La domanda accampata sotto le tende degli atenei

In molte città italiane davanti alle università ci sono tanti studenti, soprattutto fuori sede, accampati nelle tende. È una protesta che ha come bersaglio il caro affitti: nelle città universitarie i costi per una stanza sono diventati proibitivi, molti non possono permettersi spese lievitate per la speculazione e per l’inflazione. Il diritto allo studio viene messo in discussione.

Ma sarebbe un errore pensare che sotto quelle tende sia presente solo il dissenso per una questione economica, per quanto importante. Le ragazze e i ragazzi che hanno cominciato la protesta non l’hanno ancora sollevata esplicitamente, ma c’è una domanda che si aggira tra le tende: la domanda riguarda il futuro e la responsabilità.

La concezione del tempo e quella della responsabilità determinano la nostra rappresentazione della politica. Questa è la posta in gioco della protesta: quale politica siamo in grado di produrre per fronteggiare l’incertezza. I giovani rappresentano il nostro domani, chiedono la capacità di favorire lo studio e la crescita delle prossime generazioni. Indicano così un manifesto di nuovi valori.

I numeri sono negativi per noi: in Europa il 42% dei giovani tra i 25 e i 34 anni ha una laurea, in Italia solo il 28%. Siamo in fondo alla classifica, peggio di noi fa soltanto la Romania. Ma in Irlanda oltre il 60% dei giovani ha una laurea, a Cipro il 58, la Francia sfiora il 50 per cento, in Germania il 36. Un confronto deludente, perché vuol dire che il Paese non migliora dal punto di vista culturale e intellettuale. La prossima classe dirigente potrà contare solo su una minoranza in grado di alzare la qualità della società. L’Italia non investe come dovrebbe sul miglioramento dei suoi cittadini sia per potere sostenere un’economia innovativa, ormai a pieno titolo economia della conoscenza, sia per alimentare una democrazia che possa contare su cittadini informati, preparati, consapevoli, in grado di avere il bene comune come bussola, facendo meglio dei padri.

Piantando le loro tende i giovani hanno posto al centro dell’attenzione il loro tempo personale, la loro biografia, e l’hanno messo in relazione con le strutture temporali delle istituzioni e della società. In questo modo ci hanno mostrato come non sia possibile separare il tempo degli individui dal tempo sociale, modellato dalla storia, costruito socialmente, accordato con i ritmi della natura e del quotidiano. Il tempo unifica le prospettive, rivela che l’uno e l’altro sono dimensioni di uno stesso universo, come ha osservato Emile Durkheim. Rivede l’immagine di un mondo, ha scritto Norbert Elias nel suo Saggio sul tempo, «diviso in settori ermeticamente chiusi».

L’Italia, dicono infatti i giovani, è un Paese che pensa poco il futuro. Non è un problema solo nostro, ma della società contemporanea. Ma da noi questa scarsa sensibilità è acuta. Perché il futuro sembra smarrito? Fino alla fine del Novecento ha dominato l’idea illuminista di un futuro come progresso lineare, ereditato dalla tradizione giudaico-cristiana, che è stata laicizzata. Il futuro rappresentava una promessa di avanzamento e di miglioramento: i figli avrebbero vissuto meglio dei padri. La scala sociale sarebbe stata in movimento. Il progresso economico e scientifico avrebbe accompagnato e assicurato la crescita. La narrazione che sosteneva la fiducia nel futuro a lungo ha alimentato speranze individuali e sociali. Ancora oggi ne avvertiamo l’eco.

Le contestazioni degli anni ’60 e ’70 erano ispirate dal sogno di un futuro differente, che si poteva costruire. Intorno agli anni ’80 però è cominciata una grande trasformazione, che ha visto emergere una accelerazione sociale alla cui base c’è l’intersezione della globalizzazione con l’ingresso delle tecnologie dell’informazione in tutti gli ambiti della vita sociale. In realtà l’accelerazione era iniziata nel Settecento, avverte Koselleck, nel libro Futuro passato. L’accelerazione è cominciata come esperienza di un tempo nuovo: la modernità. È questo processo che ha favorito lo sgretolarsi della tradizione e lentamente ha ridefinito le relazioni tra passato, presente e futuro. Il passato è apparso remoto, un peso da cui emanciparsi, mentre il futuro si mostrava come una sfida, come hanno dimostrato le straordinarie innovazioni tecniche dell’Ottocento e del Novecento. L’esperienza collettiva del tempo e la percezione del mondo hanno subito una trasformazione.

