La bomba sospesa

«All’improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro … Le ombre del giardino sparirono … gli oggetti si fecero indistinti … Con mio grande stupore, mi accorsi che ero completamente nudo». Con queste parole Michihiko Hachiya avrebbe poi ricordato il 6 agosto 1945, l’apocalisse.

Su, in alto, il velo si era squarciato anche agli occhi di Robert Lewis, il secondo pilota dell’Enola Gay, il B-29 che aveva sganciato la bomba: «Dio mio cosa abbiamo fatto!», esclamò alla vista del fungo che divorava Hiroshima.

Il mondo entrò in quell’istante in un’altra era: atomica.

Pochissimi – un pugno di uomini, ma anche una donna – compresero quel tornante della storia. Tra di essi naturalmente Albert Einstein. Con Roosevelt aveva avviato l’innesco di quell’innovazione funesta, concepita comunque come «arma di deterrenza». Aveva invano tentato di fermarne gli sviluppi, quando la guerra, almeno con la Germania hitleriana, appariva vinta. Ora, nel contemplare la catastrofe in Giappone, prova a immaginare il futuro: «se l’umanità vorrà sopravvivere dovrà pensare in modo completamente nuovo».

Auspicio caduto nel vuoto. Pensieri abituali entro nuovi scenari indirizzeranno il mondo per vie nuove sì, ma con segnaletiche inconsuete, marchiate da ossimori folgoranti: «guerra fredda». L’ha coniato Eric Arthur Blair, alias George Orwell. È diventato famoso con La fattoria degli animali. Ora malato, dopo la guerra di Spagna, collabora con «Tribune», settimanale della sinistra laburista. Si appresta a stendere 1984, il racconto sul mondo avveniente. Per Orwell la bomba sospende sul capo dell’umanità una spada fatale, foriera però non solo di possibili crolli, ma anche di epoche assai strane: magari segnate da ««uno Stato invincibile ma che viva al tempo stesso in una perenne condizione di guerra fredda coi propri vicini». Chissà? Forse «porrà fine alle guerre su vasta scala». Però, «il prezzo da pagare sarà quello di prolungare a tempo indefinito una “pace che non è pace”».

Sarà una donna, comunque, a prendere magistralmente le misure del nuovo universo disegnato dalla bomba. È Freda Kirchwey, instancabile animatrice e editrice di The Nation, l’organo che dal 1865 si muove come coscienza critica degli States, espressione per eccellenza del dissenso.

Per lei l’esplosione dell’atomica impone una «rivoluzione nel pensiero degli uomini e nella loro capacità di reinventare società e politica». In particolare, rispetto all’ONU appena nata a San Francisco. Crede che difficilmente potrà sopravvivere. Come conciliare la nuova realtà della bomba con una struttura delle Nazioni Unite dominata dal cosiddetto potere di veto dei Grandi? Per caso le «Grandi Potenze hanno creato un’organizzazione e fatto leggi da cui esse sono esentate? Non c’è un diritto al quale tutte le nazioni siano egualmente soggette? […] Cosa accade quando uno dei Grandi ha il potere di ridurre il mondo in schiavitù, o in polvere?» Fulminante la conclusione: «Nello spazio di un giorno l’ONU è passata dall’infanzia alla vecchiaia. Adesso deve essere ripensata».

Mai previsione fu più azzeccata, così come mai agenda è stata così lungamente disattesa. La guerra di Putin all’Ucraina, con le minacce di olocausto finale platealmente esibite, ne è prova evidente. Essa costituisce al tempo stesso una novità assai inquietante di cui ancora oggi, dopo i tanto commentati 100 giorni di conflitto, stentiamo a prendere le misure.

