La fragilità della frontiera


Le frontiere, generalmente, esprimono sia ostacoli e muri (simbolici e materiali) sia difesa e protezione. Non sempre, nella storia, hanno delimitato l’estensione di uno Stato in funzione della omogeneità della popolazione in esso residente e della sua identità. I confini si sono quasi sempre dimostrati molto mobili in conseguenza di guerre e di accordi che ne segnavano la momentanea conclusione. Da un lato, quindi, le frontiere hanno espresso, nel corso dei secoli, la rigidità della loro essenza politica nel contempo, la loro mobilità ne esprimeva la precarietà conseguenza dell’intervento degli eserciti.

Qualcosa è cambiata, con la nascita, nel secondo dopoguerra, dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che ha prodotto alcune innovazioni di grande portata. Per la prima volta la guerra – da sempre intesa come normale strumento di soluzione delle controversie fra Stati – è stata giuridicamente considerata illecita, salvo per legittima difesa o se governata dalle stesse Nazioni Unite.

Certo, ciò non ha impedito che varie e sanguinose vicende belliche si producessero, ma per la prima volta, si poneva un limite, non puramente astratto, alle volontà di scorribande militari degli Stati. Soprattutto, con l’approvazione nel 1948 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, raccogliendo una profetica suggestione di Immanuel Kant nel suo, bellissimo, Per la pace perpetua del 1972, si è sancito che la violazione del diritto fondamentale di una persona, al di là dell’appartenenza nazionale, costituisce un vulnus per l’intera Comunità internazionale che ha quindi il dover di farsene carico.

Viene quindi giuridicamente smantellato il tradizionale divieto di ingerenza negli affari interni dello Stato – antica prerogativa derivante da frontiere invalicabili – e si crea la base della nascita delle varie giurisdizioni internazionali regionali (come la Corte europea dei diritti dell’uomo) o universali (come la Corte penale internazionale o i Tribunali criminali per Ruanda ed ex Jugoslavia). Per non parlare della stessa nascita del concetto di crimine internazionale, fissato in termini pur formalmente discutibili dal Tribunale di Norimberga ma di seguito messo a disposizione anche di qualsiasi magistrato ritenesse di procedere nel perseguire gli autori dei reati di maggiore gravità.

Quanto alle frontiere quali ostacoli alla mobilità delle persone fisiche la stessa Dichiarazione ha sancito all’art. 13 che «1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato; 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese».

Il diritto di immigrare deve poter essere tutelato e comunque sempre nel rispetto della dignità della persona che lo esercita. È questo il senso dei successivi articoli 28 e 29 con i quali si delinea un sistema dei diritti umani per il quale ciascuno, indipendentemente dalla nazionalità, possa prendere parte attiva alla vita pubblica della comunità in cui vive. Kant, sempre nella Pace perpetua, parla della «[…] proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco dell’altro; originariamente però nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della terra».

Con l’avvento del diritto internazionale dei diritti umani comincia quindi, pur se molto lentamente, a delinearsi una nozione di cittadinanza universale o plurale in cui tutti i membri della famiglia umana acquisiscono un ruolo esercitabile anche al di fuori degli Stati di appartenenza anagrafica.

Ma le frontiere hanno dovuto confrontarsi, nei decenni più recenti, con il rafforzarsi della globalizzazione soprattutto del potere che ha scavalcato sotto più profili la politica nazionale limitando la capacità dei governi di esercitare una piena sovranità perché decisioni cruciali sono adottate in luoghi situati ben al di là dei loro territori. Gli Stati sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo o non sono comunque in grado da soli di affrontare problematiche per loro natura sovranazionali (si pensi all’ambiente, all’inquinamento, ai flussi migratori, alla finanza).

Il vero pericolo per la democrazia è, infatti, il consolidarsi di una realtà in cui la sovranità non è più sottoposta a regole e vengono esercitati poteri che i cittadini non possono controllare in quanto trasferiti in mani sconosciute e private violando i principi di prossimità e trasparenza.

In particolare, la crisi pandemica da Covid-19 è stata la più clamorosa evidenza di quanto possano rivelarsi fragili sia le frontiere sia gli strumenti messi a disposizione dei poteri statali per affrontare con efficacia alcune problematiche. La ripresa rispetto al possibile moltiplicarsi delle pandemie è con tutta evidenza possibile solo attraverso una grande collaborazione internazionale sul piano sia della ricerca scientifica che di consistenti investimenti da parte degli Stati.