Nella seconda metà del Novecento è però intervenuta una svolta con la globalizzazione. La crescente velocità di circolazione delle merci, delle persone, delle informazioni e la riduzione della distanza tra i luoghi, ha intensificato il ritmo della vita e mutato la prospettiva degli individui. Il processo di accelerazione era funzionale all’esigenza del capitalismo di accelerare la velocità di circolazione del capitale e delle informazioni. L’avvento della network society poi ha coronato questo processo instaurando lo spazio dei flussi, come lo ha definito Manuel Castells nel suo libro La nascita della società della rete. Abbattere il tempo degli scambi è per il capitale un requisito essenziale per affermarsi. Si è delineata una nuova concettualizzazione del tempo: la high speed society si è proposta come un modello che ha avuto conseguenze non solo economiche e politiche, ma ha investito questioni strategiche come il modo in cui si sarebbero costruite le identità e le biografie degli individui. In uno scenario che identifica il futuro con l’incremento della complessità sociale, l’esperienza del nuovo tempo è diventata l’accelerazione e il suo mutamento costante. Le nuove tecnologie digitali hanno portato l’accelerazione a prendere la forma della simultaneità. Nella prima modernità il ricambio generazionale era l’unico riferimento dei ritmi di mutamento. Nella nostra tarda modernità ogni generazione deve misurarsi con un cambiamento permanente. Si diffonde la sensazione che più l’accelerazione si espande, più si avverte una scarsità di tempo a disposizione.

Con il nuovo secolo il clima sociale è mutato e con esso la concezione del tempo e del futuro. Una sequenza di crisi, economiche, geopolitiche, sanitarie, ha modificato l’esperienza collettiva. Se prima il movimento continuo aveva un valore positivo, adesso di fronte alle diseguaglianze e alle crisi ripetute (in cui prevale chi è più veloce ad agire), emerge uno scenario in cui l’incertezza e i rischi economici, sociali, ambientali, ci allontanano dall’idea di progresso come destino positivo dell’umanità. L’ansia dell’insicurezza ci separa dal futuro. Siamo ripiegati invece su un presente, un qui e ora esteso, mentre il futuro non viene progettato, al massimo anticipato. Anzi il futuro viene consumato prima ancora di essere costruito. Se nel recente passato il futuro era il campo aperto delle possibilità, che l’individuo aveva la responsabilità di conquistare con i suoi propri mezzi, oggi materializza singole opportunità da afferrare nell’accelerazione.

Come ha scritto Harvey ne La crisi della modernità questo presente, che Agnes Heller definisce assoluto, diventa «tutto ciò che c’è». È quasi un orizzonte esistenziale, che prende il posto sia del passato, che non sembra avere più nulla da insegnare, e sia di un futuro evanescente. Vacilla, come ha scritto Bourdieu l’idea della nostra «presa sul mondo». Se il futuro appassisce non è più l’apertura del possibile, ma l’inquietudine dell’imprevisto. Questa nuova visione del tempo non può non avere ricadute sulla rappresentazione della politica. In fondo, sia le rivendicazioni politiche e sociali di questi anni, sia le negoziazioni che le persone attuano nel quotidiano per tenere a bada l’incertezza, si possono leggere come tentativi di tornare a porre sotto controllo il proprio tempo.

Si cerca di riprendere il controllo su una razionalità che ha allargato le diseguaglianze e i rischi. Si prova ad esorcizzare la caduta della memoria collettiva. Si reagisce alla dimenticanza del futuro in un presente che intanto destruttura l’esperienza nel lavoro e nella vita quotidiana. Questo presente esteso si è fatto divenire. Esso non ci chiede, ha osservato Carmen Leccardi nel suo Sociologie del tempo, di «differire le gratificazioni, di essere costruito attraverso il sacrificio temporale, come accade per l’avvenire, non può essere arrestato». Il divenire al massimo svela segni del futuro, non lo progetta.

