La critica cinematografica, i premi e la rete

Chissà se i critici cinematografici potranno continuare a dire che Volevo nascondermi è un gran bel film, oppure verranno accusati da Francesco Merlo di essere condizionati dai premi che il film di Giorgio Diritti ha ottenuto nell’ultima edizione dei David di Donatello.

A proposito mi sia concessa una parentesi: da quando la pandemia ha costretto a organizzare la serata di premiazione in modo diverso, lo spettacolo televisivo è molto migliorato. Lo scorso anno ci fu la trovata dei premiati collegati dalle loro abitazioni che diede un tocco di simpatica familiarità, quest’anno si è rivelata vincente la scelta dei due luoghi: l’elegante studio televisivo con i tavolini per gli ospiti e i sontuosi palchi del Teatro di Roma per alcuni vincitori del premio.

Ma queste sono questioni televisive; torniamo al cinema e alla polemica che lo ha attraversato negli ultimi giorni. Tutto nasce, come si ricorderà, dalla lettera a la Repubblica di una lettrice che si lamentava dei giudizi eccessivamente positivi della critica sul già premiatissimo Nomanland, da cui era invece rimasta delusa. Francesco Merlo, che da qualche tempo cura la rubrica delle lettere al giornale, scriveva una risposta compiacente e compiaciuta che suscitava le ire dell’associazione dei critici cinematografici e che rappresenta una perfetta summa di tutti i luoghi comuni e le sciocchezze che si possono dire sul tema.

Partiva con l’inevitabile aneddoto di vita culturale siciliana di cui sono stati protagonisti i fratelli Brancati: Corrado indolente e poco motivato critico cinematografico in costante complesso di inferiorità nei confronti del fratello Vitaliano e della sua creatività di romanziere. Insomma la solita teoria del critico come artista mancato, a sostegno della quale Merlo cita anche Truffaut che mai si sarebbe sognato di abbracciarla, visto che nella vita ha svolto con passione l’attività critica e che il suo vero maestro e salvatore è stato un grande studioso di cinema. In chiusura dell’articolo poi non poteva mancare (ripreso anche dal titolo) il re dei luoghi comuni sulla critica cinematografica, la storiella dell’urlo fantozziano sulla Potemkin «boiata pazzesca», che smonterebbe tutto l’inutile lavoro degli esegeti di Ejsenstein.

Anche in questo caso aprirei una parentesi: quando mi è capitato di fare corsi sulla storia del cinema, ho sempre fatto una piccola provocazione agli studenti, annunciando la visione della Potemkin. Davanti alle loro inevitabili perplessità e ironie, partivo con una domanda: quanto dura la Corazzata Potemkin? Ecco, forse ogni volta che qualcuno la vuole citare come metafora, prima dovrebbe rispondere esattamente al quiz: quanto dura?

Ma torniamo al discorso serio sui problemi della critica che ci sono, ma sono ben altri.

Come molti altri ambiti della comunicazione anche la critica cinematografica è stata sconvolta dall’avvento della rete. Lungi dall’essere scomparsa è diffusissima in rete. Oggi si parla moltissimo di cinema nella rete: ne parlano i giornali, i diversi siti specializzati, le vecchie gloriose riviste di cinema, che si sono in gran parte convertite all’edizione on line e che organizzano anche corsi di cultura cinematografica. Ci sono critici importanti che danno la loro opinione sui film in uscita e consigli su quali non perdersi nei palinsesti televisivi; ci sono semplici spettatori che postano la loro critica sul film che hanno visto.

Il dibattito, bocciato con un fragoroso No in sala da Nanni Moretti, riceve invece un ampio consenso nella nuova versione. Si dirà che, come per altri temi – la politica, il calcio, la gastronomia – alla grande esplosione quantitativa degli interventi ha corrisposto una perdita sul piano qualitativo. Nella maggior parte di questo dibattito critico on line non prevalgono certo la competenza, l’autorevolezza, la professionalità.

Ed è vero, ma, nel caso del cinema, le responsabilità vanno cercate anche altrove, al di fuori della diffusione di internet: proprio nella stampa, in quei quotidiani, dove la critica cinematografica ha avuto i suoi momenti di gloria, che da un po’ di tempo a questa parte l’hanno svilita affidando il compito di recensire i film a esperti di letteratura, di moda, di costume, di melodramma che parlano di cinema senza aver mai letto una riga di Bazin. Tanto per tornare a Truffaut, e questa volta non a sproposito.

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