La geografia politica dell’Italia è destinata a essere ridisegnata con tratti netti in seguito alle elezioni del 20-21 settembre. Il rosso tende a sfumare, si dilatano i colori cangianti delle destre riunite. Con ansia crescente Pd e alleati sparsi fanno i conti con la Toscana contendibile, con la Puglia in bilico, con le Marche date per perse. Nella partita doppia regionali-referendum è proprio il partito di Zingaretti a rischiare più di ogni altro. La stessa leadership del segretario, bravo ragioniere dell’esistente, può esser messa in discussione in un partito che non ha mai chiarito, prima a se stesso e poi agli elettori, che cosa vuole essere, chi vuole rappresentare.
Ma la domanda principale – finora senza risposta – è se dopo il voto rischia di andare in crisi anche il governo Conte 2. Proviamo a delineare possibili scenari.
Delle sei regioni al voto – cui va aggiunta la piccola Val d’Aosta a statuto speciale che fa storia a sé – quattro sono governate dalla sinistra (le già citate Toscana, Puglia, Marche e la Campania), due dalla destra (Veneto e Liguria), queste ultime considerate già destinate alla riconferma dei governatori in carica. A sinistra l’unica vittoria certa è accreditata in Campania. Non per la forza elettorale del Pd ma per effetto dell’eccezionale popolarità registrata da Vincenzo De Luca, un dem anomalo, in grado di parlare un linguaggio che fa orrore agli snob di sinistra, ma che arriva diretto ai ceti popolari da tempo distanti da quelle forze che avrebbero dovuto rappresentarli. De Luca, come Zaia in Veneto, ha mostrato una capacità di gestione dell’epidemia garantendo sicurezza ed efficienza delle istituzioni. Sia l’uno che l’altro hanno guadagnato una credibilità a livello nazionale e, dopo il voto, c’è da immaginare che siano pronti a spenderla all’interno dei rapporti di forza dei rispettivi partiti, PD e Lega. Non è un caso che Zingaretti, precipitatosi a Salerno, nel regno deluchiano, si sia affannato a elogiare come grande il governatore uscente e rientrante.
Paradossalmente il grande assente di queste elezioni è il principale partito presente in parlamento, il M5S. Le regionali non sono mai state un’occasione di successi per i grillini. A gennaio scorso un vero disastro in Emilia Romagna e in Calabria. L’insuccesso si profila anche in Liguria, unico caso di accordo simil-nazionale tra Movimento e Pd.
Gli stati maggiori dei carissimi nemici, alleati a Roma e divisi nei territori, tendono a spoliticizzare il senso del voto. È il tentativo di mettere al riparo l’esecutivo. Ci sono i miliardi dell’Europa da gestire, un’occasione unica e imprevedibile ancora un anno fa quando a sorpresa nacque il Conte bis in funzione anti-Salvini. Un risultato disastroso alle regionali – l’incubo del 5 a 1 – convincerebbe ancor più i due riottosi alleati a proseguire nella faticosa collaborazione. Confermerebbe infatti quel che tutti sanno: se si va a elezioni politiche anticipate, la destra otterrebbe la maggioranza dei parlamentari, riconquisterebbe palazzo Chigi e di conseguenza metterebbe un’ipoteca sul Quirinale. Insomma ancorché più deboli, Pd e M5S con il supporto di Renzi e Liberi e Uguali sono condannati alla coabitazione forzata in un governo – va detto per onestà intellettuale – tra i migliori in Europa nel gestire il dramma della pandemia. In attesa del fase 3, quella del rilancio dell’economia, la più difficile.
La decisione di votare sì al referendum adottata da Pd si giustifica in questa logica governista. «Pacta servanda sunt» ha scandito Dario Franceschini, capo delegazione Pd nel governo. I patti vanno rispettati perché se salta la precaria collaborazione con i cinquestelle, salta tutto e si torna al voto prima del semestre bianco, i sei mesi cioè a partire dal luglio 2021 precedenti l’elezione del nuovo presidente della Repubblica in cui non si possono sciogliere le Camere. Il taglio dei parlamentari infatti è il premio (elettorale) di consolazione del M5S incapace di tornare a vincere dopo l’exploit delle politiche di due anni fa. Zingaretti per convincere il suo elettorato ha coniato lo slogan un Sì per cambiare. Legittimando una singolare prassi: le riforme costituzionali a rate. Oggi si tagliano i parlamentari. Domani si prova a modificare il cosiddetto bicameralismo perfetto, cioè cancellando la duplicazione di funzioni tra Camera e Senato. Dopodomani forse si introduce la sfiducia costruttiva. E via elencando. Un modo arlecchinesco di metter mano alla Costituzione. Tentativo azzardato di far quadrare il cerchio. In attesa che si pronuncino gli italiani.