La nazionale italiana di calcio specchio fedele del paese: chiusa e ripiegata su sé stessa

Giorgio Simonelli

Premessa indispensabile. Non sono un ammiratore di Luciano Spalletti. Anzi trovo insopportabile il suo modo di parlare con tutti quei giri di parole che non arrivano mai a nulla. Inoltre, alcuni recenti atteggiamenti un po’ teatrali (la mano sul cuore al momento dell’inno nazionale) e alcune frequentazioni lo hanno collocato, diciamo così, un po’ lontano dal mio modo di pensare.

Detto ciò, per evitare equivoci, ridurre la clamorosa eliminazione della nazionale italiana agli europei alla responsabilità di Spalletti (che furbescamente se l’è assunta) sarebbe un’ingenuità e un modo per proseguire nell’errore. Per usare una metafora che francamente mi ha un po’ stufato, c’è il dito e la luna. Il dito è appunto Spalletti, la luna, con le sue due facce. è molto più grande e complessa da analizzare.

L’Italia che non solo perde, ma gioca male e rivela un’inferiorità atletica e tecnica netta, indiscutibile rispetto alle altre squadre, è il frutto di un paio di problemi profondi di natura sociale, culturale e anche politica che vengono costantemente rimossi.

Il primo, che ha avuto qualche accenno sui social ma non ha trovato spazio adeguato sulla stampa e in tv forse per le sue componenti politiche imbarazzanti per qualcuno, riguarda la composizione etnica della squadra. Basta guardare il colore della pelle o leggere i nomi dei calciatori delle squadre che vanno per la maggiore in questo torneo, dall’Inghilterra alla Spagna, dalla Francia alla stessa Svizzera per cogliere una differenza rispetto all’Italia. Noi non schieriamo calciatori la cui origine  prossima o più remota si collochi fuori dai confini nazionali.

Il calcio italiano evidentemente non ha ancora accolto quella fruttuosa mescolanza tra caratteri fisici e culturali diversi che tanti buoni frutti ha dato in altre situazioni. È del tutto evidente che i calciatori di colore con la loro potenza atletica e la qualità tecnica sono il punto di forza di varie squadre: Mbappé per la Francia, Bellingam per l’Inghilterra. Musiala per la Germania, Niko Williams per la Spagna. Ma ci sono anche quelli di origini europee non autoctone a lasciare il segno come l’albanese Xhaka che ha dominato il centrocampo nella partita tra  Italia e Svizzera.

Se usciamo dal calcio, non possiamo fare a meno di notare come in Italia altri sport si stiano invece  godendo i frutti di queste integrazioni: una testimonianza clamorosa arriva dall’atletica leggera e dai recenti vincitori di varie medaglie agli europei di Roma. Come ha scritto Michele Serra basta osservare un po’ questi giovani nati dall’unione di origini diverse per cogliere quanto il panorama sportivo sia migliorato sul piano agonistico, estetico e anche culturale. Ma nel calcio non è avvenuto. Balotelli è stata un’eccezione di cui oggi si sottolineano gli aspetti critici dimenticando che nel 2012 ci portò in finale. Per il resto nulla o quasi, neppure le soluzioni utilitaristiche e un po’ furbesche, quelle che  portano a concedere la cittadinanza a talenti che poco hanno ancora a che fare con il nostro paese ma che si possono rivelare a breve termine vantaggiose.

Ricordate la gag formidabile di Checco Zalone in Quo vado?, quando impiegato nello smistamento dei migranti in arrivo a Lampedusa, trovandosi davanti solo medici e ingegneri si lamenta «ma un centrocampista con i piedi buoni non c’è?».

Al di là delle battute, questa  assenza di  giocatori di colore in maglia azzurra sembra oggi un’anomalia se la confrontiamo con le altre grandi nazioni europee.

Poi c’è un’altra differenza meno evidente, più sottile ma che va presa in considerazione. Vedendo la partita tra Italia e Svizzera mi è capitato di fare una considerazione. Quella squadra elvetica così compatta, ben organizzata è costituita da calciatori che giocano quasi tutti in campionati stranieri, in Italia, in Germania, in Francia. La cosa è interessante. Seguendo il calcio da molto tempo, io ricordo i tempi in cui l’avere in nazionale calciatori che nel corso dell’anno militano in squadre straniere era considerato un problema. Se ne parlava spesso ai tempi andati a proposito del Brasile. Quando la nazionale verdeoro, pur avendo a disposizione i suoi grandi talenti, attraversava momenti poco felici, le sue difficoltà erano attribuite proprio al fatto che i suoi campioni giocavano in prevalenza all’estero, in Europa, in varie nazioni, varie squadre con idee e pratiche calcistiche diverse e tutto ciò metteva in  crisi l’equilibrio, l’amalgama della squadra.

Oggi tutto è cambiato, raggruppare atleti che nel corso dell’anno agiscono in contesti diversi non è più un problema ma una ricchezza. Significa portare all’interno della propria rappresentativa nazionale conoscenze nuove, esperienze maturate altrove, duttilità nell’adattarsi alle diverse situazioni. Non sarà un caso che a ben leggere le formazioni, oltre a quella svizzera, si nota come le due punte dell’Inghilterra giochino in Spagna e in Germania, il perno del centrocampo spagnolo in Inghilterra, i più talentuosi francesi in Spagna e in Italia, quelli portoghesi in Inghilterra.

All’Italia manca anche tutto questo, nessuno dei nostri calciatori va a cercare stimoli in altri campionati, le uniche eccezioni sono state la vicenda non proprio esaltante di Donnarumma e quella, disastrosa di Tonali. Per il resto si preferisce la scelta più comoda, rassicurante del paese natio con  i suoi  orizzonti limitati, chiusi al confronto con il resto dell’Europa. Questo, purtroppo, non riguarda solo il calcio che è, anzi, proprio lo specchio fedele dell’Italia di oggi.

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