È quindi chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con strumenti politici globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Si tratta di un approccio necessario in quanto assistiamo a processi che denazionalizzano istituti e procedure a suo tempo nati come statali ed ordinati intorno allo Stato, per cui la stessa statualità, una volta frutto della mera volontà di un sovrano, è oggi il prodotto del sistema complessivo dei soggetti operanti nello spazio globale.

La questione nodale, quindi, è che l’organizzazione dello Stato richiede radicali cambiamenti per adattarsi a un nuovo contesto nel quale esso è costretto a moltiplicare le relazioni intergovernative senza, peraltro, potersi più limitare ai tradizionali rapporti di natura meramente pattizia caratteristici del diritto internazionale. Ciò non significa, certo, sostenere un’imminente scomparsa degli Stati nazionali che svolgono, invece, un ruolo ancora preminente nell’ambito della globalizzazione. Anzi. La stessa cessione ad organismi sovra-nazionali di proprie competenze avviene sempre con molte cautele di natura giuridica ed in maniera del tutto reversibile.

D’altronde, la struttura interna dello Stato ha già registrato profonde trasformazioni.

Fin dall’origine lo Stato nazionale ha avuto un carattere centripeto, ma nel corso della seconda metà del Novecento questo carattere è entrato in crisi, anche in conseguenza della complessità crescente della macchina amministrativa e dell’aumento dei suoi compiti. E ad esso è subentrato un movimento centrifugo, in una duplice direzione. Da una parte molte funzioni del potere centrale sono state assunte da organi regionali o sub-regionali; e quando esso si è rifiutato di attribuirle o di concederle, ne sono derivate rivendicazioni come nel caso del Paese Basco e in parecchie regioni balcaniche. Né sono mancate minacce di secessione come alternativa radicale a un’autonomia negata o non adeguatamente riconosciuta (vedi anche le complesse situazioni esistenti nel Regno Unito e in Spagna).

Dall’altra parte alcune funzioni sono state trasferite a organizzazioni plurinazionali o sopranazionali. La vicenda dello Stato nell’Europa della seconda metà del secolo scorso è contrassegnata dall’affermarsi di livelli di potere inferiori o superiori a quello centrale, in una situazione di equilibrio più o meno stabile con esso. Ma rimane l’incontestabile circostanza che in un pianeta sempre più interconnesso i problemi locali possono trasformarsi velocemente in sfide globali e che alla grande crescita economica e prosperità si affiancano maggiori disuguaglianze destinate a creare tensioni nonché, inevitabilmente, crescenti flussi migratori.


A queste sfide epocali alcuni Stati europei hanno per tempo ritenuto di fornire una risposta attraverso un accentuato processo d’integrazione pensato quale sostegno alla sovranità nazionale nel nuovo quadro internazionale e non come progetto di una sua sostituzione. Nel progetto europeo, d’altronde, le identità nazionali, quali originali espressioni culturali, non solo non vengono penalizzate ma sono concretamente promosse come enorme ricchezza espressa dal nostro Continente.

La nozione di sovranità dovrebbe invece basarsi sull’effettiva capacità di governo di una comunità, che cessa quando il relativo potere cessi di essere effettivo. È il criterio dell’effettività che costituisce il fondamento giuridico della potestà di governo ed è proprio alla ricerca di tale effettività che con il progetto europeo è stato parzialmente sottratto il destino dei Paesi membri al controllo e alla volontà dei loro cittadini per trasferirlo al di fuori dei loro confini nazionali, proiettando i cittadini stessi in una dimensione sovranazionale dei diritti.

Non va però dimenticato che alla base dell’Unione europea, quale sua fonte giuridica, si pone un tradizionale trattato internazionale e che anche il funzionamento delle sue istituzioni, nell’esercizio del potere legislativo, è per molti versi condizionato della mera cooperazione intergovernativa e, quindi, dalla unanimità ancora richiesta per settori importanti quali politica estera e di sicurezza comune, politica economica e finanziaria, sicurezza sociale, diritti di cittadinanza dell’Unione.

Tale vetocrazia, inoltre, è anche legata alla procedura di revisione del Trattato istitutivo la quale, per compiersi, ha bisogno dell’approvazione, parlamentare o referendaria, di ciascuno degli Stati membri, con le conseguenti difficoltà che la storia ha più volte evidenziato. E la recentissima, del 2 luglio, Carta dei Valori (?) – certamente ben diversi da quelli enunciati nel Trattato di Lisbona e nella Carta dei diritti fondamentali – sottoscritta da sedici partiti dell’estrema destra europea costituisce in realtà un preciso monito rispetto a qualsiasi tentativo di eliminare il criterio dell’unanimità.

