La Barcellona di Ildefonso Cerdá in anticipo sui tempi

Ildefonso Cerdá è stato l’artefice della metamorfosi di Barcellona. L’innesco che ha permesso alla città di cambiare volto e di avviare un processo virtuoso di sviluppo urbano. È stato, inoltre, il coordinatore della prima indagine statistica che ha reso evidente la miserrima condizione igienico-sanitaria in cui erano costretti a vivere la maggior parte degli abitanti della città catalana. E, grazie a questa indagine, ha accelerato il processo che, il 12 agosto 1854, portò all’ordinanza di demolizione delle fortificazioni.

Finalmente anche Barcellona, tra le ultime in Europa, poteva espandersi oltre le mura. Grazie a un piano che è stato il presupposto per la scrittura della Teoria Generale dell’Urbanizzazione: «un’opera paradigmatica» come l’ha definita Françoise Choay considerando che «questa teoria, pubblicata nel 1867 dall’ingegnere spagnolo Ildefonso Cerdá per fondare e giustificare la scelta dell’assetto da lui adottato nel suo Piano per la città di Barcellona (1859), è in effetti contemporaneamente la prima in ordine di tempo e la più pienamente sviluppata».

Tra Cerdá e Barcellona c’è, quindi, un rapporto di inestricabile reciprocità che è molte cose insieme: troppe per una disamina esaustiva. Tuttavia, la prospettiva attraverso la quale questo rapporto può essere analizzato ha tre punti di fuga principali: il piano di ampliamento, la fondazione della disciplina urbanistica, la capacità di una visione al futuro di straordinaria lungimiranza.

«Le nuove costruzioni di Barcellona e dei Comuni contermini dovranno d’ora innanzi tener conto dei tracciati del piano dell’ingegnere Cerdá, da noi approvato con ordinanza reale del 7 giugno 1859». Non senza contrasti, anche molto aspri, l’ordinanza reale proveniente da Madrid da avvio alla costruzione dell’Ensanche (in Catalano Eixample). Il piano di ampliamento di Cerdá si caratterizza per una maglia ortogonale edificata su due lati con un ampio spazio centrale destinato a verde. E ha una configurazione geometrica apparentemente molto semplice: tre le figure principali, cinque i numeri fondamentali.

La sezione stradale di 20 m. (10 m. al centro per il traffico veicolare e 5+5 m. sui due lati per i marciapiedi) diventa l’elemento cardine sul quale si basano tanto le altre misure del piano quanto la sua configurazione geometrica. Il metodo per stabilire la sezione di 20 m. è legato a una precisa convinzione di Cerdá: «la zona destinata al traffico delle vetture deve avere quanto meno la larghezza necessaria per il passaggio di quattro autoveicoli, una di andata, una di ritorno ed una di fermata per ogni lato, infine non dobbiamo dimenticare di lasciare la parte centrale affinché la ferrovia possa integrarsi alla perfezione con le necessità del traffico ruotato […]. L’ampiezza da desinare al traffico pedonale per nessuna ragione deve essere minore di quella concessa al movimento equestre e ruotato». Queste le ragioni per giustificare le sue dimensioni. La strada però non è solo questo. È anche progetto di suolo.

Con un suo spessore: «se immaginiamo di tagliare in senso trasversale o longitudinale il piano stradale, fino a una certa profondità, troveremo un gran numero di opere d’arte, di volte, di tubi grandi e piccoli attraverso i quali scorre una più o meno grande quantità di liquidi di diversa natura. Si direbbe a prima vista che questi diversi manufatti formino il sistema venoso di un essere misterioso dalle dimensioni colossali. E questa idea, che sembra audace, sottintende nondimeno una analogia reale, poiché tale insieme di tubi non costituisce altro che un sistema di dispositivi che permette lo svolgersi della vita urbana». Cerdá prevede, inoltre, tutte quelle dotazioni che devono garantire il soddisfacimento di tutte le esigenze degli abitanti quali «le panchine destinate al riposo dei pedoni […]. Con la locomozione sono apparsi i paracarri per delimitare il passaggio dei veicoli […]. Fin dai tempi più antichi furono piantati anche gli alberi […]. Se in altri tempi venivano usati per il fresco e per l’ombra che procuravano, oggi devono venire piantati lungo tutte le strade per un motivo di igiene […]. Anche l’illuminazione ha richiesto che nuovi oggetti venissero disposti lungo la superficie stradale [come] i lampioni che verranno posti a distanza regolare sul bordo dei marciapiedi».

