La lotta non è mai vana: rileggere la sconfitta di una generazione

Pier Giorgio Ardeni

La nostra è una generazione sconfitta? Per chi ha vissuto gli anni Settanta in Italia da adolescente o giovane adulto questa è una domanda che rimane sempre in sottofondo. Se guardiamo a quegli anni, a come sono stati dipinti nella narrazione pubblica divenuta dominante sono gli anni di piombo, gli anni della rivolta, gli anni del disincanto, ma anche gli anni in cui l’Italia uscì dal «miracolo economico» per divenire un Paese post-industriale, entrando definitivamente nella modernità, parola terribile, per uscirne subito dopo e entrare negli Ottanta del post-moderno di Jean-François Lyotard.

Anni di piombo? Sì, la lotta armata parve un’opzione, delirante, di un movimento che era andato crescendo fuori, ai lati, del Partito comunista, perseguendo una logica rivoluzionaria che finì, da subito, per assumere i contorni di una lotta velleitaria e individualista di piccoli gruppi, che si accanì più contro persone, viste come simboli, che contro logiche, che non seppe proporre una politica che non fosse antagonistica e, in fin dei conti, sterile. Ma il piombo non venne solo da quelli della P38, perché di suo ci si mise lo Stato borghese, i suoi apparati, le sue Gladio, la sua manovalanza fascista, pescando nel torbido.

Anni della rivolta? Dagli indiani metropolitani a A/traverso, fu rivolta felice. Ma fu anche rabbiosa, dei primi emarginati dal sistema produttivo che non trovavano collocazione, perché l’Italia del miracolo non fu mai per tutti, e i primi disoccupati. L’Italia delle grandi città, dell’urbanizzazione degli immigrati venuti dal sud alle periferie di Milano e Torino, lasciava indietro la sua provincia profonda, ancora rurale, gretta, bigotta, che in quegli anni andava scoprendo la piccola impresa, la fabbrichetta. Ma la rivolta, il movimento dei disoccupati, gli autonomi, non erano dentro al flusso vitale e organizzato della grande classe operaia che andava facendosi forza di governo, o almeno così credevano.

Furono gli anni della crisi petrolifera, dell’austerity delle domeniche in bicicletta, con Bruno Vespa che in tv si faceva vedere in giro per le piazze pedalando, della ristrutturazione, dell’inflazione, del patto tra Gianni Agnelli e Luciano Lama. Finché tra il sindacato e il movimento studentesco non si aprì una voragine, Lama cacciato dalla Sapienza, che non fu più ricomposta. E lo stesso sindacato le prese anche dal padronato, finendo per arroccarsi con lo sciopero ad oltranza, la marcia dei Quarantamila a Torino, i quadri Fiat che «non ne potevano più» della protesta operaia. La piccola borghesia, i cui padri avevano fiancheggiato il fascismo, si riprese il campo, per avviare la normalizzazione che i ceti emergenti alla coda di Craxi negli Ottanta porteranno in auge con la sua «Milano da bere» e altre amenità. In quel distacco, tra i giovani senza futuro, espulsi dal ciclo produttivo, e la classe operaia, tra i giovani disoccupati intellettuali e quelli che andarono a ingrossare le fila del pubblico impiego e della consulenza si aprì il baratro che ne segnò per sempre la sconfitta.

Il disincanto non poteva essere più brutale. Fu quella l’ultima enerazione a credere nella politica, nell’elaborazione di idee, sistemi, programmi, finanche società, mondi. Andate a leggere i libri che si leggevano allora, qualcosa che oggi appare impossibile. Siamo stati gli ultimi a crederci e ci siamo ritrovati orfani. Senza padri, che i più grandi di noi o avevano fatto le lotte dure davanti ai cancelli delle fabbriche negli anni Cinquanta o avevano «fatto il Sessantotto» divenendone i cantori o gli epigoni (Formidabili quegli anni enunciò Mario Capanna, nel 1988). Siamo stati ultimi a credere nell’impegno politico ideologico: dopo di noi fu il vuoto, fu altro.

Gli anni Ottanta del riflusso (nel privato), dopo che «il personale è politico» era passato di moda (ma il Cipputi di Altan già affermava «dicono che c’è il riflusso, mi devo essere perso l’afflusso). I comunisti divennero poi post, ci fu «l’indimenticabile Ottantanove», che Angelo Ferracuti oggi ammette non aver percepito davvero come un momento «liberatore». Per tanti che finalmente ritrovavano la libertà, per entrare nella giungla del libero mercato, per molti altri la fine conclamata di un’idea, di una possibilità altra.