Sia ben chiaro, dal Trattato di Roma del 1957 è passata molta acqua sotto i ponti consentendo di delineare una realtà politico-istituzionale che costituisce un unicum per il suo carattere fortemente innovativo. Si pensi soltanto alla prevalenza, in caso di contrasto, della normativa comunitaria su quella dei singoli Stati membri e sulla subordinazione dei tribunali nazionali a quelli europei (Corte di Giustizia, Tribunale) diversamente impensabili negli schemi tipici del diritto internazionale. Per non parlare della creazione di una moneta unica in sostituzione di quelle di 19 Stati membri e dell’esistenza di un’area territoriale ed economica basata sulla libera circolazione di merci servizi capitale e lavoro.

I pochi decenni dell’integrazione europea si sono comunque caratterizzati per frequenti crisi tutte superate con ulteriori passi avanti e gli anni immediatamente precedenti alla crisi pandemica hanno visto l’uscita del Regno Unito nonché il progressivo emergere di sentimenti nazionalisti per di più maggioritari in alcuni dei Paesi dell’Europa orientale, facendo sorgere seri dubbi sul futuro dell’Unione europea. Poi, però, è piombato sulla scena mondiale il Covid-19 ed il quadro è radicalmente cambiato.

Schuman nella famosa Dichiarazione del 9 maggio 1950 aveva affermato:  «L’Europa…sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto»; e di questa parlava come un obiettivo di natura politica da compiersi attraverso una lunga serie di concrete realizzazioni. Ma un formale riconoscimento della stessa è avvenuta molto tardivamente a partire dal Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 inserendola fra gli obiettivi della Comunità ma in termini limitati ed abbastanza generici. Il pieno riconoscimento della solidarietà, non più considerata quindi sul piano meramente fattuale né in accezione limitata, è avvenuto molto più tardi grazie alla Carta dei diritti fondamentali del 2001 che la qualifica nel Preambolo come «valore indivisibile e universale» e per la quale si prevede un intero Titolo, il quarto, con 12 articoli.

Finalmente con il Trattato di Lisbona essa è presente in maniera diffusa ad evidenziare che non intende profilarsi quale valore astratto ma come concreto strumento per qualificare gli interventi normativi in una pluralità di situazioni. Si tratta di un principio poliedrico ed è possibile individuarne una molteplicità di valenze quali una, fondante, che la pone a base del modello sociale europeo, e poi una, interstatale, concernente i rapporti tra Stati membri nonché una, interpersonale, relativa ai rapporti tra i cittadini europei.

E non c’è alcun dubbio che lo spirito di solidarietà, come definito all’art. 122 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), abbia rappresentato il filo conduttore delle importanti e decisamente innovative decisioni adottate negli ultimi mesi dalle istituzioni dell’Unione, determinando un vero e proprio salto di qualità da integrazione della austerità a quella della solidarietà. Ricordiamo, con la sospensione del Patto di stabilità, i robusti interventi della Banca Centrale Europea per l’acquisto di titoli di Stato (Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP), il Support to mitigate unemployment risks in emergency (SURE) per il sostegno alla disoccupazione, lo snello Meccanismo Europeo di stabilità (MES) sanitario, la flessibilità nella disciplina degli appalti pubblici e il ridimensionamento del divieto degli aiuti di Stato, un acquirente unico dei vaccini nonché il progetto di una tassazione comune delle web companies con l’obiettivo di colpire tali aziende nel luogo in cui si trovano i consumatori (e non invece in quello in cui si trovano formalmente le loro sedi legali).

Ma la novità rivoluzionaria in grado di riportare il principio di solidarietà al centro dell’intero sistema si è prodotto con l’adozione del Next Generation EU attraverso l’emissione di un vero e proprio debito europeo. Si tratta, in fondo, di una riformulazione dei più volte ipotizzati Euro o Corona Bonds con la differenza che tali prestiti, contratti dalla Commissione sui mercati finanziari, si agganciano direttamente sul bilancio pluriennale europeo. L’Unione ha così scelto non solo di risanare i danni derivanti dalla pandemia, ma ha saputo cogliere l’occasione per gettare al contempo le fondamenta del suo futuro, prefigurando con gli strumenti attivati anzitutto la nascita di un’autentica Unione fiscale, con la Commissione destinata a divenire il maggiore emettitore sovranazionale di debito in Europa.

