Si è molto discusso in Italia, durante le ultime settimane, sull’individuazione dei responsabili della ripresa clamorosa della pandemia del Covid-19; l’inevitabile ed emotiva presenza dell’ispirazione politica dei partecipanti non ha però aiutato a riflettere, se non in qualche caso, sull’esistenza di alcuni aspetti strutturali che connotano la presenza dell’azione pubblica nei processi economico-sociali di ogni Paese. Naturalmente questi elementi si manifestano in forme diverse nei vari Paesi, così come sono diversi, da noi ed altrove, i comportamenti dei cittadini che pure hanno una loro importanza nel determinarne la portata; su questi ultimi, per manifesta incompetenza, non intendo soffermarmi.
Desidero invece offrire qualche spunto di riflessione maturato attraverso la mia lunga esperienza di docente di Politica economica, nata sotto la guida straordinaria di Federico Caffè.
Ricordo che uno dei primi lavori che egli suggerì di affrontare a Nicola Acocella, mio compagno di viaggio, fu quello de Gli intervalli temporali nell’azione economica pubblica; ciò destò inizialmente una certa sorpresa tra noi, perché sembrava riecheggiare uno degli spunti polemici nei confronti dell’azione pubblica, utilizzati da coloro che la osteggiano. Credo invece che Federico Caffè, convinto assertore della necessità dell’intervento pubblico nell’economia per rimediare ai vari fenomeni di «fallimenti del mercato», quali sono stati identificati dall’indagine economica (mancanza di concorrenza, esternalità, diseguaglianze, asimmetrie informative, esistenza di beni pubblici), volesse metterci in guardia rispetto ai possibili fallimenti dello Stato nei suoi tentativi correttivi: invero si tratta sempre di distinguere, come a me piace dire, l’interventismo buono da quello cattivo.
Semplificando, si può usare la categoria del ritardo che intercorre tra il momento in cui si percepisce l’esistenza della situazione richiedente l’opportunità di un intervento e il momento in cui le misure predisposte, da una o più istituzioni pubbliche, siano in grado di produrre i risultati desiderati.
L’articolazione di tali ritardi: di osservazione, amministrativi, negli effetti, ci fa intuire come, di fatto, essi possano essere di tale lunghezza da produrre il disastroso risultato di arrivare in un momento sbagliato, al punto da rendere controproducenti le misure adottate.
Questo semplice schema di riferimento può esserci di grande aiuto nel comprendere il senso di smarrimento, come di altri sentimenti negativi, emersi tra noi, coinvolti attualmente in una seconda ondata di aggressione del Covid-19, di fronte ad un apparato istituzionale articolato in Governo, Regioni e anche Comuni, con i rispettivi organi assembleari. In molti casi le competenze non risultano evidentemente ben definite con l’aggravamento di polemiche spesso accese, dovute alle pur legittime diversità politiche. Ed ecco sprigionarsi una consistente serie di contestazioni riguardanti l’azione di tali istituzioni, ben riassumibili in gran parte nell’accusa di ritardi.
D’altra parte è proprio nei momenti di difficoltà che si può valutare la capacità, sia delle persone preposte sia delle istituzioni competenti, nel saperle fronteggiare: nel caso dell’Unione europea ci si può limitare a considerare la recessione iniziata nel 2007, di natura prettamente economica, attribuibile senza forzature al cattivo funzionamento del mercato, e quella attuale, in cui l’elemento esogeno scatenante è un implacabile virus. In entrambe le situazioni, le istituzioni pubbliche sono state chiamate a svolgere la loro parte, perché c’è stato solo qualche convinto sostenitore della forza autoriequilibratrice del mercato, magari leader di grandi Paesi, a contare sui suoi meccanismi naturali per superare anche tali crisi: stavolta l’emergere cruciale del dilemma tra due obiettivi contraddittori, come salute economica e salute psicofisica, ha fatto ritenere ai più che dovesse essere risolto da organismi politicamente rappresentativi.
