La crisi del Regionalismo prima dell’autonomia differenziata

All’interno della discussione sulla cosiddetta autonomia differenziata sarebbe utile riprendere la discussione innanzitutto sulle Regioni, che è antica quasi quanto quello dell’Italia unita, e sulla crisi del regionalismo per verificare se l’evoluzione, a partire dagli anni ’70, sia stata rispondente al disegno originario delle Regioni.

Anche se, nella realtà più contingente, è impossibile fare a meno d’interrogarsi sulla coerenza di questo Governo che con una mano spinge verso l’autonomia differenziata e con l’altra, con rinnovato piglio centralista, blocca l’erogazione alle Regioni delle risorse, peraltro già ripartite, del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione per gestirla direttamente: ma non è di questo che s’intende parlare.

Tornando all’argomento viene da premettere che seguendo il percorso avviato per realizzare quel federalismo regionalista assai caro alla Lega altro non si ottiene che perpetuare, forse aggravare la crisi del regionalismo.

C’è chi ha parlato di «fallimento delle Regioni», ma a torto: l’istituzione delle Regioni fu una delle conquiste più significative delle politiche riformatrici del centro-sinistra degli anni ’60, a partecipazione socialista. Piuttosto, occorre spingere l’analisi del regionalismo un po’ più indietro fino ai nodi irrisolti dagli stessi Costituenti.

L’occasione per un serio bilancio fu persa nel 2020, cinquantenario dell’istituzione delle Regioni, quando ad un approfondito e documentato esame si preferirono manifestazioni sterilmente auto- celebrative, encomiastiche e solo retoriche. Se ne è avuta conferma negli anni difficili del Covid che hanno messo a nudo la vera bugia di un Nord campione d’efficienza e un Sud solo di sprechi.

Sicché, prima d’affrontate il tema della autonomia differenziata occorrerebbe porsi la domanda se le Regioni, nel loro complesso e per come sono andate evolvendosi al Nord come al Sud, qualitativamente e funzionalmente oggi rispondano all’interesse del Paese, ai bisogni e alla domanda dei cittadini: confermando l’originaria mission della  Regione, come ente preposto alla programmazione e pianificazione delle azioni e dell’uso delle risorse, alla verifica della produttività della spesa pubblica anche attraverso un più diretto controllo, al decentramento e moralizzazione delle funzioni della pubblica amministrazione e, in definitiva, all’avvicinamento ad essa dei cittadini.

La verifica, la più superficiale, sul raggiungimento di questi obiettivi appare del tutto negativa: al Sud, ma anche al Nord se si esamina il paradosso che la pandemia ha messo in evidenza, in particolare nella Lombardia. Se il tema della programmazione, guardando in particolare a quello che è accaduto nel Mezzogiorno, è stato risolto in radice semplicemente rimuovendola, ogni verifica intorno alla spesa pubblica sarebbe solo disastrosa.

La programmazione, o la pianificazione, sono processi democratici a larga partecipazione più che attività burocratiche: capita spesso, invece, di vedere documenti prodotti da dirigenti delle Regioni dal titolo ridondante, «programmazione delle risorse»: peccato che quei documenti non siano mai passati da un qualsiasi organo democratico, e che quei funzionari li abbiano discussi con loro stessi o, al massimo, con qualche collaboratore; sicché si tratterebbe, al massimo, di programmi.

Ma la questione era già all’attenzione dei padri Costituenti di fronte al problema del numero delle regioni e la rispondenza alle rispettive identità; ma rimase irrisolta perché le regioni, in molti casi, furono individuate in base ai dati statistici senza riuscire a sovrapporre confini a identità culturali, a volte alla stessa antropologia delle popolazioni cui venivano dati quei confini; e, comunque, senza una vera rispondenza tra territori e culture.

Non è un caso che solo qualche anno dopo gli stessi socialisti, in un famoso loro convegno (forse del 1972), non solo riproposero la questione dei confini regionali ma introdussero il tema delle «macro-regioni», che di tanto in tanto e non a torto, riaffiora ancor oggi.

In queste condizioni è evidente che l’autonomia differenziata sarebbe una forzatura che andrebbe a sovrapporsi ad una precedente, con conseguenze ancor più gravi.

