La prospettiva politica del centro-sinistra è cambiata nel giro di poche settimane. In Sardegna l’opposizione sembrava avere capito come superare la crisi, ma dopo la sconfitta in Abruzzo, i problemi in Basilicata, le divisioni in Piemonte, aleggia nuovamente il fantasma della crisi. Le prossime elezioni regionali si annunciano come un banco di prova difficile e, in caso di sconfitta, potrebbero alimentare un clima di opinione che rafforzi la percezione di una destra difficile da battere. La complessa realtà politica del Paese sembra avere smorzato l’idea di una ripresa imminente.
Per capirne le ragioni occorre partire dal problema fondamentale del centrosinistra emerso nel voto del settembre 2022. Allora il centrodestra si è presentato unito e ha vinto raccogliendo una maggioranza relativa di elettori: il 44%. Ma il 48% dei cittadini ha scelto partiti diversi del centrosinistra, che però hanno corso divisi soprattutto nei collegi uninominali decisivi per il risultato.
Il problema del centrosinistra si può definire come l’incapacità di trasformare un dato numerico (una potenziale maggioranza relativa) in un dato politico, cioè in un soggetto che si riconosce in un programma, un’alleanza, una leadership. L’opposizione, quindi, non ha saputo utilizzare la legge elettorale con la stessa efficacia della destra: presentandosi disunita ha favorito l’avversario. Non ha torto la segretaria del Pd, Elly Schlein, a insistere sul campo largo e sull’unità: un’alleanza ampia è il requisito per tentare di vincere una parte dei collegi uninominali. La frantumazione dell’opposizione è però il risultato anche delle sue debolezze strutturali, che le impediscono di essere competitiva.
La competizione interna all’opposizione spinge verso una logica di tutti in concorrenza con tutti. C’è la competizione tra Pd e M5S, la concorrenza tra i riformisti Calenda e Renzi, la diffidenza che separa la sinistra dai riformisti. Il centrosinistra finora non è riuscito a regolamentare la competizione in modo che non diventi un meccanismo distruttivo: non ha saputo comporre i diversi interessi in gioco, non ha stabilito regole per la convivenza. A lungo andare la competizione tende a trasformarsi in conflitto. La competizione raggiunge un risultato senza arrecare danno ad altri, semmai prevede interazione e scambio tra i partecipanti. Il conflitto si risolve solo infliggendo danno con un vincitore e uno sconfitto. Per di più il conflitto drammatizza lo scontro tra gruppi (in-group contro out-group) suscitando aggressività e avversione reciproca. L’esito è una polarizzazione interna all’opposizione, che non è solo ideologica, cioè una divergenza sui punti di vista e sulle idee, ma affettiva, basata sulla ostilità determinata dalla semplice appartenenza a gruppi diversi.
Nel conflitto gli attori più che marcare la differenza tra loro sembrano affermare il proprio desiderio di essere, il proprio desiderio di identità, di una biografia che diventi una storia che si compie. Questa politica dell’identità viene radicalizzata dalla contesa. La conseguenza è un’area dai confini instabili, pervasa da tensioni, caratterizzata dal rifiuto verso chi la pensa diversamente. Una regola che addomestica il conflitto è la tutela della minoranza rispetto al potere della maggioranza. Ma in Basilicata è saltata: il M5S ha preteso e ottenuto l’esclusione di Azione, partito più piccolo che la sinistra considera estraneo. Nel conflitto tutti puntano a massimizzare il proprio profitto in un’ottica utilitaristica. Scatta una logica simile a quella del mercato: il più capace o più forte vince, il meno capace o più debole soccombe. Si innesca una spirale che si autoalimenta. Infatti, è saltato anche l’accordo in Piemonte.
Collidono visioni politiche differenti che non si possono ignorare, ma il rebus è come evitare che il centrosinistra diventi un’arena conflittuale. Questa incerta situazione favorisce l’emergere di dinamiche di potere. La posta in gioco è il controllo della coalizione, vale a dire il possesso degli strumenti che consentiranno l’allocazione strategica di risorse come la leadership, la definizione dell’agenda, il progetto politico, l’indirizzo futuro delle istituzioni e delle risorse, la composizione della classe dirigente. Ci sarebbero le premesse perché la competizione diventi un conflitto per l’egemonia.