I Novanta seguirono come un turbine privo di contenuto e pieno di novità, un flusso inarrestabile verso la nuova politica fatta di maggioritario, elezione diretta, Europa, globalizzazione, tutte le parole d’ordine che non raccolsero la mobilitazione attiva di un solo giovane, e poi Berlusca, i girotondi, e poi i vaffa contro i partiti, contro la casta e tante altre amenità. Il lavoro è tornato ad essere povero, sfruttato, disarticolato. Niente più movimenti, niente più mobilitazioni, dopo la macelleria della Diaz e piazza Alimonda a Genova contro il G8 il nulla, stroncato sul nascere, che le piazze piene di ragazzi e ragazzi allegri dei Settanta parvero un sogno.

Per chi aveva apprezzato i compassionevoli e atroci reportage di Angelo Ferracuti degli anni dopo il 2001, quelli in cui in casa nostra abbiamo iniziato a sentire gli effetti della globalizzazione neoliberista, le sue inchieste sempre così calate dentro la realtà dei derelitti di cui racconta, facendoceli sentire vivi e vicini il nuovo libro di Angelo è un’occasione per tornare a quegli anni Settanta in cui tutto finì. Ed è una conferma, perché è un anch’esso un reportage su di un’epoca, vista attraverso gli occhi di un figlio, e sulla sua personale vicenda familiare, incentrata sulla figura esagerata e debordante del padre. Ed è una rivisitazione che ci coinvolge tutti. Non una cronaca, ma un memoir, come viene definito, che nasce nel rivisitare la casa dei genitori, dove tutto è rimasto intoccato dopo la loro morte, facendo riemergere memorie non dimenticate, ma solo accantonate, perché brucianti.

Leggendo l’ultimo Ferracuti non si può non pensare a Paul Auster, il grande scrittore newyorkese, e al suo Ritratto di un uomo invisibile dedicato al padre. Se la morte del padre di Auster arriva improvvisa, tanto che lui si sente obbligato a scriverne già tre settimane dopo la morte, facendo fuoriuscire tutti i mille motivi che sapeva esistere per doverne parlare, nonostante il genitore fosse scivolato fuori dalla sua vita da tempo e non vi fosse, in fondo, mai stato presente, sempre invisibile, per Ferracuti la morte del padre Mario arriva tardi, troppo tardi, quando ormai era impossibile recuperare il vuoto di un’assenza, una distanza, durata tutta una vita, nonostante l’intensa vicinanza, quasi insopportabile, avesse marchiato i suoi giovani anni di figlio.

Proprio come se noi ci ritrovassimo a guardare a quegli anni Settanta che ritornano vivi, atroci, nel ricordo di quella rivolta interiore e poi anche esteriore, di quella lotta vana contro il mondo, degli adulti, del potere, del capitalismo, vissuta come se il mondo potesse davvero cambiare. «Non cambierete nulla, otterrete solo il contrario di quello che volete» gli diceva il padre, ridacchiando, facendolo infuriare. E aveva ragione, fa capire Angelo, perché la nostra è una generazione sconfitta.
Come in Auster, in Ferracuti è la casa con i suoi mobili, i soprammobili, i trofei e le foto che agisce da «motore della memoria». La sua cameretta, la scala, in cui rivede gli scontri verbali, la madre che se ne torna alla sua Singer di sarta per non sentirli urlare, il padre che lo schernisce, lo sminuisce, ma lo fa con inorgoglita goffaggine, lui che da orfano si è fatto da sé e «non ha avuto grilli per la testa». E come in Auster, c’è un dramma indicibile all’origine dello strano carattere chiuso e tutto preso da sé e dalle sue ossessioni, un padre assente in Auster, un padre presente ma in fondo tutto compreso nel suo mondo in Ferracuti. Un padre lontano, in entrambi, un padre “indecifrabile” con il quale alla fine devono e voglio entrambi fare i conti.

Quello che compie Angelo, come fa Auster, è un lavoro di avvicinamento per cercare di capire quel padre che a 60 anni decide di correre, correre a più non posso, sfidare se stesso e il mondo. Un lavoro di vicinanza e prossimità verso una figura che per tutta la vita ha tenuto a distanza. E, per come lo descrive, tutti noi saremmo stati spinti in fondo a farlo. Un personaggio duro, spinoso, spesso antipatico. Eppure, un padre, suo padre. Che è sempre stato sfuggente, finanche egoista, nei confronti suoi, della sorella e anche della moglie, la madre di Angelo, cui sono dedicate pagine di grande dolcezza. Una donna che sembra fare un lavoro che simboleggia quanto ha fatto della sua vita: cucire, rammendare, tenere insieme i pezzi di una famiglia in cui il suo uomo impossibile sembra fare di tutto per non farsi amare. O, meglio, per farsi adorare per le sue imprese di podista solitario e ossessivo, ma che non ha mai parole buone per i figli, che non vuole mai dare loro soddisfazione. Mentre Angelo si fa coinvolgere nelle lotte e nelle passioni della sua generazione, che porteranno alla sconfitta di un sogno politico e di molte vite individuali, distrutte dall’eroina o dalla normalità, il padre si imbarca in un altro sogno ossessivo: correre, correre da solo, sulla marina all’alba o su per i sentieri di montagna, correre decine, centinaia di chilometri, in corse ammazza-cavalli, estenuanti, impossibili.