Infine, a proposito degli incroci Cerdá sostiene che «se le necessità della viabilità esigono che ogni strada abbia un’adeguata superficie, è evidente che il posto in cui si incontrano quattro strade, dovrà essere, per questa stessa ragione, una superficie equivalente a quella che per unità lineare corrisponde all’insieme delle quattro strade confluenti […]. Per completare l’opera è conveniente smussare i quattro angoli. Tali smussature sono il risultato di calcoli e di ragionamenti che dimostrano, in maniera inconfutabile, quale forma e quale grandezza bisogna dare a tutto l’incrocio per soddisfare le esigenze della viabilità pedonale e ruotata».

Questo l’incipit della Teoria Generale dell’Urbanizzazione: «Inizierò il lettore allo studio di una materia completamente nuova, intatta, vergine. Poiché tutto era nuovo, ho dovuto cercare e inventare parole nuove per esprimere idee nuove, la cui spiegazione non si trovava in alcun lessico. Posto d’innanzi all’alternativa di inventare una parola o di smettere di scrivere, ho preferito inventare e scrivere piuttosto che tacere». L’atto di fondazione della disciplina urbanistica non è quindi segnato da programmi costruttivi, planimetrie, sezioni stradali, ipotesi progettuali ma da «parole nuove per esprimere idee nuove».

È la riformulazione radicale delle metafore, del lessico e dei confini disciplinari. E parte da un’esigenza: «la prima cosa da fare è dare un nome a questo mare magnum fatto di persone, cose, interessi di ogni genere, di mille elementi che sembrano funzionare, in maniera indipendente […] chiamato città».  Cerdá afferma, infatti, come sia «chiaro che il termine città non serviva al mio scopo» ed esplicita l’esigenza di trovare una parola nuova «per indicare questo insieme di fatti diversi ed eterogenei chiamato città».

L’inadeguatezza della parola diventa il presupposto per dare avvio alla ricerca di un nuovo termine che aderisca maggiormente alla realtà complessiva del territorio; che riduca lo scarto con il fenomeno urbano; che sappia coniugare le ragioni della semantica con quelle della pianificazione. «Avrei potuto usare qualche derivato di civitas, ma tutte queste parole erano già cariche di significati molto lontani da quello che cercavo di esprimere. Dopo aver tentato di utilizzare e abbandonato numerose parole semplici e composte, mi sono ricordato del termine urbs che, riservato all’onnipotente Roma, non è stato trasmesso ai popoli che hanno adottato la sua lingua, e si prestava meglio ai miei fini».

Accanto a tali motivazioni, vi sono quelle di natura culturale e simbolica: «la parola urbs, contrazione di urbum che indicava l’aratro, strumento col quale i Romani, all’atto della fondazione, delimitavano l’area che sarebbe stata occupata da una poblacion quando veniva fondata, denota ed esprime tutto ciò che poteva contenere lo spazio circoscritto dal solco tracciato con l’aiuto dei buoi sacri. Si può quindi dire che, tracciando questo solco, i Romani urbanizzavano l’area e tutto ciò che essa conteneva». Esattamente quello che intendeva fare Cerdá: rifondare Barcellona.

Nella Teoria la parola città scompare; diventa un nome senza referente diretto nella realtà; emblema di una lingua morta; ultimo resto di un vocabolario ormai esaurito, concettualmente improduttivo e inefficace. È l’urbe l’oggetto della nuova disciplina. Sia per la necessità di un nuovo vocabolo, poiché «la nostra lingua non possiede termini adeguati sia per esprimere il concetto al quale mi riferisco», sia perché «l’applicazione del motore come forza motrice segnava per l’umanità la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra». Una nuova epoca in cui tutta la strumentazione, che per secoli aveva presieduto alla progettazione della città, sarebbe diventata obsoleta; inutilizzabile; sterile.

Lo sguardo retrospettivo, porterà Cerdá a privilegiare l’osservazione dei «grandi centri urbani» e a convincersi che essi «con il loro organismo prodotto da civiltà pressoché statiche, oppongono numerosi intralci ed ostacoli alla nuova civiltà che esige spazi più vasti» poiché deve rispondere ad esigenze diverse «le cui caratteristiche peculiari sono il movimento e la comunicazione». Ecco perché è necessario evitare tutte quelle «considerazioni di estensione o di gerarchia che non interessano la scienza dell’urbanizzazione». È l’apertura definitiva al territorio. Non solo perché le mura sono state abbattute ma anche, e soprattutto, per il disinteresse mostrato nei confronti del dimensionamento demografico e di ogni possibile frontiera che limiti l’espansione dell’urbano.

