Aiuto, un baratro si è aperto sotto i nostri piedi. Una inedita stagione elettorale si è abbattuta sul Paese. S’addensano timori e domande.
Che effetto avranno caldo e ombrelloni? E un Covid mai domo e mutante, adesso all’assalto con l’ultima metamorfosi? Ma poi quali equilibri politici usciranno dalle urne? Dobbiamo temere cataclismi?
In molti – e giustamente – temono per la nostra Costituzione. Tanti gli annunci di modifiche già depositati: il presidenzialismo nel tempo ha guadagnato consensi anche su lidi inaspettati. S’accavallano proposte sul sistema penale, sull’immigrazione. Si continua a vociferare di blocchi navali, da analfabeti che ignorano che sono condannati dall’ONU se non dichiarati addirittura entro formali dichiarazioni di guerra.
Val la pena allora di fare un po’ di luce nel buio che s’addensa sul nostro futuro, in questa notte che non passa della democrazia repubblicana, aggrovigliata da tempo attorno a troppi nodi gordiani. Tanti avevano intravisto in Draghi il nuovo Alessandro. Hanno dovuto ricredersi. Ma la delusione è pari se non più grande delle aspettative mancate.
E pensare che altro sembrava annunciarsi in quello scorso 20 luglio al Senato dopo l’invito da parte di Mario Draghi a riscrivere un nuovo patto di governo. Tutto poi è precipitato: «Presenti 192, votanti 133, favorevoli 95, contrari 38».
Sembrava che il miracolo potesse ripetersi. Ormai si era quasi al decimo anniversario del «Whatever it takes»: «Tutto ciò che è necessario». Si era ormai quasi a dieci anni da quel 26 luglio 2012 in cui Mario Draghi a Londra di fronte alla platea della Global Investment Conference aveva piantato il paletto di una nuova BCE al cuore dell’UE e al comando dell’euro. A Roma invece non gli è riuscito di rinnovare i fasti dell’annuncio che allora gli guadagnò fiducia e attenzione incondizionate in Europa e nel mondo.
Cosa è successo qui da noi? Ha perso smalto il novello Cincinnato? Oppure banalmente hanno avuto la meglio cinismi e egoismi di una Roma immutabile?
Non molti oggi ricordano che quel luminoso «whatever» era stato preceduto – e reso magari possibile – dalla ben più prosaica e assai discussa decisione assunta dalla quasi totalità degli stati UE con la firma sul Fiscal Compact e sui suoi obblighi: rientro dal debito pubblico e pareggio di bilancio. L’Italia si era allora dichiarata subito pronta al passo con ratifica e introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione tra il maggio e il luglio di quel fatale 2012 ad opera di un altro indimenticabile governo tecnico: quello di Mario Monti.
La svolta di Draghi intervenne perciò in un quadro europeo terremotato fin dal 2008 in modo radicale – spread a livelli altissimi in molti paesi, Grecia a rischio default, euroscetticismo montante – ma entro una cornice costituzionale che paradossalmente aveva confermato e rafforzato i principi fondativi dei trattati UE: lotta all’inflazione, debito sotto controllo, parametri di bilancio ecc. È entro questo generale quadro costituzionale – con queste sostanziose rassicurazioni del partito e degli Stati del rigore – che Draghi realizza la svolta e l’approfondisce di lì a qualche anno con l’inaugurazione del Quantitative Easing: una politica monetaria espansiva già adottata in momenti di crisi, e con esiti incerti. In particolare, dal Giappone, fin dalla crisi finanziaria degli anni 90, e negli USA in risposta alla voragine del 2008.
Covid e aggressione russa all’Ucraina hanno fatto il resto.
La spesa pubblica ha galoppato, trainando anche una discreta ripresa in tanti paesi. L’effetto è stato quello di un aumento di debito e disavanzo pubblici, sia pure mitigati a fine 2021. Ormai la metà circa degli stati UE si fa beffe del tetto del 60%. Si tratta di paesi – come Germania, Francia, Polonia, Spagna ecc. – con popolazione e peso economico assai rilevanti. Di qui il tentativo di ricondurre il tutto sotto controllo, nell’intento di frenare le divergenze più accentuate, con il rialzo dei tassi da parte della BCE e il varo di uno scudo anti-spread.
Il mutamento più significativo però è intervenuto nello spirito pubblico, nell’humus di fondo, e nella cabina di regia. Il rafforzamento e l’ulteriore allargamento della Nato anche a paesi tradizionalmente neutrali, hanno tolto vento alle vele del sovranismo più marcato. La stessa deriva populista ha notevolmente corretto la rotta, sia pure tra mille ambiguità. La regia generale però è divenuta sempre più elitaria, appannaggio di tecnocrazie ed esecutivi. La marginalizzazione dai reali, effettivi, circuiti decisionali dei parlamenti sempre più accentuata.
La manifestazione più evidente della deriva in atto è nell’astensione elettorale alle stelle e nel fossato sempre più profondo tra rappresentati e rappresentanti. Con il risultato che ormai si sono accumulati mutamenti epocali nelle istituzioni cui noi europei deleghiamo cura dell’esistente e progettazione del futuro. Nato e UE sono ormai ben altro da quelle riprogettate nel biennio fatale 1989-1991. Le abbiamo rifatte ab imis a colpi di revisioni costituzionali sotto traccia.
Basta confrontare l’attuale Concetto strategico che governa le mosse della Nato con i trattati istitutivi dell’alleanza atlantica. Il primo risulta ormai allargato persino alla Cina mentre nei trattati si contemplano solo interventi difensivi sui territori delle potenze contraenti l’alleanza. E che dire poi dell’UE e delle politiche concretamente praticate rispetto ai trattati istitutivi: si tratti di Maastricht o dell’ultima riscrittura quindici anni fa a Lisbona. Il tutto senza mai passare per le dovute ratifiche parlamentari o anche elettorali.
È anche sotto l’urto di queste novità che i partiti in Italia hanno deciso di rompere e riconquistare una parziale libertà di manovra, prima che Draghi, in serrato dialogo con i vertici comunitari e atlantici, rideterminasse ulteriormente le agende future, legasse loro ulteriormente le mani.
Ma sarà questo sistema politico, sia pure interrogato in emergenza e profondità dal corpo elettorale, capace di rispondere positivamente, di riallacciare un dialogo serrato con cittadini e corpi sociali organizzati? Ci sia permesso di esprimere un serio dubbio.
Anche il più semplice e sprovveduto dei cittadini avverte sulla pelle il morso di innovazioni e mutamenti che hanno ormai sconvolto i termini essenziali della civiltà e della convivenza umane. Conviviamo quotidianamente con la minaccia della bomba, abbiamo la vita invasa, riscritta dai social, passeggiamo con il mondo in tasca grazie al cellulare. Ma per questi politici-senza-partito nulla è mutato rispetto ai primi del Novecento. Siamo ancora allo scontro tra Strapaese e Stracittà.