Angelo non sembra mai avere l’intento di giustificare un padre sfuggente e scostante. Anzi, compie un lavoro di ricostruzione della memoria per comprendere un uomo che ha sempre osservato con distacco, senza capirlo, rifiutandone i vizi, le abitudini, le manie, e che ha al tempo stesso sempre seguito con muta curiosità e quasi con riverenza. Cercando di capirne le ossessioni. Ma cerca anche di riproporci quegli anni dal profondo della provincia dove vive, quegli anni che lo hanno poi segnato per sempre, come molti di quelli che non si sono adattati al nuovo.

Sentiva una ferita, che si era aperta molto tempo addietro, quando la distanza non solo generazionale ma ancora più profonda, caratteriale, valoriale, si era mostrata incolmabile. E vuole rimarginarla, andando a scavare nella memoria, solo apparentemente per dare al padre il tributo che non avevano – né lui né la madre o la sorella – voluto riconoscergli in vita per le sue imprese (che pure in tanti parevano ammirare). Perché in realtà vuole ricongiungersi a lui, fare la pace, ritrovare un affetto mai dimostrato (reciprocamente).

Però, anche per Mario Ferracuti, come per il padre di Auster, vale lo stesso pensiero: l’uomo in sé non ha lasciato una traccia, non il ricordo di una carezza o di un apprezzamento per i suoi primi scritti pubblicati, lo hanno lasciata i suoi cimeli, le sue coppe, le sue foto, i racconti che Angelo ricostruisce con cautela, senza enfasi ma senza condiscendenza.
Tutti noi figli degli anni Settanta abbiamo avuto genitori che ci erano lontani: avevano fatto la guerra, magari la Resistenza, o si erano nascosti, soffrendo come sfollati, facendo la fame. Era anche contro di loro che ci rivoltavamo, perché nel loro mondo non trovavamo posto. Mario rimane orfano di padre che è non ancora adolescente, il padre muore suicida, e resterà segnato da questa vicenda, che gli darà quella durezza per la quale la vita è sempre e solo una sofferenza, un doversi misurare con l’esistenza che non è mai generosa. Ma i nostri genitori, come quelli di Ferracuti e di Auster, erano anche cresciuti in un benessere che si erano fatto tangibile, con gli anni, che appariva quasi come una ricompensa per il sudore speso. Guardavano la tv, ascoltavano canzoni che a noi non piacevano. E per i quali le inquietudini dei giovani apparivano quasi ingiustificate, anche per via di quel fatalismo che insegna che è sempre tutto vano e non possiamo che accettare quel che ci riserva il destino. Contro cui Mario si ribella, a modo suo, per lasciare una traccia. Risultando, così, come il padre di Auster, incapace di amare.

Rilegge la sconfitta di una generazione in quell’amore non corrisposto, in quella ribellione che non era contro i genitori, contro il padre, ma contro un mondo che appariva comunque ingiusto. E ci fa guardare con tenerezza a questo padre, piccolo borghese di una provincia gretta e bigotta, che si è perso dietro ai suoi sogni di gloria, che pure gli è venuta, per quanto effimera, dandogli così valore. «Non hai corso per te soltanto» sembra dirgli Angelo, «e non hai corso solo per la gloria, ma hai corso per me pure. Perché ti potessi raccontare». Ferracuti, come Luigi Di Ruscio, come Mario Dondero, va sulle tracce delle imprese del padre, con la stessa acutezza fotografica e poetica, e va anche dove avrebbero voluto andare insieme, vagheggiandola a lungo, la Norvegia di Di Ruscio, per sentirlo più vicino a sé, perché non vi era mai riuscito, per colpa di entrambi.

È quello che la nostra generazione non è riuscita ad ottenere: il riconoscimento di una lotta giusta, per quanto persa, l’ammissione che ne valse la pena, «se solo ci si fosse parlati e ascoltati». Perché la lotta non è mai vana. Tu hai corso, sembra dire Angelo, io ho preso la mia strada, che tu non volevi che prendessi, scrivendo. E ho scritto di te. Perché solo così sei ancora qui.


Per chi volesse approfondire:
Angelo Ferracuti, Il figlio di Forrest Gump, Mondadori, Milano 2024

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