La cultura della memoria nel romanzo di Danilo Kiš

Danilo Kiš, lo scrittore serbo nato a Subotica nel 1935, da madre montenegrina e da padre ebreo di  origini ungheresi, morto nel 1989 a Parigi, trentenne, pubblica il suo romanzo d’esordio Giardino, cenere che, da subito, viene accolto come un capolavoro e tradotto in diverse lingue. I due brevi romanzi giovanili, Mansarda e Salmo 44 avevano già delineato il tema centrale dell’opera di Kiš, incentrato sul destino degli ebrei e sugli orrori dei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale.

Giardino, cenere con i romanzi Dolori precoci del 1970 e La clessidra del 1972, fa parte della trilogia del ciclo di famiglia, una specie di Bildungsroman, come ha voluto spiegare lo stesso scrittore.

C’è dall’inizio, dentro la narrazione un vissuto di una potenza espressiva ineguagliabile: il ricordo del bambino Andreas Sam – che prefigura lo stesso scrittore -, del padre Eduard Sam, deportato e morto, insieme ad alcuni membri della sua famiglia, ad Auschwitz. A questo si aggiunge anche lo sterminio di altri parenti in diversi campi di concentramento.

Fu la madre Milica Dragičević a battezzare il figlio Danilo e la figlia Danica in una chiesa ortodossa a Novi Sad, salvandoli dalla deportazione.

Il nucleo famigliare non si scompone e nella sopravvivenza quotidiana entra non il vivere «adesso», bensì la ricerca delle radici e di quello che si è. Attraverso il ricordo del padre, il bambino decide di riportare ogni verità che gli era stata taciuta e che gli resta dentro come un voto. Le vicissitudini si snodano veloci nella loro successione essendo contornate dal pensiero incrollabile di voler «assistere consapevolmente alla venuta della morte e così vincerla».

Contrappone il reale al fantastico, la storia alla narrazione, passando dal tragico all’ironico e, già dall’incipit, mostra un’inconfondibile cifra poetica. È il codice della cultura della memoria, di Kiš, che si oppone al terribile e cerca di abbatterlo con la propria parola.

«Ed eccolo, mio padre, seduto nel carro accanto a una giovane zingara dalle poppe rigonfie, maestoso come il principe di Galles o, se volete, come un croupier o come un maître d’hôtel, come un illusionista, come un impresario di circo, come un domatore di leoni, come una spia, come un antropologo, come un maggiordomo, come un contrabbandiere, come un missionario quacchero, come un sovrano che viaggia in incognito, come un ispettore scolastico, come un medico di campagna e, infine, come un commesso viaggiatore, rappresentante di una compagnia occidentale per la vendita di rasoi di sicurezza».

Pensare che la memoria sia posta in questi termini e possa essere espressa con ironia, non volendo essere patetici, crea un tipo di parodia che permette alla sua scrittura di mantenere la distanza anche dalla letteratura stessa.

Il padre è ferroviere sospeso dal servizio, artista, affabulatore, bevitore formidabile, profeta, naturalista, autore de L’orario ferroviario jugoslavo ed internazionale delle comunicazioni tranviarie, navali, ferroviarie ed aeree, scritto nel 1939, che nella seconda edizione, avrebbe voluto estendere all’ intero globo e a tutte le sue discipline.

Il bambino accarezza il ricordo di ogni momento trascorso insieme al padre, anche quello di quando una folla di contadini voleva linciarlo e, davanti alla quale, si trae d’impaccio chiamando a raccolta tutte le risorse della retorica.

Il padre Eduard Sam è un personaggio negativo perché «alcolizzato, esaurito e, come materiale letterario è malato ed è ebreo, adatto per il profilo letterario». Per il figlio, più di ogni altra cosa, è un personaggio negativo soltanto per il vuoto della sua assenza.

Due sentimenti ambivalenti pervadono l’anima di Andreas Sam: da un lato la paura, la compassione per il padre, dall’altro l’identità e l’eredità del discendente. Il solo desiderio del bambino è diventare il testamento vivente del padre, un lascito vivo e poter riuscire ad arrivare ai suoi antenati. Con innocente curiosità si chiede chi mai possa essere se non il loro erede. Nessuno potrà spiegarglielo, ma di chi sia figlio lo sa e qui non si ferma il sapere dell’appartenenza.

E quando il ricordo tocca la morte, il bambino si rifiuta di dormire perché teme che il sonno lo vestirà «di un cercine di seta», evocando «viola aurea proustiana che attornia oggetti e le cose». Crede che con i numeri si possa scacciare l’ombra mortale che si è addensata sul volto della madre e, sapendo contare fino a 200, ricomincia da capo per più e più volte. Un esercizio esoterico di cabala per sopravvivere che si ripeterà anche in altri romanzi della trilogia.

È un aggrapparsi alla sola speranza che, come dice Agamben «i morti e i vivi sono compresenti, così vicini e esigenti che non è facile comprendere in che misura la presenza degli uni e degli altri sia diversa».