Per non parlare dello scandalo delle regioni a statuto speciale che tuttora resistono, ma senza più alcuna ragione.

Certo, essere a statuto speciale conviene moltissimo: ma la politica preferisce non occuparsene perché la ragioni del consenso, ancora una volta, prevalgono sulla ragionevolezza delle regole anche se regole così diverse e sperequazioni così forti possano minare l’intero assetto nazionale: com’è divenuto evidente proprio con le richieste di autonomia regionale differenziata.

Disparità, infatti, sono particolarmente evidenti nel Veneto, che confina con Trentino-Alto Adige e Friuli, i cui cittadini, come gli altri italiani, soffrono un trattamento ben peggiore rispetto ai loro vicini, al punto che nel comune di Sappada, nel 2008, si è tenuto un referendum per staccarsi dal Veneto e migrare in Friuli-Venezia Giulia, il cui esito è stato ratificato dal Parlamento nel 2017. Mentre Referendum simili si sono tenuti in altri comuni veneti, come Cortina d’Ampezzo e non solo.

Tornando alle identità culturali non si può fare a meno di segnalare che nella realtà italiana, quella del «paese dei cento campanili» com’eravamo abituati a definirla in anni ormai lontani, l’unica che sovrapponendosi s’identifica con quella territoriale, realizzando al meglio l’equilibrio istituzionale, è quella municipale. Non a caso, il metodo più corretto sarebbe ritenere come fondamentali le identità municipali più che escluderle, per una sorta di presunzione di diversità se non di superiorità.

Fu errore imperdonabile l’auto-esclusione delle Regioni dal processo riformatore, poi in gran parte vanificato, che portò alla riforma del 1990 che con la legge 142, dopo sessant’anni dalla legge fascista del 1934, assicurava un assetto a Comuni e Province: ma non alle regioni che del sistema unitario delle autonomie sarebbero componente necessaria e principale.

L’assetto istituzionale di comuni, province/città metropolitane e regioni, infatti, avrebbe dovuto essere non separato ma unitario e con una normativa alquanto cogente nello stabilire relazioni e interazioni. La separatezza o l’alterità delle Regioni che si ritengono più vicine allo Stato (scimmiottandolo in qualche caso), invece, ha fortemente danneggiato l’intero sistema.

Come non trovare abbastanza ridicolo sentire, o leggere, che in una Regione esista la figura del Sottosegretario alla Presidenza, per indicare nella Giunta la figura più vicina al Presidente?

Situazione ancor più grave se si pensa alla delega delle funzioni regionali, o alla stessa sussidiarietà, del tutto disattese, che se da un lato ha mandato in crisi le stesse Regioni per gigantismo, dall’altro ha peggiorato quella delle Province per asfissia o nanismo; ma anche dei Comuni.

Per non aver attuato quella previsione, infatti, le Regioni si sono ingolfate di funzioni gestionali, costrette a rinunciare alla programmazione e al controllo della spesa pubblica, mentre le Province, in particolare, sono risultate sovradimensionate fino a farne decretare, con un sesquipedale errore, l’inutilità.

Un complesso di circostanze che, accanto ad altre, ha generato il progressivo distacco del cittadino dalle istituzioni e che elezione dopo elezione si manifesta con l’astensionismo: si prenda l’ultimo caso, il Friuli-Venezia Giulia, dove al voto partecipa meno del 50% degli aventi diritto e il consenso al presidente eletto, nonostante il 60% dei voti espressi, non raggiunge il 30% della platea elettorale: dunque, una ridotta minoranza.

Ma questo è solo un accenno alle questioni istituzionali che segnalano la crisi del regionalismo.

Le questioni politiche sono, se possibile, ancora più significative e gravi giacché investono direttamente il potere e i diritti del cittadino: la questione di livelli di governo adeguati alle grandi scelte pubbliche, in particolare a servizi pubblici come sanità e istruzione, non è solo di ingegneria istituzionale ma ha una grande valenza politica, perché convoca quella della parità, mettendo a rischio l’uguaglianza e forme d’insopportabili iniquità.

