avuto la fortuna di averlo al mio fianco quand’ero direttore di Tele+ e di Quartarete Tv: divertimento e professionalità garantiti.
A Torino, nei primi tempi, si sentì smarrito: «Qui, per consolarsi, uno deve raccontarsi le barzellette da solo». Per poi amare, profondamente, la città gozzaniana dalle «dritte vive corrusche di rotaie». E nel capoluogo torinese la nostra amicizia è diventata sempre più vera, sempre più forte. Abbiamo condiviso giorni e notti, recuperando, soprattutto, la saudade per il nostro Brasile. E la sua commozione per Garrincha, l’angelo dalle gambe storte, l’ala destra che sapeva interpretare il canto dei passerotti: «Se ne è andato in solitudine dopo aver donato al popolo il calcio più bello».
Si sentiva, a tutti gli effetti, un oriundo: il sangue italiano e l’orgoglio di essere nato nella terra del carnevale e della straripante bellezza. Venne al battesimo di mio figlio Santiago e, insieme, abbiamo girato mezza Italia presentando i miei libri o semplicemente per parlare dei segreti e della magia del pallone. In ogni occasione, lo accoglievano come un idolo. La gente lo riconosceva, lo abbracciava, gli chiedeva di quella volta con Rivera, delle stagioni napoletane, di Omar Sivori, di quando segnava nella Juventus entrando nel secondo tempo.
Lui accontentava tutti, rispolverando i suoi strepitosi aneddoti. Quelle sue storie che sono una via di mezzo tra un racconto di Osvaldo Soriano e una narrazione da «realismo magico» di Gabriel García Márquez. Divertiva e si divertiva, non aveva mai fretta, gli piaceva stare con la gente e tra la gente. E continua a sentirsi un fanciullino ancora oggi, a 82 anni: un asso senza tempo e senza età.
In questo tempo di pandemia, ci sentiamo spesso per telefono. Ed è un navigare nel passato, nel presente e nel futuro. Conferma la sua stima infinita per Messi («Rimane il migliore al mondo») e non si entusiasma per il connazionale Neymar («Pensa troppo ai suoi capelli»). Soprattutto non si fa mai prendere dalla malinconia: «Un sorriso, uno solo, ti salva la giornata».
Infinito, meraviglioso José.