L’esergo della Teoria generale dell’urbanizzazione contiene un riferimento biblico: Replete terram. Riempite la terra è l’esortazione che Dio pronuncia due volte. La prima, dopo aver creato l’uomo e la donna dicendo: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Genesi 1, 28). La seconda, dopo il diluvio universale, Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra (Genesi 9, 1).

Una doppia esortazione che conferisce all’uomo la responsabilità del creato. La stessa responsabilità che Cerdá sente nei confronti del territorio, attraverso quello che è il suo principio operativo fondamentale, contenuto anch’esso nell’esergo: «Ruralizzate l’urbano urbanizzate il rurale». Il vero problema non sta, quindi, nel governare l’espansione al di fuori delle mura ma nello stabilire le regole della crescita, non i suoi limiti. Nel dire come fare, non dove arrestarsi. Nell’assecondare l’espansione, non nell’individuare confini dell’urbe. Le categorie oppositive città campagna, centro periferia, urbano rurale, sono definitivamente abbandonate. E con esse, l’idea di città tradizionale. Cerdá capisce che «l’urbe è un nodo della viabilità universale».

Paradossalmente, si potrebbe dire: nasce l’urbanistica, muore la città.

Ieri un’intuizione, in forte anticipo rispetto ai tempi; oggi una consapevolezza diffusa come testimonia Jean-Luc Nancy: «per molti versi, quella che abbiamo vissuto è stata la storia di una progressiva saturazione dello spazio terrestre». La città si è progressivamente trasformata con il passaggio della scala urbana da circoscritta a smisurata. Da tempo, ormai, le caratteristiche del fenomeno urbano non sono più concentrazione e continuità ma dispersione e frammentazione. Il territorio appare come un raggruppamento di multiformi espressioni costruttive; di trame filamentose che si addensano ora in piccoli grumi edilizi, ora in estensioni senza fine. E senza finalità.

Di un’occupazione del suolo che ha superato ogni frontiera, di una dilatazione dell’urbano verso ogni dove. Ovunque e in nessun luogo, è così che la città è diventata diaspora edilizia in assenza di una figura complessiva. Si è avverato quello che aveva previsto Oswald Spengler nel 1918: «per un periodo dopo il 2000 prevedo città da dieci sino a venti milioni di abitanti, distribuite su vasti paesaggi, con edifici tali da far apparire nane le più grandi costruzioni del tempo presente e con sistemi di traffico che oggi sembrerebbero pazzia».

È stato oltrepassato ogni limite ed è solo per convenzione che la città assume il nome del confine amministrativo in cui ricade. Non c’è soluzione di continuità. Il fenomeno urbano è interminabile. Un processo arrivato, ormai, a compimento ma che Hans Jonas aveva immaginato con grande lungimiranza: «il confine tra “polis” e “natura” è stato cancellato. La città degli uomini, un tempo enclave nel mondo non-umano, si estende ora alla totalità della natura terrena e ne usurpa il posto».

Il passaggio da città a urbe, quindi, non deve essere visto come l’esemplificazione di particolari doti predittive ma come un trasloco concettuale da una scala circoscritta a una universale. È così che emerge il ruolo fondamentale di Cerdá: società, città e territorio non erano più soggetti al cambiamento che per secoli aveva caratterizzato anche i passaggi epocali, ma a una metamorfosi che avrebbe mutato definitivamente il corso degli eventi. E non soltanto di quelli urbani.

È un’eredità di straordinaria importanza per interpretare la realtà da prospettive diverse; per ampliare gli orizzonti della competenza teorica; per avviare una riflessione multidisciplinare sulla città e sul territorio. E per arricchire i contenuti del piano e del progetto.


Françoise Choay, La regola e il modello, Officina, Roma 1986.
Ildefonso Cerdá, Teoria generale dell’urbanizzazione, Jaca Book, Milano 1985.
Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 1996.
Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1979.
Oswald Spengler, Il tramonto dell’occidente, Guanda, Milano 1991.


L’immagine che accompagna l’articolo è il Progetto di ampliamento della città e del porto di Barcellona. Fonte: Ildefonso Cerdá, La teoria generale dell’urbanizzazione, a cura di Antonio Lopez de Aberasturi, Jaca Book, Milano 1985

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