La mia rivoluzione cominciò alle Olimpiadi del 1968

Darwin Pastorin

Le Olimpiadi rappresentano, sempre, un momento importante: per lo sport, la cultura, le varie declinazioni con la politica, l’economia, la società. Parigi, super blindata, sta già dando prova del bene e del male delle varie discipline, quelle in anticipo sulla cerimonia d’apertura.

Il calcio, per dire, ha già mostrato il suo volto peggiore, con la farsa di Argentina-Marocco, una partita durata quattro ore! La Selección che pareggia, 2-2, a tempi regolamentari ampiamente scaduti (16’ di recupero), l’invasione di campo degli scatenati tifosi marocchini, l’arbitro svedese Nyberg che dopo un lungo ripensamento, e guardando e riguardando il Var, annulla la rete dei sudamericani decretando, così, la vittoria degli africani per 2-1. Da non crederci!

Noi abbiamo perso, ancora prima di cominciare, il favoloso Sinner per via di una tonsillite: ma siamo pronti, soprattutto nell’atletica leggera, a riempirci di medaglie, soprattutto d’oro.

Le prime Olimpiadi della mia piena consapevolezza furono quelle del 1968 in Messico: la stagione del Maggio francese, della rivolta degli studenti e degli operai, della «sporca guerra» in Vietnam, dell’invasione dei carri armati sovietici a Praga, di Martin Luther King e Robert Kennedy assassinati, dei violenti scontri a Roma, tra universitari e polizia, davanti alla facoltà di architettura di Valle Giulia. L’Italia del pallone che conquista il suo primo Europeo superando, all’Olimpico, nella finale bis, la Jugoslavia per 2-0 (reti di Gigi Riva, il breriano Rombo di Tuono, e di Pietro Anastasi, che passerà, in estate, dal Varese alla Juventus).

E poi i Giochi messicani, preceduti da un massacro. Pochi giorni prima dell’inizio delle competizioni, su ordine del presidente conservatore Gustavo Díaz Ordaz, l’esercito sparò sugli studenti che rivendicavano libertà e giustizia: decine di morti in piazza delle Tre Culture. Olimpiadi annullate? Per niente: lo spettacolo doveva andare avanti, malgrado tutto quel sangue innocente.

Una gara, soprattutto, diventerà simbolo eterno di quel Sessantotto rivoluzionario. Feroce e romantico. La finale dei 200 metri. E la foto della premiazione. Un manifesto che, ancora oggi, viene appeso nelle camere, negli uffici, nelle scuole. Gli atleti americani neri Tommie Smith (primo) e John Carlos (terzo) si presentarono sul podio  alzando il pugno avvolto in un guanto nero, a piedi scalzi e con delle collane di pietre al collo (una pietra per ogni afroamericano linciato). Anche il secondo arrivato, il bianco australiano Peter Norman, fu solidale con i colleghi velocisti ed esibì, sulla tuta, il distintivo dell’Olympic Project for Human Rights. Tutti e tre pagheranno a caro prezzo il loro forte gesto di protesta: con l’esclusione dalle Olimpiadi, con la dimenticanza, con l’emarginazione. Oggi ci sentiamo, ancora più che mai, Smith Norman e Carlos.

Non perdetevi la lettura di un libro indispensabile per capire quel momento: John Carlos, Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo, (DeriveApprodi editore) a cura di Dave Ziran, prefazione di Nicola Roggero, bravissimo collega di SKY Sport, esperto di atletica leggera e abile narratore.

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