Nella lunghissima guerra fredda che ci ha accompagnato dopo la Seconda guerra mondiale e nel XXI secolo, infiniti sono stati i conflitti gestiti direttamente dai Grandi: dalla Corea al Vietnam, al Kosovo, a quelli iracheni o afghani. Solo durante la guerra di Corea, nell’establishment americano vi fu chi, come il generale Douglas MacArthur, propose di utilizzare l’atomica per piegare i cinesi accorsi in difesa della Corea del Nord. Truman non ebbe esitazioni a licenziarlo in tronco. Il mondo e lo stesso popolo americano non avrebbe perdonato, nelle parole del presidente americano, l’uso dell’atomica «per scopi aggressivi […] un atto ripugnante per tanti americani». Mai in tutte i conflitti successivi si sarebbe affacciato alla mente di americani o sovietici la minaccia persino dell’utilizzo possibile dell’arma finale, per terrorizzare l’avversario o bloccare aiuti e soccorsi nell’altro campo.

In origine si è pensato a riservare l’atomica il più lontano possibile dai patri confini. Almeno fino alla crisi di Cuba, popolata dai missili sovietici. Le disinstallazioni decise alla fine del confronto bipolare liberarono l’isola di Castro, così come la Turchia e il Mezzogiorno d’Italia di basi e missili puntati sul campo avverso. Successivamente, alla fine degli anni ’70, si è pensato a strategie più flessibili. Anche allora, dopo Cuba, errore strategico fondamentale della dirigenza sovietica.

Helmut Schmidt e Giscard d’Estaing stavano prendendo le distanze dagli USA sconfitti in Vietnam e piegati dal Watergate. Avevano pensato il G7 come morbida gabbia per gli americani. Il dispiegamento degli SS20 sovietici spaventò Schmidt (e Cossiga) che chiesero la copertura degli euromissili a stelle e strisce, riportando l’Europa occidentale tutta sotto l’ombrello di sicurezza americano. L’ultimo capitolo fu inaugurato dagli USA di Reagan con il ricorso allo scudo spaziale. Un’arma davvero finale, pensando a come la corsa allora impressa al riarmo ha stremato dapprima e poi piegato l’URSS, utilizzata poi a piene mani nella lunga stagione della guerra al terrorismo e della prevenzione rispetto agli Stati canaglia.

A minacce e utilizzi ancor più ravvicinati si è cominciato a pensare man mano che il Club atomico si ampliava. Paradossali le scelte di India e Pakistan: stati confinanti che si minacciano con l’atomica. Come difendere poi se stessi dal fungo e dalle nubi radioattive? Un mistero.

Altrettanto per lsraele: possesso, mai ammesso, di oltre 200 atomiche. Per eternare nei confronti degli stati arabi confinanti la biblica minaccia del «Muoia Sansone con tutti i Filistei»? Vera e propria minaccia finale per tutti i contendenti?

Ancor più disperanti gli interrogativi sulla rincorsa suicida di Corea del Nord e Iran.

Con la guerra in Ucraina la Russia di Putin ha aperto una pagina inedita. Non solo per la minaccia sospesa sul capo del mondo e dei propri vicini: un pezzo dell’eterna Russia, addirittura. Cosa ne sarebbe anche dei paesi confinanti o anche delle regioni russe limitrofe non è dato sapere. Quel che adesso qui importa sottolineare è il ricatto esercitato sugli alleati dell’Ucraina: badate a quel che fate, alla quantità e alla qualità degli aiuti inviati. Potremmo considerarli armi offensive, una vera e propria dichiarazione di guerra. Per non parlare del veto esercitato in sede di Consiglio di sicurezza ONU. Di fatto, in questo modo è bloccata ogni iniziativa di pace.

All’ombra del ricatto atomico l’agenda della guerra e della pace finisce così interamente nelle mani di Vladimir Putin che, non a caso, ora prova ad amministrare a suo piacimento anche modalità, rotte e dimensioni del commercio agro-alimentare globale.

Freda Kirchwey aveva visto giusto nel lontano 1945. Purtroppo, è rimasta inascoltata per troppo tempo. Atomica e veto in Consiglio di sicurezza possono divenire clave di incredibile potenza in mano oligarchica. La bomba sospesa da Putin sul capo del mondo è davvero altra cosa dal «caffè sospeso» in uso nei vicoli di Napoli.

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