Lo schema di riferimento suindicato è una buona guida anche quando si desideri comprendere la complessità del processo attraverso il quale sta passando il Resilience and Recovery Fund (RRF), parte preponderante del più suggestivamente denominato Next GenerationEU (NGEU) da parte della Commissione europea.
Il robusto ammontare di risorse previsto, ben 750 miliardi di euro, è certamente il più significativo risultato prodotto dalla svolta nella politica economica, prodottasi nell’Unione Europea in questo ultimo anno, grazie anche all’azione svolta dai nostri rappresentanti negli organismi comunitari. In effetti è possibile misurare questo mutamento di indirizzo rispetto alla timida apertura in merito alla politica fiscale espansiva, che si ebbe allo scoppio della crisi del 2007, rapidamente rovesciata dal prevalere della politica di austerità nell’Eurozona, con il conseguente rallentamento della ripresa rispetto ai Paesi dell’Unione Europea non appartenenti all’area dell’euro.
Stavolta, invece, ci sono stati non solo l’abolizione del patto di stabilità, vincolante le politiche fiscali espansive dei singoli Paesi, ma anche altri provvedimenti di sostegno: soprattutto, per il tempo più ravvicinato, gli interventi della BCE, i progetti finanziabili dalla BEI e poi, per iniziativa della Commissione, il SURE per sostenere gli interventi contro la disoccupazione, l’allentamento delle pesanti condizionalità previste dal MES, nonché, e questo è stato il provvedimento più innovativo, non a caso quello più contrastato, cioè l’istituzione del RRF.
Novità assoluta sul piano politico-culturale perché si tratta di: emettere un consistente ammontare di finanziamenti, da ottenere con l’emissione di titoli garantiti solidalmente da tutti i Paesi dell’UE, parte dei quali saranno distribuiti a fondo perduto ai Paesi utilizzatori; prevedere un periodo pluriennale di finanziamenti ai vari Paesi per accompagnare l’auspicata consistente ripresa economica; infine, tale sostegno viene subordinato alla sua utilizzazione in alcune direzioni (in primo luogo riconversione ambientale, innovazioni digitali, coesione sociale) e al controllo serrato degli organi comunitari.
Si può ben considerare una svolta dirigista, certamente non totalizzante ma di un’indubbia consistenza quantitativa e qualitativa, riguardante tutta l’Unione europea e non solo l’Eurozona.
Tornando alla questione dei ritardi, già il processo decisionale previsto, soltanto per fare decollare questo forte impulso alla presenza pubblica, mette in clamorosa evidenza la sua tortuosità. Prima la preparazione istruttoria dei contenuti fondamentali da parte della Commissione, poi l’approvazione del Consiglio europeo, del Parlamento europeo, di nuovo del Consiglio europeo, infine la ratifica dei Parlamenti di tutti i Paesi. È allora evidente come siano numerose le insidie alla realizzazione di questa svolta di politica economica, dipendenti non solo dai tentativi dei vari nostalgici della politica di austerità, ma anche dal contrasto tra concezioni diverse del rapporto tra Unione europea e Stati nazionali.
Ciò è emerso, con grande rilievo, in seguito all’approvazione, da parte del Parlamento europeo, di una mozione che condiziona l’accesso di ogni Paese alle risorse del RRF al rispetto dei principi dello Stato di diritto; mozione decisa dopo la mediazione raggiunta tra il Consiglio europeo, la Commissione e il Parlamento stesso.
Abbiamo sufficienti elementi per riflettere sull’inadeguatezza assoluta delle procedure attuali in un mondo nel quale Paesi come Stati Uniti, Cina, India, ecc. possono ottenere decisioni economiche di grande portata con tempi straordinariamente più brevi.
Situazione tale da offrire, dunque, qualche argomento ai nostri sovranisti che vorrebbero ripristinare il più ampiamente possibile i poteri decisionali degli Stati nazionali, ma anche a chi, europeista come lo scrivente, ritiene, al contrario, che occorra, tra l’altro, semplificare i processi decisionali degli organismi comunitari, bilanciandoli attentamente con la massima democratizzazione dei loro processi elettivi.