Che succede alla premier Giorgia Meloni? Come mai ha fatto il verso a una precedente offesa del presidente De Luca, presentandosi come «quella stronza»? Come mai lei capo del governo se la prende con i giornali che la criticano, sostenendo che le elezioni non le decidono i radicali di sinistra? Perché esibisce queste cattive maniere?
Il fatto è che per la premier la campagna elettorale delle europee si è rivelata più difficile del previsto. La premier avverte l’insoddisfazione che circola nel Paese. Ha un alleato che la scavalca a destra. Il bilancio del suo anno e mezzo di governo suscita perplessità se non delusione. In Europa potrebbe riformarsi (secondo i sondaggi) la maggioranza precedente. Con il nuovo patto di stabilità in autunno i problemi per i conti pubblici non mancheranno.
È uno scenario non agevole. La premier tenta di non perdere consenso e legittimità. Per riuscirci sembra avere deciso che la strategia della sua campagna elettorale non è quella dell’incumbent, cioè di chi è in carica al governo, ma quella della sfidante, cioè come se lei fosse ancora all’opposizione.
Per ottenere un buon risultato, che secondo molti osservatori dovrebbe essere dal 27 per cento in su, ha scelto di posizionarsi come se fosse esterna al sistema per arrivare al voto nelle migliori condizioni possibili. Di conseguenza ha stabilito come e cosa comunicare agli elettori. Considerato il contesto in cui la premier opera, con le incognite geopolitiche legate alle guerre, i rischi per l’economia, le incertezze sull’Europa, i problemi nazionali irrisolti, la premier è obbligata a costruire un contesto diverso. Deve convincere gli elettori a interpretare la realtà quotidiana in un modo che non le sia avverso.
Per ottenere questo risultato cerca di condurre alcune difficili operazioni: deve puntare sulla visibilità e notorietà che le assicura la carica di presidente del Consiglio in modo da conquistare l’attenzione dei cittadini e agire da una posizione privilegiata. Infatti, Rai e Mediaset sono pronte a darle ampio spazio a ogni sua iniziativa. Inoltre, deve far prevalere la propria definizione della realtà, la propria narrazione, il proprio sistema di valori. Infine, deve formulare un’offerta che risponda alle domande dell’opinione pubblica.
La Meloni agisce come se fosse la sfidante non solo perché per carattere non riesce a dismettere quel ruolo. La premier non ha un bilancio positivo da presentare per farne il tema centrale della campagna. Semmai ci sono molti temi che potrebbero giocarle contro. I cittadini probabilmente hanno ancora la percezione di lei come una figura di donna in parte nuova (nonostante faccia politica da anni e sia stata al governo con Berlusconi), ma forse faticano ad associarla a qualcosa di importante che ha fatto. I dati sulla sua fiducia nei sondaggi mostrano che l’approvazione per il suo operato non è maggioritaria.
Oggi è più difficile credere alle sue promesse. La Meloni ha tentato di utilizzare alcune misure economiche a suo vantaggio, ma le difficoltà dei conti pubblici hanno rivelato ben presto la loro scarsa consistenza. Se la Meloni è consapevole della sua limitata popolarità, della insoddisfazione di una quota importante di cittadini, si comprende che abbia deciso di non concentrare l’attenzione sulla sua performance al governo. Invece ha puntato sulla dimensione ideologica e sulla sua figura personale. Infatti, insiste sul suo status di leader di uno schieramento di destra contrapposto al centrosinistra, sul quale scarica ogni responsabilità per le sue difficoltà Anche l’idea di farsi riconoscere come Giorgia e scrivere il suo nome sulla scheda elettorale sembra un modo per presentarsi come simbolo unico e incontrastato della destra.
Più che comunicare e difendere i suoi risultati, la Meloni premier si è trasformata nella Giorgia oppositrice e sfidante. Non potendo presentarsi come alternativa credibile a sè stessa, sposta l’attenzione dei cittadini verso l’Europa. Chiama a raccolta il suo elettorato, annunciando che si devono cambiare gli equilibri politici a Bruxelles. In Spagna compare a fianco di Vox, in Francia riallaccia un dialogo con la Le Pen. Recupera la sua storia di radicale di destra per mobilitare un elettorato sensibile a questo argomento.