In Piemonte la divisione tra Pd e M5S ha fatto perno soprattutto sulla giunta di centrosinistra del Comune di Torino, guidata dal sindaco Pd Stefano Lo Russo, che ha un orientamento amministrativo lontano da quello della precedente giunta grillina della Appendino. Il Pd ha candidato a presidente della Regione l’assessore di Torino, Gianna Pentenero. Conte l’ha interpretata come una sconfessione del M5S. E ha seguito gli umori della parte del suo partito che non vuole rinunciare alla caratteristica di movimento trasversale, populista, imprenditore della protesta, che è pronto a correre da solo. Per il M5S la relazione con il Pd deve seguire il modello applicato in Sardegna: l’alleanza funziona solo se Conte è determinante. Il via libera al candidato Pd in Basilicata non mette in discussione la linea di un negoziato permanente dagli esiti incerti. Il Pd risponde che occorre generosità per mantenere aperto il dialogo, ma a sua volta corre il rischio di uno slittamento verso la subalternità. In questo tiro alla fune, vincere la competizione interna ha la precedenza su quella esterna contro la destra.
Pd e M5S sembrano in affanno anche nel rispondere alla sfida delle trasformazioni sociali. Innanzi tutto, c’è il passaggio dalla centralità del partito a quella dell’elettore. I due partiti tendono ad essere uguali a stessi: organizzazioni più tradizionali orientate all’ideologia o, se vogliamo usare un termine economico, al prodotto. Non sembrano in grado di ridisegnare la propria organizzazione come orientata al mercato del consenso, al clima di opinione. Anche il M5S, che pure su questi temi aveva tentato delle innovazioni, sembra aver fatto passi indietro. Emerge un disallineamento con la società. Questo atteggiamento non fa i conti con il cambiamento dell’elettore. In passato prevaleva la mobilitazione partitica: il motore che attivava i cittadini era l’affiliazione al partito. La sua posizione era utilizzata come indicatore da seguire. Il vantaggio era di ridurre la quantità di informazioni necessarie per decidere come comportarsi, sollevando gli elettori dalla responsabilità. La delega era possibile perché c’era fiducia nel fatto che i partiti agivano nel loro interesse. Il sigillo di questa condizione storica era il voto di appartenenza.
Oggi lo scenario è profondamente mutato. I partiti soffrono di una crisi di delegittimazione. La carica di identificazione degli elettori si è indebolita. Inoltre, per Roland Inglehart, oggi prevale la mobilitazione cognitiva non quella partitica. I cittadini avvertono la necessità di esprimere le proprie domande individuali, meno vincolate alle ideologie, affermano la propria visione del mondo ed i propri valori. È un mutamento determinato dalla modernizzazione della società, che ha spinto i cittadini a ridefinire, come ha sostenuto il sociologo Anthony Giddens, il rapporto tra individuo e collettività. I cittadini si percepiscono auto-sufficienti, in grado di definire sulla base delle risorse cognitive che possiedono (informazioni, istruzione), per che cosa mobilitarsi. L’elettore autonomo, autoriflessivo, coinvolto emotivamente, instaura con i partiti un rapporto disincantato. L’elettore vuole scegliere sulla base di valutazioni e sentimenti ispirati alla propria visione di ciò che serve a sé stesso e alla comunità. Questo cambiamento ha definito due differenti figure di cittadinanza: nella formulazione del professore Luigi Ceccarini, si è passati dal «cittadino deferente» al «cittadino critico». Il primo partecipava per senso del dovere; il secondo si attiva sulla base di ciò che decide stargli a cuore. Nel primo caso vale la pena sottolineare un rapporto top-down, dall’alto, nel secondo s’instaura un rapporto bottom-up, dal basso verso l’alto.
La trasformazione dell’elettore ha accompagnato un parallelo mutamento dei partiti. Se in passato i partiti di massa erano orientati all’ideologia e al prodotto-proposta, adesso i partiti sono chiamati a essere orientati alle preferenze degli elettori, ai loro bisogni, al clima di opinione, cioè al mercato. I partiti poi incontrano una difficoltà crescente a rappresentare la società in generale: il modello del partito pigliatutti funziona poco in una società segmentata in settori eterogenei, frammentata, in cui agisce una grande pluralità di attori anche in spazi esterni ai canali politici, come le piattaforme digitali. Il calo di fiducia è motivato dalla percezione di un peggioramento delle prestazioni delle istituzioni. La complessità moderna ha ridotto la capacità dei partiti di rispondere alle aspettative e alle istanze sociali. La sinistra in particolare non sembra riuscire a fare i conti con questi cambiamenti: l’erosione del sentimento di identificazione dei cittadini, la presenza indebolita sul territorio e nella società. È in ritardo nell’imporsi all’attenzione di nuovi segmenti del mercato elettorale. Fatica a sintonizzarsi con le nuove domande che giungono da elettori insoddisfatti, disillusi ma esigenti. E a costruire un legame con loro.