La domanda che si è accampata sotto le tende allora sembra ricollegarsi all’inquietudine di queste trasformazioni: come si concilia questo tempo senza futuro con la politica e la democrazia che invece richiedono un tempo lungo? Gli studiosi ci insegnano che il futuro è il tempo della responsabilità politica. Quei ragazzi chiedono non solo costi meno esosi per potere studiare, domandano la capacità di pensare e governare un futuro diverso. Vale a dire la capacità di catturare in anticipo il domani e starci dentro in modo consapevole. Il divenire non si deve subire, si può costruire.

E proprio questo sembra l’insegnamento che è arrivato dai movimenti delle donne in questi anni. Non a caso la prima a piantare una tenda davanti al Politecnico di Milano, è stata una ragazza. Alzando la tenda, lei ha raccontato che occorre ribaltare la visione del tempo per cambiare la politica. Sono state le donne a mettere in questione la concezione del tempo legato solo al mercato e alla produzione, e ad avanzare l’idea di un tempo plurale, in cui scegliere la propria identità, sganciata dalla dimensione solo privata, e immaginare la propria vita non solo riferita alla famiglia ma alla propria intera persona. Le donne trasformano l’incertezza in una risorsa per ottenere un risultato. Le donne devono sincronizzare tempi differenti (lavoro, famiglia, biologico) per proiettarsi nel futuro che scelgono. E nel farlo esse devono affrontare una condizione esistenziale sempre in bilico, quasi di continua sperimentazione, agendo tra le loro molte presenze nel mondo della vita e del lavoro. L’universo maschile, fondato su una sola presenza, non sembra essere capace di cambiare allo stesso modo.

Una conferma indiretta che il tempo è politica arriva dal fatto che l’appannamento del futuro sembra legato alla crisi della responsabilità. Anche in questo caso ci troviamo alle prese con un mutamento storico. In passato la razionalità che presiedeva la vita economica e sociale era fondata sul futuro e sul calcolo delle conseguenze dell’azione, che implicava la sua prevedibilità. Il concetto tradizionale di responsabilità, poggiato su questa razionalità, considerava che dato che si potevano prevedere gli esiti di una azione, allora si poteva ritenere responsabile il suo autore. Accanto alla responsabilizzazione dell’agente occorre considerare che la perdita di centralità del futuro ha provocato l’indebolimento del progetto come orizzonte dell’azione. Ma progetti sempre meno progettabili, rischi incontrollabili, hanno spinto verso una riduzione della responsabilità etica a quella tecnica. Di fronte all’incertezza del presente continuo, la responsabilità tende a circoscriversi al ruolo che si ricopre o ai «sistemi esperti», come li ha definiti Giddens, a cui vengono delegate le soluzioni e anche i loro effetti. Beck ha parlato di «irresponsabilità organizzata» nel suo Società del rischio. Oggi più che sulla responsabilità, l’enfasi sembra porsi sulla scelta personale, sull’autonomia, sulla relazione, sull’interdipendenza. Si introducono emozioni e sentimenti come fattori decisivi che sorgono nelle interazioni con gli altri.

Tuttavia, proprio la responsabilità connette il presente con il futuro, partendo dal qui e ora dell’esperienza, anche se non punta necessariamente alla realizzazione di un disegno. La responsabilità può mettere in discussione la logica della società del rischio, perché costringe a fare i conti con la sua incontrollabilità, con i pericoli e la possibile risposta. La responsabilità sembra in grado di rimettere al centro il futuro, sia in termini di riflessione sia di critica dell’esistente. È quello che stanno facendo i giovani davanti le università: costringono il governo Meloni, che sembra non considerarli una priorità, e tutta la società, a immaginare nuovamente il futuro, a sentirsi responsabili delle difficoltà delle ragazze e dei ragazzi che fanno fatica a studiare. Li sfidano a trovare risposte che riguardano il modello di società e i valori che abbiamo in mente. Le tende evocano il quesito sul paesaggio che intendiamo lasciare alla prossima generazione. Sotto la tenda ritorna il desiderio di una nuova responsabilità.

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