La Meloni non può creare una visione alternativa al suo governo, così evoca una visione alternativa dell’Europa dove la sinistra fa parte della maggioranza. Tutta la campagna elettorale sembra un appello al suo popolo, perché vada a votare chi è fedele alle idee conservatrici. Un posizionamento che prevede di attrarre voti anche dai suoi alleati, in particolare dalla Lega. La serrata concorrenza interna alla coalizione aiuta a spiegare le posizioni estremiste di Salvini. Indicando l’Europa come scenario, la Meloni può recitare la parte della classica sfidante, che conosce bene: colei che vuole cambiare il quadro politico, portatrice di speranza. Non a Roma ma a Bruxelles dove non andrà.
In questa strategia comunicazione e linguaggio hanno un peso determinante. Non esiste un programma della Meloni per l’Europa, ma la premier è un’abile comunicatrice. Quasi ogni giorno si assiste alla costruzione di un nemico: la sinistra è il bersaglio naturale, dato che l’avversario è una figura fondamentale per la costituzione della propria identità. Per questo la Meloni aveva proposto un duello in tv con la segretaria del Pd Elly Schlein: scegliendola come avversario concentrava l’attenzione del pubblico sulla sfida tra due donne, oscurando gli altri competitori. Un duello che avvantaggiava entrambe.
Ma la Meloni ha individuato anche altri nemici: i giornali che la criticano, alcuni giornalisti, amministratori locali della sinistra, alcuni riformisti (soprattutto Matteo Renzi). La Meloni agisce con una certa dose di aggressività. Anche l’uso delle cattive maniere e di un linguaggio rude, greve, se in passato era considerato un disvalore, oggi con il populismo è diventato quasi una risorsa a disposizione dei politici. La Meloni ricorre a questo codice linguistico (come ha fatto con la «stronza» per ribattere a una precedente offesa di De Luca) soprattutto per rafforzare l’immagine di sè stessa ritagliata per questa campagna: una leader estranea all’establishment, coerente, combattiva.
Lei stessa si è dichiarata orgogliosa delle sue origini popolari. Tutto converge nel messaggio che torna a trasmettere: sono una di voi.
«O la va o la spacca» è un altro esempio di popolarizzazione della sua figura. Sono provocazioni che a volte sorgono spontanee in una interazione, ma che nascondono un calcolo: in un ecosistema comunicativo ibrido, dominato dalle piattaforme, la visibilità e l’attenzione degli elettori dipendono molto dall’emotività, dalle proiezioni identificative. La premier sa che mancare di rispetto a norme sociali e culturali che governano le relazioni personali e istituzionali significa non riconoscere le tradizioni democratiche. Con questi comportamenti poco civili contribuisce a un processo di delegittimazione del confronto pubblico, delle stesse istituzioni. Una delegittimazione che può colpire gli stessi politici, Meloni compresa. Ma la posta in gioco è troppo alta: la premier teme di perdere consenso. Nell’arena del mercato elettorale tutto sembra lecito pur di giungere al risultato. Spesso una caduta di stile può conquistare l’attenzione del pubblico e le emozioni dei social network.
Il presidente del Consiglio dovrebbe essere il leader simbolico di tutta la comunità nazionale, dovrebbe rappresentare anche chi non l’ha votato. Ma questa cultura istituzionale non sembra molto praticata dalla premier. In queste elezioni il gioco è duro, lei si è subito adattata. Priva di un bilancio positivo, la sua offerta è tutta simbolica: si concentra sulla identificazione politica, sulla missione ideologica di mandare all’opposizione la sinistra in Europa, su lei stessa.
La sua narrazione cerca la mobilitazione del suo elettorato. Propone la propria immagine di leader come oggetto di consumo per gli elettori. Se ascoltiamo la Meloni, non si vota per la libertà di scegliere programmi per l’Europa, ma per la libertà di scegliere identificazioni diverse. Solo in questo modo può oscurare i limiti del governo, l’inadeguatezza di gran parte della classe dirigente che la circonda. I cittadini sono invitati ad assistere a una democrazia recitativa: un teatro in cui gli attori cambiano parte, costume, discorso a seconda delle convenienze nella lotta per il consenso. Come ha scritto il sociologo Luciano Cavalli nel libro Giulio Cesare Coriolano e il teatro della Repubblica. Una lettura politica di Shakespeare, il leader è un uomo o donna di teatro che deve continuamente recitare. Una recita, ammoniva Shakespeare, in cui la verità sembra assente.