Esce in questo weekend un film decisamente originale: La biblioteca del mondo, documentario, docufilm (ma l’autore, Davide Ferrario che non ama queste distinzioni preferisce film) dedicato alla grande biblioteca di Umberto Eco.
Esce in otto sale quasi tutte nelle grandi città e in una sola fortunata città di provincia, Ascoli; ci auguriamo che molti lo vedano. Io ho potuto farlo nella scorsa settimana in una situazione particolarmente felice. Ad Alessandria, la città in cui Eco è nato e ha frequentato le scuole fino al liceo, che ora porta il suo nome, è stata organizzata un’anteprima, la prima proiezione pubblica dopo quelle nei festival.
Tra i vari enti che hanno curato l’organizzazione dell’evento, ovviamente seguitissimo dalla cittadinanza, ha avuto un ruolo importante il Festival Cinema e Critica, Adelio Ferrero. Poiché da qualche ho il piacere di condividere la direzione del festival con Roberto Lasagna, un critico e saggista assai più esperto e titolato, ho potuto vedere il film nella migliore delle condizioni possibili: non solo in anticipo ma in compagnia del regista e del figlio di Umberto
Eco, Stefano, che ha avuto una parte fondamentale per la realizzazione dell’opera. Con loro, al termine della proiezione abbiamo discusso dei vari temi che emergono dalla densa e brillante scrittura cinematografica di Ferrario. Poiché molti critici hanno già scritto sui significati profondi, sul senso ultimo del film e del suo oggetto, la biblioteca, io ritengo più utile parlare più semplicemente dei significanti, delle immagini che inducono tali riflessioni.
Il problema non mi pare banale: che cosa ci mostra dunque Ferrario, di cosa riempie la bellezza di 80 minuti di film dedicato a un tema non facilmente filmabile? Diciamo che i poli della sua regia sono due.
Da un lato c’è la biblioteca di Eco, con i suoi spazi, i 30.000 volumi e i 1500 libri antichi rari e stravaganti, pieni di immagini curiose e spesso di falsità perché, sostiene egli stesso, le storie false sono più interessanti di quelle vere. Si scorge la particolare disposizione dei libri che non segue un ordine cronologico né tematico ma riesce a produrre connessioni per cui, per esempio, Carolina Invernizio si viene a trovare all’incrocio tra la linea della letteratura italiana e quella del romanzo popolare come genere.
Dall’altro c’è Eco stesso di cui Ferrario con un lavoro tanto preciso quanto originale recupera immagini di lezioni universitarie, partecipazioni a convegni e festival, interviste alle tv di tutto il mondo. Tra una facezia, un paradosso, una ricostruzione spiritosa (bellissima quella che rievoca l’occasione da cui nacque Il nome della rosa) viene fuori non solo un ritratto del semiologo ma l’illustrazione del suo pensiero sul tema fondamentale della memoria e della sua conservazione.
In gioco non c’è la tecnologia (Eco portò in casa un computer appena fu possibile, ha ricordato Stefano) ma una deriva che tende a sostituire una memoria statica, minerale, quella del silicio, a quella dinamica, vegetale, della carta e delle biblioteche.
Tutto è incorniciato tra due bellissime sequenze. La prima, con cui inizia il film, ricorda la scomparsa del grande scrittore, la notizia comunicata dai telegiornali in tutte le lingue del mondo, i funerali così affollati da rendere difficile la partecipazione alla moglie Renate. L’ultima vede la nipotina che percorre sui pattini a rotelle gli ampi spazi lungo i quali sono disposti i preziosi volumi, come fossero quelli di una pista, abbracciando amorevolmente tutta la biblioteca e attribuendole un significato che forse neppure il grande curatore aveva previsto. Come accade al celebre lector in fabula a cui è affidata la chiusura del senso dell’opera.