Per un estremo atto di riguardo nei confronti dell’amico morto, Italo Calvino si assunse la responsabilità di occultare il taccuino segreto di Cesare Pavese quando questo fu casualmente ritrovato. Ora che è stato pubblicato integralmente, rivelando la persistenza di una vicinanza di Pavese al fascismo fin nel cuore della guerra e della Resistenza, quella reticenza e quella mancanza di determinazione che gli si imputavano e che egli stesso aveva dichiarato ne La casa in collina, non possono più essere guardate con l’indulgenza finora tributata allo scrittore; con la conseguenza di dover rivedere tutto dell’intellettuale chiave della Einaudi post bellica, uno dei più fervidi costruttori e sollecitatori della cultura democratica repubblicana, e con il rischio addirittura di far cadere un’ombra su quella intera fondamentale stagione.
Perfino lo stesso Calvino gli si era affidato, ricavandone incoraggiamento per Il sentiero dei nidi di ragno e quel soprannome, lo scoiattolo della penna, che effettivamente lo rappresenta. Rispetto al suicidio che nel 1950 sconvolse tutto l’ambiente culturale italiano, Calvino continuò a rimuginare a lungo, non senza sensi di colpa, convinto che nell’ambiente di lavoro, nel PCI, nella vita privata, Pavese non fosse stato inserito in una rete di relazioni abbastanza forte, una rete in grado di proteggere quel «fratello maggiore» dalla sua stessa debolezza. Di questo si trattava: una riconosciuta fragilità che avrebbe avuto bisogno di amicizia e di affetto, perfino di sorveglianza. E forse, quell’affannarsi di Pavese intorno ai libri, quel lavoro senza sosta e senza riposo per sostenere una linea culturale tanto aperta e prolifica da riuscire a seppellire con le parole e le testimonianze il dramma del fascismo e della guerra, assume un po’ il senso di un risarcimento etico ed esistenziale da parte dell’autore verso quei compagni che avevano combattuto anche per lui. Finché ce la fa, finché è possibile.
Nella ricostruzione che Calvino dà dei fatti, insomma, nella pratica dell’antifascismo resistenziale, quello più duro e rischioso, è fondamentale sentirsi parte di una rete, trarre coraggio e forza dalla consapevolezza di essere dentro un progetto collettivo, pur con i suoi limiti È così che fa anche il suo Pin, il giovane protagonista del Sentiero.
Liberare l’Italia dal nazifascismo è uno sforzo collettivo, o non è. Ed è anche una prova di affidamento reciproco, di fiducia, di credito, in uno spazio dove delatori e incerti possono nascondersi ovunque. Pavese non ce l’aveva fatta a fidarsi, a credere, e noi, rimpiange Calvino, non siamo stati abbastanza stretti intorno a lui. Scrittori e scrittrici, intellettuali passati dalle biblioteche ai bivacchi, e poi di nuovo a scrivere, a raccontare, a testimoniare, ci permettono ancora oggi di conoscere l’anima della Resistenza e di riconoscerla come pietra fondativa dell’Italia repubblicana, nonostante i troppi revisionismi che provano continuamente a minarne l’importanza.
I fronti di guerra erano diversi, e se per Pavese le Langhe rappresentarono lo scenario del disimpegno, per Beppe Fenoglio quelle stesse colline saranno la scena di una cruda militanza vissuta con il fratello Walter, e che regalerà alla letteratura italiana alcune delle pagine e delle figure più intense di quella stagione, ne Il partigiano Johnny, Una questione privata, I 23 giorni della città di Alba, pagine piene di chiaroscuri in cui il tema della responsabilità individuale non concede tregua a chi legge.
Non si può dimenticare fra i torinesi Leone Ginzburg, seguito e poi pianto morto dalla moglie Natalia fra confino, fuga, e lotta antifascista nel clima della persecuzione degli ebrei. In quella fucina turbinosa della memoria e della ricostruzione che sarà l’Einaudi, Natalia Ginzburg porterà il peso della testimonianza, e anche quello della difficoltà del ricordo, non comprendendo immediatamente la portata di un libro come Se questo è un uomo, di Primo Levi, a cui non accorderà la pubblicazione ritenendo impossibile, da ebrea, che l’opinione pubblica della nuova Italia potesse credere o comprendere l’indicibile dello sterminio.
