La crisi delle democrazie, il lavoro e l’intelligenza artificiale

Non affermo niente, ma mi contento di credere che esistano più cose possibili di quanto si pensi (Voltaire)

Francesco Errico

Un velo di corrosiva rassegnazione sembra coinvolgere le opinioni pubbliche di quelle che definiamo democrazie occidentali. Danilo Taino, in un suo recente editoriale sul Corriere della Sera (15 febbraio), ha parlato di «fatalismo ed inerzia», che rischiano di diventare «depressione e nichilismo; nella conversazione in corso nelle democrazie, il futuro appare solo oscuro, si dice che andrà sempre peggio».

È come se avessimo perso la convinzione di ciò che le società aperte creano, le società aperte hanno la capacità e i meccanismi per cambiare in meglio. Sta venendo a mancare anche l’orgoglio di quello che le democrazie hanno edificato in termini di diritti, libertà, inclusione sociale, sistemi di tutele in favore dei cittadini più svantaggiati; addirittura, in molti casi, si resta affascinati dall’apparente efficienza di sistemi politici ai limiti della dittatura.

Certamente il nuovo millennio ci ha posto di fronte sfide difficili, probabilmente e anche colpevolmente sottovalutate dalle élite, che hanno condotto tantissimi cittadini a non credere più alla partecipazione popolare come metodo che concorre a prendere decisioni che indirizzano la vita delle comunità democratiche e allontanandosi gradualmente dai corpi intermedi che tale partecipazione hanno garantito in passato; preferendo talvolta affidarsi a movimenti e partiti che mettono in discussione l’essenza stessa della democrazia rappresentativa.

Già nel 1988 Giorgio Ruffolo, nel suo Potenza e potere, delineò lo scenario che andava determinandosi: la potenza (le dinamiche dell’economia e lo sviluppo tecnologico) ha ed avrebbe avuto in futuro un passo molto più spedito del potere (l’efficacia e la reattività di governi e parlamenti), che per sua natura e nel rispetto delle regole del gioco politico democratico è lento, di una lentezza preoccupante ma anche rassicurante, perché le democrazie debbono avere le loro procedure ed i loro riti. È andata proprio così. E quindi un misto di pessimismo e rassegnazione sulla capacità, e sulla tempestività, dei sistemi politici democratici di governare le dinamiche proprie della globalizzazione e mitigarne gli effetti più negativi, come le diseguaglianze sociali e le nuove forme di povertà.

Questo «andrà peggio», in tale scenario, non può che coinvolgere la questione del lavoro, della sua qualità e quindi della sua dignità.

Non da oggi l’evoluzione tecnologica, che ha conosciuto negli ultimi trent’anni un’accelerazione impressionante, genera ansie e paure. Paura di perdere il posto di lavoro, anzitutto. Di non riuscire a trovarne un altro. Di essere obsoleti e quindi inutili. Di non avere mezzi di sostentamento e insieme di perdere dignità e ruolo sociale.

Va detto che questa dinamica negativa non sempre corrisponde poi alla realtà degli eventi, ma ciò non basta a dissipare i timori generando un misto di fatalismo, rassegnazione, unitamente – molto spesso – ad un sentimento rancoroso verso un sistema democratico inclusivo che sembra non funzionare più.

In realtà i cambiamenti tecnologici, che ridefiniscono il rapporto uomo/macchina, sono da sempre stati motivo di incertezza, se non vera e propria paura del futuro.

Nella prima metà del Novecento nel nostro Paese i braccianti erano quasi la metà della popolazione lavorativa; oggi sono sì e no il 5%. Il lavoro manuale nel settore industriale fino agli anni ’70 del secolo scorso era il 50% del totale; già negli anni ’90 era il 37% e nel nuovo secolo è non più del 20%, con ulteriore tendenza decrescente negli ultimi anni. Più in particolare, gli operai della grande fabbrica sono oggi il 3% dell’occupazione totale.

