La governance economica europea

È certamente complicato, anche per chi si occupa professionalmente di vicende economiche, esprimere valutazioni su come i Paesi dell’Unione europea, singolarmente o nelle istituzioni comunitarie, stiano affrontando la crisi economica che si è inevitabilmente accompagnata a quella sanitaria. Ed allora si chiede comprensione ai lettori, forse desiderosi di essere ora guidati dalle conoscenze degli economisti, dopo avere assorbito innumerevoli dichiarazioni di molti scienziati, soprattutto virologi, durante l’imperversare dell’epidemia provocata dal Covid-19.

È bene intanto contenere la tentazione di discettare sull’oggettività della scienza, si tratti di virologia o di economia, e tentare piuttosto di diffondere qualche utile frammento di conoscenza per i volenterosi lettori.

La prima indiscutibile difficoltà nasce dalla originalità storica, nel bene e nel male, dell’esperienza in cui oggi sono coinvolti, nel cuore dell’Europa, 27 Paesi che hanno deciso, con convinzioni certamente diverse ed anche altalenanti nel tempo, di costruire, attraverso procedure democratiche, un’entità istituzionale in grado di misurarsi potenzialmente con le maggiori potenze geopolitiche contemporanee (Usa, Cina, Russia).

È piuttosto agevole illustrare tale difficoltà mettendo a confronto i meccanismi attraverso i quali possono essere prese le decisioni necessarie al buon funzionamento del sistema economico negli Stati Uniti, Paese sostanzialmente sovrano, e nell’Unione europea, i cui poteri decisionali sono il risultato di assestamenti continui tra quelli detenuti tradizionalmente dai singoli Stati e quelli affidati ad organi comunitari.

Facciamo riferimento, per quanto ci riguarda, ai tre classici strumenti di politica macroeconomica, a disposizione dei responsabili della politica economica: politica monetaria, fiscale e del tasso di cambio, lasciando da parte la politica dei redditi, altro strumento importante della politica macroeconomica, di applicazione pressoché impossibile nell’Unione europea, almeno nel prossimo futuro.

Notiamo dunque che, negli Stati Uniti, la Federal Reserve, la banca centrale del Paese gode di una certa autonomia dal potere politico, ma deve comunque misurarsi con l’indicazione esplicita, nel suo statuto, della massima occupazione come obiettivo prioritario da perseguire, insieme al controllo dell’inflazione e dei tassi di interesse a lungo termine.

La politica fiscale è decisa dal potere politico, distribuito tra Governo e Congresso, che decidono le entrate e le uscite dello Stato, potendo contare, come avviene soprattutto nei periodi crisi, sulla Federal Reserve, funzionante da prestatore di ultima istanza, ove ci sia un disavanzo fa finanziare con l’emissione di debito pubblico che, per la sua entità, non riesca a trovare sottoscrittori diversi, ivi comprese, ed è già avvenuto per cospicui ammontari, le Banche centrali di Cina e Giappone.

La politica del tasso di cambio, in un mercato mondiale dominato ora, attraverso anche le decisioni del Fondo monetario internazionale, dal regime di cambi flessibili, è affidata alle scelte del Governo che certo deve tenere conto dei vincoli internazionali, ma può anche avvalersi del suo potere politico per richiedere agli altri Paesi, e si è già verificato, energicamente  nei confronti della Cina,  di modificare il proprio tasso di cambio per rendere più confortevole la posizione delle  imprese statunitensi negli scambi internazionali.

Nell’Unione europea, invece, la politica monetaria è accentrata completamente nelle mani della Banca centrale europea, dotata di autonomia assoluta nel confronto di qualsiasi potere politico, nazionale e multinazionale, con la definizione, inoltre, della stabilità dei prezzi (intono al 2%) come obiettivo prioritario da perseguire.

La politica fiscale è praticamente inesistente a livello comunitario, essendo il bilancio annuale dell’Unione europea appena l’1% del Pil dei Paesi membri, mentre la politica dei singoli Stati, formalmente autonoma, è però soggetta ai Patti che sono stati via via definiti mediante accordi (Patto di stabilità e crescita, Fiscal Compact, Mes), che la rendono di fatto estremamente vincolata al rispetto dei vari parametri concordati, come ben sappiamo. Con l’ulteriore complicazione istituzionale che certe decisioni, al riguardo, spettano a tutti i 27 Paesi membri dell’Unione e non solo a quelli (19) dell’area euro.

Infine la politica del tasso di cambio, espressione emblematica della sovranità di un Paese, è sottratta all’iniziativa dei Paesi che hanno accettato l’adozione dell’euro, in quanto potenzialmente affidata al Consiglio europeo, organismo inidoneo per la complessità dei suoi processi decisionali a gestire uno strumento, come il tasso di cambio, che richiede la presenza continua di un organo dotato di rapida capacità d’intervento; nella realtà, quindi, si può ritenere che il tasso di cambio sia un sottoprodotto della politica monetaria praticata dalla Bce.

Siamo comunque, nel caso dell’euro, nell’ambito di un assetto, definito dagli economisti, un’area valutaria ottimale: è utile ricordare che la teoria ha stabilito, con grande attendibilità, che una delle condizioni fondamentali della tenuta di istituzioni così complesse, è il sistematico trasferimento di risorse riequilibratici dai Paesi avvantaggiati ai Paesi svantaggiati; altrimenti si rischia il manifestarsi di spinte disgregatrici all’interno dell’area.

Si può parlare al riguardo di necessità di una visione solidaristica che è apparsa sinora manchevole all’interno dell’area dell’euro, con l’accentuazione dovuta alla presenza, nell’Unione europea, di Paesi che non fanno parte dell’Eurozona.

Restando in campo strettamente economico, ciò si è manifestato già in occasione della precedente crisi del 2007. Infatti, dopo un periodo di tolleranza nei confronti del maggiore indebitamento pubblico, che riuscì tuttavia ad invertire rapidamente l’effetto negativo della crisi, è emerso, con forza, l’orientamento di politica economica contrassegnato, nella comunicazione quotidiana, come politica dell’austerità.

L’applicazione ormai emblematica, avvenuto allora, è bene ricordarlo, anche con il sostegno dell’Italia, è stato il caso della Grecia, sottoposta a condizionalità eticamente spregevoli ed economicamente errate, come riconosciuto successivamente dagli stessi protagonisti che le avevano ispirate.

Invero i fatti recenti sembrano offrire segnali di una diversa consapevolezza delle istituzioni europee, poste di fronte a una crisi economica generalizzata, anche se con intensità diversa nei vari Paesi, scaturita dalla necessità di fronteggiare una crisi sanitaria di eccezionale gravità.


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