Pure in quelle montagne del Piemonte matura l’esperienza di Ada Gobetti, che racconterà in Diario partigiano la sua guerra, combattuta con importanti incarichi contemporaneamente sul fronte della liberazione dell’Italia e dell’emancipazione delle donne. Accompagnato all’uscita nel 1956 da una nota di Calvino, il libro è ben più che una densa testimonianza della Resistenza, e non va trascurato il fatto che nei decenni successivi, fino ai nostri giorni, la volontà di ricostruire attraverso diari e memorie i fatti di quei mesi e anni cruciali abbia contraddistinto molte partigiane, anche non di estrazione colta, spinte dalla necessità di rimarcare la forte e mai abbastanza sottolineata presenze delle donne nella guerra di liberazione, proprio nella direzione indicata da Ada Gobetti. O da Alba de Céspedes, il cui profilo femminile delineato in Nessuno torna indietro anticipa quello delle donne che fra Resistenza e stagione costituente affermano la loro presenza nella costruzione di una cultura e di un senso comune nuovi.
A Milano entra nella Resistenza Elio Vittorini, che racconta intensamente tutto in Uomini e no. Come Fausta Cialente ad Alessandria, De Céspedes a Bari prima e a Napoli poi era stata la voce radiofonica della lotta di liberazione, trasmettendo messaggi, col nome di battaglia di Clorinda, capaci di tenere unite l’Italia liberata del sud e quella ancora in guerra a nord.
I fratelli Calvino, Floriano e Italo, combatterono in Liguria sostenuti fortemente dalla famiglia, dalla madre in particolare. Per il suo nome di battaglia nella Brigata Garibaldi, Italo scelse Santiago, in memoria della città cubana dove era nato. E i suoi carruggi e le sue montagne restano indimenticabili ritratti di vita, trasfigurati fantasticamente e capaci di raggiungere lettori e lettrici di età e lingue diverse.
A Padova il latinista Concetto Marchesi incita apertamente gli studenti della sua università a partecipare alla lotta, in Val d’Ossola combatte Franco Fortini, in Emilia Romagna imbraccia il fucile Gianni Rodari, e si fa scrittrice una partigiana come Renata Viganò, autrice di romanzi sulle donne nella Resistenza.
Ai Gruppi armati partigiani di Roma prese parte fra gli altri Vasco Pratolini, mentre i capi, come il filosofo Valentino Gerratana, nome di battaglia Spartaco, dormivano nascosti fra i mattoni di Porta Pia, le biblioteche universitarie e altri luoghi, e nessuno doveva conoscere i loro nascondigli. Allo storico della letteratura lucano Carlo Salinari, fra gli organizzatori dell’attentato di via Rasella, toccò in sorte di essere sul punto di morire per sette volte, prima di tornare in cattedra a raccontare la letteratura a generazioni di studenti, come un atto di prolungamento della Resistenza.
I fratelli Pintor combattono fra Napoli e Roma, Giaime muore giovanissimo su una mina, Luigi si salva a Roma per un pelo. Lasciano lettere, diari, saggi, articoli.
E poi ci sono Alberto Moravia ed Elsa Morante che scrivono degli orrori visti in fuga e della Storia che schiaccia le vite. C’è Giorgio Bassani che mette Ferrara al microscopio, e tanti altri, tante altre in un elenco troppo lungo per essere completato.
L’Italia del Novecento è nelle loro pagine, testimoni variegate di fatti e di atti che hanno determinato il corso della storia. Erano intellettuali di estrazione socialista, comunista, liberale, azionista. Non considero i loro nomi più importanti di quelli di altri partigiani e partigiane relativamente all’azione antifascista, ma lo scriverne è stato molto importante, ha aggiunto a quell’azione un senso che si è protratto nel tempo, ha sollecitato una riflessione sull’identità che è stata fondamentale, ha operato intensamente e profondamente.
Non tutte quelle parole hanno resistito allo stesso modo al tempo, e oggi forse alcune di esse risultano più datate, altre troppo ideologiche, alcune troppo idealiste. Però quelle idee nate dalla Resistenza sono un patrimonio da tenere vivo. Libertà, giustizia sociale, diritti uguali per tutti e tutte. E se le promesse di allora non furono tutte mantenute dal dopoguerra, vuol dire soltanto che la liberazione è davvero un processo permanente, che si dovrà continuare a praticare in forme nuove e se ne dovrà continuare a scrivere.
La foto che accompagna l’articolo è di Melk Hagelslag