Citando Sartre, «la subdola azione della biografia» porta con sé un insegnamento che il padre gli impartisce, un segreto da tenere sempre a portata di mano: «Non è possibile, giovanotto mio, e questo ricordatelo per sempre, non è possibile recitare la parte della vittima per tutta la vita senza diventarlo alla fine davvero».

L’intimità tra padre e figlio e l’incunearsi di dettagli, anche minimi, nella mente del bambino diventa insopportabile nell’assenza del genitore. Non è nostalgia ma l’emozione ferma al momento in cui l’ha visto portare via dalla Gestapo.

La memoria è una sola, come la verità, senza varianti.

Kiš lo confessa nel momento in cui il racconto sul padre si ferma: «Da quando la figura geniale di mio padre è scomparsa da questo romanzo tutto si è dissipato e sbrigliato», per poi aggiungere che il padre era «un geniale giovane, wunderkind, poeta, pianista» e tanto altro che, di pagina in pagina, ricorda.

La biografia del padre, vittima senza colpa nel ricordo scritto del figlio che lo ritrae fuori dal recinto di Auschvitz, diventa il ricordo e la memoria di tutti gli altri scomparsi nei campi di concentramento. Qui lo scrivere diventa il luogo di visione chiara, penetra nel vuoto dove è svanito il padre e l’eredità patriarcale è tutta nelle mani del figlio.

Il paradigma biografico di Kiš, nella sua unicità, è un’esperienza che rispetto alle altre simili, si colloca nella storia della letteratura per la poetica del ricordo e della memoria che tira fuori l’umano dagli abissi dell’orrore.

Quindi, la parola scritta non è soltanto un’informazione, è usata con acribia e la sua potenza sta nel sentire forte l’esperienza dei corpi sacrificati. Il padre Eduard Sam fa parte di quella catena di numeri, tutti diversi nel campo di concentramento, che nella morte sono diventati nulli e uguali. L’ipotesi di Adorno è che il «sistema creditizio, in cui tutto, anche la conquista del mondo può essere anticipato, determina anche le operazioni che preparano la sua fine […] nei campi di concentramento e nelle camere a gas viene – per così dire -“scontato” il crollo della Germania» e che si uccideva perché la fine era già preannunciata.

Danilo Kiš con le sue «affinità tematiche» viene spesso accostato a Borges, Nabokov, Babel’, Kundera, Schulz e in qualche modo a Orwell, Koestler, ad Andrić e Krleža.

Con la distinzione che Schulz e Babel’ hanno vissuto nella tradizione ebraica mentre Kiš, come egli stesso ha dichiarato, l’ha appresa dalla letteratura.

Lo scrittore Iosif Brodskij, Premio Nobel, nel suo discorso tenuto a Strasburgo nel 1991, dedicato a Kiš, in proposito ha affermato: «Le influenze di regola si arrendono dinanzi al talento, cioè, a confronto con lui sono un’altra musica. Tutti abbiamo letto Babel’, Borges e Schulz, ma Danilo Kiš ha scritto il libro Giardino, cenere e non noi».

Per Kiš la Storia è la guerra e l’uomo la vive con un atroce supplizio che ne nobilita il ricordo.

La cultura della memoria di Kiš è caratterizzata dalla verità reale e dalla sua illusione; il reale e il fantastico si intrecciano, si intersecano e si materializzano in forme estreme straordinariamente nitide. La vera saggezza è l’illusione e la salvifica fuga dal dolore, – che non muta -, può sfociare nella rinascita. In un’intervista televisiva Kiš ha definito L’orario ferroviario del padre un «libro talmudico» e si è spinto oltre la biografia e l’ha fusa con la scrittura narrativa: «Mio padre vide la luce nell’Ungheria occidentale, ultimò l’accademia commerciale nel luogo di nascita di un certo signor Virag il quale, per grazia del signor Joyce, diventerà il famoso Leopold Bloom».

Certo è che la conoscenza enciclopedica che rende universale realtà e finzione in Kiš è espressa in una lingua dotata di quella perfezione che, nell’attraversamento della vita, giunge al passato, ripercorrendo la strada a ritroso.

La cultura della memoria nel romanzo Giardino, cenere, per la potenza descrittiva e l’intensità stilistica pone Danilo Kiš tra i più grandi scrittori del Novecento.


Letture

Danilo Kiš, Giardino, cenere, Adelphi, 1986
Theodor W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, 1994
Giorgio Agamben, Autoritratto nello studio, Nottetempo, 2017
Iosif Brodskij, Predavanje o Danilu Kišu, “Književne novine”, 1 marzo – 1 aprile 2010 (Archivio I.B., Beinecke Library Yale)
Danilo Kiš, Sulla nave del presidente (S. Šmitran, Antologia della poesia dell’ex Jugoslavia) Noubs, 1996

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