E lavandaie, maniscalchi, spazzacamini e tanti altri mestieri oggi praticamente non esistono più. Si pensava dunque che avremmo vissuto anni di dilagante disoccupazione e di impoverimento; pochissimi ne avrebbero beneficiato e la gran parte della popolazione ne avrebbe sofferto.

Ma non è andata così. È emerso prepotentemente il settore dei servizi. L’economia europea e la quota di occupati è costituita oggi per circa il 70% dai servizi, alle persone e alle imprese, che ha creato nuovi lavori mediamente più sicuri e meno pericolosi, meno faticosi, meglio retribuiti.

La questione, allora, è sempre la stessa: tenere il passo con l’evoluzione tecnologica sostenendo le persone nella transizione dalle vecchie professioni a quelle emergenti. Oggi l’ansia e la paura si chiama intelligenza artificiale o, come si usa semplificare, i robot. Si ragiona su dispositivi e leggi che ne regolamentino l’utilizzo, in senso etico e sociale. Questo fa capire che è una materia dai risvolti delicati e forse anche imprevedibili. Però si può ipotizzare che la dinamica sostitutiva fra vecchi e nuovi lavori sia e sarà la stessa che ha connotato la storia del lavoro dalla rivoluzione industriale ad oggi e che per ogni professione persa ce ne sarà un’altra che la sostituirà, a sempre più alto contenuto intellettuale.

Il professor Pietro Ichino, tenendo l’anno scorso una conferenza su questo tema, ha citato una interessante statistica riportata dal Sole24ore: in Corea del Sud, considerato il Paese più avanti con l’utilizzo dell’I.F., ogni 10.000 lavoratori ci sono 630 robot; in Italia 185. Però in Corea il tasso di disoccupazione era, a fine 2023, del 3%, mentre quello italiano al 7,2%. Insomma, l’associazione fra robotizzazione dei processi di lavoro e disoccupazione non pare al momento così certa, anzi.

Vivremo dunque una fase caratterizzata da nuove professioni che sostituiranno parte di quelle che conosciamo, o le affineranno con l’utilizzo delle nuove tecnologie: nell’assistenza medica, nella comunicazione, nell’ecologia, nell’urbanistica, per esempio. Con nuove modalità e vieppiù caratterizzate dalla possibilità di lavorare a distanza. Verranno sempre più ridimensionati l’importanza della sede fisica come dell’orario di lavoro, mentre gli output diventeranno assai più mirati e insieme rapidi. Crescerà, presumibilmente, la produttività media e con essa le retribuzioni.

Non va dimenticato il problema, cui già assistiamo e che potrà avere una significativa accelerazione, della dualità fra lavoratori forti (capaci di utilizzare le nuove tecnologie) e quelli deboli ed a rischio esclusione. La debolezza nel mercato del lavoro di una parte della popolazione lavorativa non è però inevitabile o irreversibile. Indirizzare i propri studi ed in generale la propria formazione verso professioni che hanno un futuro e dove verosimilmente crescerà la domanda di lavoro sarà il principale antidoto; senza mai rinunciare alle proprie attitudini: il lavoro dei nostri sogni esisterà ancora, solo che con l’I.A. ed i robot dovremo imparare a svolgerlo con nuove modalità e nuove tecniche.

A volte sembra che abbiamo dimenticato quanto le democrazie, in particolare quelle europee, abbiano prodotto in termini di conquiste e rispetto dei diritti, delle libertà, delle tutele in favore della classe lavoratrice. Dovremmo invece ricordarci di quello che siamo stati capaci di fare per l’emancipazione delle masse e andarne fieri. E non dobbiamo avere paura del futuro, ma contribuire a scriverlo.

L’Europa ed in generale l’Occidente resta il miglior luogo dove vivere. Urge, con uno scatto d’orgoglio, recuperare questa consapevolezza.

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