L’esistenza di un debito comune, da ripagare attraverso nuove forme di fiscalità, è palese espressione di interessi comuni e solidali, fondati su valori condivisi. È stato fondamentale, in tal senso, l’aver ribadito il vincolo tra sostegno economico e rispetto dello Stato di diritto, insuperabile elemento identitario dell’Unione, superando i veti posti da Ungheria e Polonia pur attraverso un compromesso politico che non ha tuttavia alterato gli aspetti essenziali della questione.

Certo, va sempre ricordato il collocarsi di tutti questi strumenti in un’ottica emergenziale ma, soprattutto grazie alla possibile spinta derivante dai lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa partita lo scorso 9 maggio, non è da escludersi la possibilità di introdurre radicali innovazioni nella struttura stessa del bilancio dell’Unione. L’obiettivo sarebbe dato dall’incorporazione del programma, in modo strutturale e permanente, nell’architettura istituzionale europea. Si tratta di superare le rigide regole del Fiscal Compact, introducendo per esempio lo scorporo degli investimenti nel green, nella ricerca, nell’istruzione e nella cultura dal pareggio di bilancio.

Su queste innovative basi, la solidarietà appare, prima che un valore o un principio, l’essenza stessa del processo di integrazione europea una volta aperto l’orizzonte politico della sua dimensione. Ed è forse questa la ragione per cui inizialmente non ne era stata espressa formalmente l’esistenza all’interno dell’ordinamento comunitario. La sua valenza, implicitamente federativa, ha consentito la svolta storica con cui per la prima volta gli Stati membri hanno accettato di mettere in comune il proprio debito. Ed emerge una dimensione della cittadinanza europea come ambito primario della solidarietà politica in quanto, in forza dell’istanza solidaristica, i trattamenti differenziati tra cittadini, sebbene in apparente contraddizione con l’eguaglianza formale, divengono ragionevoli e, dunque, costituzionalmente legittimi dal punto di vista dell’eguaglianza sostanziale.

Schuman nella sua Dichiarazione evidenziava la necessità di costruire una «solidarietà di interessi» sostanzialmente economici nonché politici nei limiti della costruzione della pace, e di più allora non poteva certo dire. Ma oggi, dopo 70 anni, la scommessa non può che essere più ambiziosa. La solidarietà emersa in occasione della crisi pandemica – sanitaria, sociale ed economica – potrebbe portare con sé un significato ben più importante ponendosi come perno consolidato della pace e dell’equità nonché del patrimonio culturale e giuridico comune. E la Conferenza sul futuro dell’Europa, attraverso una moltitudine di eventi e dibattiti organizzati in tutta l’Unione e tramite una piattaforma digitale interattiva multilingue, può rappresentare l’occasione per incrociare la democrazia rappresentativa con quella partecipativa. Bisogna ad ogni modo sperare che il processo avviato risulti comunque ampiamente inclusivo e renda un numero sempre maggiori di cittadini degli Stati membri consapevoli della loro seconda cittadinanza europea attivandone funzioni e diritti.

È giunto il momento di comprendere che l’unica via d’uscita dal pericoloso stallo in cui versa l’integrazione europea consiste nella eliminazione della caratteristica di Giano bifronte dell’attuale Unione. Si tratta di costruire una realtà meno contraddittoria e pienamente sintonizzata sulle ineludibili e improrogabili necessità della odierna società dalle frontiere scolorite. Certo, attualmente fra un’Europa limitata, come l’attuale, e la non Europa, irresponsabilmente evocata da qualcuno, esiste solo l’abisso del fallimento. Ciò non toglie che bisogna lavorare per scenari radicalmente diversi partendo da quei Paesi membri, in gran parte meridionali e molto importanti, orientati a recuperare lo spirito originario del sogno europeo.

Ovviamente nessuno si illude che il percorso possa essere né rapido né agevole; tuttavia, il momento è propizio almeno per cominciare a innalzare fondamenta più solide verso la piena integrazione perché la crisi economica e sociale che seguirà alla pandemia sarà di portata tale da non consentirne un’uscita se non tutti insieme, dai più forti ai più deboli.


La foto che accompagna l’articolo è di Michael Gaida

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