La domanda che a questo punto si porrebbe è se in queste condizioni sia preferibile lo Stato accentrato o decentrato e se sia preferibile evitare il rischio di ritrovarsi con Regioni-Stato: e questa non è questione tecnica, ma politica e democratica e si riconnette alla questione delle questioni che è la svolta della politica italiana del ’92/’94.

Nei primi due decenni dall’istituzione le Regioni riuscirono a frenare la corsa verso la crisi perché erano vivi e vitali partiti con un grande consenso di massa e fortemente radicati nei territori, la Democrazia Cristina, il Partito Socialista Italiano e  il Partito Comunista Italiano, che riuscivano a garantire classe dirigente, anche nelle Regioni, con adeguata esperienza istituzionale e formazione: quella che, selezionata passo dopo passo, poi era destinata al Parlamento e al Governo nazionale.

Successivamente, quando la crisi delle istituzioni è sfociata in vera e propria crisi della democrazia, come quella che stiamo vivendo, essendo le Regioni l’anello debole della filiera istituzionale è su di esse che è ricaduta maggiormente, manifestandosi in modo del tutto insopportabile il terribile male del trasformismo, solo in qualche caso camuffato da un assai poco probabile civismo.

Ma vi è molto di più.

Con l’elezione diretta del novembre 1999, i presidenti delle Regioni (per i quali si è diffusa la definizione, assolutamente impropria, di Governatori) giocano un ruolo politico molto più importante, addirittura antagonista, non solo nei propri territori ma anche in sede nazionale, con lo spostamento del potere dai Consigli alle Giunte, e in particolare proprio verso la propria figura.

Relativamente al concetto di autonomia territoriale forse non è inopportuno segnalare, anche in relazione alla Costituzione, che quella alla quale fra gli anni ’60/’80 si era abituati prevedeva che lo Stato, con i suoi poteri, fosse il collante dell’insieme, laddove oggi l’Autonomia viene intesa più come disgregazione, in funzione dell’acquisizione di fette di potere, e nulla ha a che fare con l’interesse del cittadino e la parità dei diritti di ognuno.

In quest’ultimo tempo, infatti, l’emergere dei presidenti nella vita politica contribuisce a generare il profondo indebolimento dei tradizionali partiti novecenteschi, come conseguenza delle tempeste che degli anni Novanta ha prodotto in Italia, molto più che negli altri paesi europei, la loro scomparsa.

Le formazioni politiche (o personali) che hanno preso il loro posto, infatti, sono apparse molto meno capaci di proporre per il Paese visioni di lungo termine, ispirate a principi e visioni di fondo, proponendo solo indirizzi programmatici vaghi e cangianti nel tempo per il raccordo assai più debole fra politiche nazionali e regionali. Sovente, amministrazioni centrali e regionali, anche dello stesso schieramento politico, perseguono indirizzi differenti. La Puglia, per esempio, potrebbe apparire paradigma di questa condizione.

Ma anche la mancanza di scelte di fondo da parte dei partiti nazionali fa sì che presidenti o assessori regionali dello stesso partito seguano linee diverse, derivate da convinzioni o priorità di carattere personale.  La personalizzazione della politica fa anche sì che queste scelte siano, con tutta probabilità più che in passato, soggette a fenomeni di cattura e di condizionamento da parte di interessi locali collegati a obiettivi di consenso per il personale politico regionale: soprattutto per i presidenti, consentendo la progressiva affermazione di figure politiche caratterizzate da forte indipendenza rispetto agli schieramenti nazionali di riferimento.

Anche il confronto elettorale si è molto personalizzato fino a spingersi a privilegiare interventi sui territori capaci produrre risultati di più breve periodo e, quindi, far crescere il consenso per chi li ha promossi, rispetto ad interventi più rilevanti, ma con ricadute positive solo in tempi più lunghi e per i quali sarebbe necessaria condivisione di fondo e un’azione sinergica.

Si è rafforzata così quella tendenza che si può definire sovranismo regionale, per rubare la definizione di Gianfranco Viesti.

Se, argomento dopo argomento, si ripartisse da qui, se al Parlamento si offrisse la possibilità di un’approfondita discussione sull’insieme di questi temi si renderebbe un sicuro servizio per il superamento della crisi del regionalismo, e della stessa Democrazia, che ormai rischia d’invadere la Nazione e che danneggia tutti. La destra come la sinistra.

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