Le trattative per le elezioni regionali hanno messo in luce i problemi di Pd e M5S su questo nuovo terreno di gioco. Schlein e Conte non hanno avviato un rinnovamento delle rispettive organizzazioni come avevano lasciato presagire. Non compare nessuna discontinuità. Le candidature, per esempio, sono state decise dai due leader secondo un vecchio metodo. Il perimetro variabile dell’alleanza è stato disegnato in vertici ristretti. Dal radar del Pd sono sparite senza spiegazione le primarie. Si può ovviamente discutere sull’efficacia delle primarie, ma il punto è che non sono state sostituite da nessun altro sistema di consultazione o di coinvolgimento dei cittadini. La partecipazione degli elettori sembra ridimensionata. Unici segni di modernità: acquistano importanza la comunicazione (ma unidirezionale) e la dimensione elettorale. I due partiti svolgono il lavoro pedagogico di un tempo, i cittadini rimangono spettatori, mentre Pd e M5S restano uguali a sé stessi, mentre maturava il nuovo elettore critico. Viene confezionato un programma calato dall’alto, mentre prendono corpo orientamenti di voto che si costruiscono su divisioni valoriali trasversali.
Questa impostazione si è vista Abruzzo. È stato selezionato un ottimo candidato, l’ex rettore di Teramo, Luciano D’Amico, ma senza tenere conto della lettura oppositiva che ha elaborato una parte degli elettori: il suo nome sarebbe stato indicato da uno dei leader del Pd regionale, Luciano D’Alfonso, esponente di una corrente del partito che si è distinta nella gestione del potere. Così un’ottima candidatura, per la quale non è stato costruito un percorso adeguato, è stata indebolita dall’interno prima che dall’esterno. Il campo largo abruzzese poi è stato interpretato in chiave geopolitica: un’alleanza dominata dalla costa contro la parte interna della regione, che si sente marginalizzata, che poi ha premiato la destra. Le domande locali non sono state intercettate dall’offerta. Roma, sbagliando, ha nazionalizzato le elezioni, dando un vantaggio alla Meloni, che ha potuto puntare sul suo brand di premier, rilanciato da tutte le TV (Rai e Mediaset). Parte dei grillini si è rifugiata nell’astensione, una quota degli elettori di Calenda e Renzi ha scelto di votare il candidato della destra. Tra partiti ed elettori è scattata una sorta di incomunicabilità, che ha ostacolato il riconoscimento reciproco.
Il disallineamento con la società, quindi, ha usurato il senso della prospettiva che il centro-sinistra ha proposto agli elettori. Uno scenario che rischia di ripetersi nelle prossime elezioni regionali. Il paradosso è che nell’urna si fronteggiano una verticalizzazione di destra e una verticalizzazione di sinistra con contenuti e valori diversi, ma sempre di verticalizzazione si tratta. Il centro-sinistra ha dato l’impressione di ripiegare sulle sue dinamiche interne, accentuando l’immagine di forze mainstream ancorate a un ruolo tradizionale.
La corsa elettorale sembra ruotare attorno a un polo solo. Se il voto (meno ideologico e meno orientato dalle caratteristiche sociali dell’elettore) è diventato una libera scelta individuale, allora assumono rilevanza i temi, la leadership, il negative voting, ovvero la decisione basata non sui risultati della politica ma sulla disapprovazione di una parte in gara. Un voto contro più che un voto per, che in Sardegna ha probabilmente penalizzato il candidato della destra.
Questi fattori sono stati gestiti abbastanza bene in Sardegna, grazie anche agli errori degli avversari. Dall’Abruzzo in poi potremmo vedere un’altra storia.
I sondaggi, del resto, fotografano il radicamento stagnante dell’opposizione: il Pd di Elly Schlein oscilla da tempo tra il 19/20%, il M5S fa il pendolo tra il 15/16 %, i partiti riformisti sono vivaci, ma restano di piccole dimensioni e non si coordinano.
Tutti non sembrano pronti a sfidare la maggioranza di destra, che pure ha problemi. L’opposizione non ha perso abbastanza?