La paura (superata) di spingere un bottone

Il campanello, l’ascensore, la torcia elettrica, il telegrafo, il clacson di un’auto.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, premere un pulsante significava vivere un’esperienza alquanto strana, ma soprattutto nuova. Il pulsante elettrico era una scintilla di meraviglia che nascondeva una certa ansia verso una trasformazione sociale e tecnologica che forse non si era ancora pronti ad accettare.

Chi assicurava che tanta tecnologia non avrebbe fatto atrofizzare le capacità mentali umane e disabituato l’uomo dalle sue abilità manuali? Come era possibile che un banale bottone, senza chiedere alcun tipo di sforzo, potesse attivare motori, ingranaggi o produrre suoni distanti da dove si erano comandati? Vi era un certo timore verso quello che l’elettricità poteva rappresentare, tanto che non pochi pensavano che si dovesse studiare accuratamente il funzionamento di questi oggetti, acquisendo in un certo qual modo un’educazione all’elettricità.

Questi interruttori, che banalmente aprivano e chiudevano circuiti, entrarono sul mercato intorno al 1880 e come la maggior parte delle innovazioni tecnologiche, cominciarono a essere installati contemporaneamente in diversi luoghi e in forme diseguali. I loro predecessori non erano altro che pulsanti meccanici a comando manuale come i tasti degli strumenti musicali o quelli delle macchine da scrivere, azionati per lo più da un meccanismo a molla o da una leva.

Poi arrivò la magia dell’elettricità e i bottoni inanimati, nati con il solo scopo di adornare i vestiti, si trasformarono nei timorosi pulsanti elettrici. «Premi il pulsante, noi facciamo il resto» – o puoi farlo da solo – fu il famoso slogan che la Eastman Company diffuse per pubblicizzare le nuovissime macchine fotografiche chiamate Kodak. Era il 1889, nessuno avrebbe potuto immaginare che questa sarebbe diventata la filosofia di uno stile di vita futuro.

La parola bottone deriva dal francese antico bouton e ha il significato letterale di sporgenza. Anche la radice bot o but, che emerge nei linguaggi germanici o celtici, ci fa pensare a un «corpo rotondo», un oggetto bombato e tondeggiante che deve essere spinto, premuto.

Fin da quando è stato usato come elemento decorativo per abbellire e adornare i vestiti, abbiamo acquisito le potenzialità di questo piccolo oggetto realizzato in metallo, madreperla o legno, a volte ricoperto di tessuto, che, fissato su un lembo di stoffa e infilato in un occhiello, serve a unire e chiudere le parti di un indumento. Dal 1860 in poi, si è allargata la definizione a pulsante e il bottone si è trasformato in qualcosa che un individuo poteva premere per eseguire un’azione, diventando un organo di comando sul quale si agiva con la sola pressione di un dito. Pensiamo ai tasti delle macchine da scrivere e dei telegrafi oppure a quelli degli strumenti musicali.

Nel giro di pochi decenni, i pulsanti a superfice piatta e inanimata si sono trasformati in oggetti vivi in grado di comandare luci e suoni da distanze sia lunghe che brevi. Intorno al 1880, esistevano pochissimi pulsanti elettrici e fu proprio a partire da questi anni che vennero presentate centinaia di domande di brevetto per le diverse tipologie: ci si cominciò a interrogare sul loro funzionamento, non tanto per una questione pratica, quanto per esorcizzare i timori legati alla temuta elettricità.

Spingere un pulsante non era solo un modo per «sollevarsi dalle responsabilità di ciò che accade» in conseguenza di questa azione. Le preoccupazioni sociali legate alla gestione dei servizi elettrici e alla scarsa conoscenza di questi oggetti, l’impossibilità di osservare i processi che avvenivano dietro questi dispositivi, erano percepite come un annullamento delle capacità umane di comprendere il mondo. A quel tempo circolavano molte preoccupazioni sulla sicurezza dell’elettricità nelle abitazioni, ma, a differenza delle candele che gocciolavano cera, i pulsanti promettevano luce ed energia sicure ed erano strumenti che si potevano imparare a usare quasi istantaneamente. Produttori e distributori di questi dispositivi promuovevano tali interruttori come lussi che avrebbero reso la vita più facile: i pulsanti avrebbero dovuto piegarsi facilmente alla volontà dei loro operatori, essere resistenti al continuo uso che se ne poteva fare e consentire riparazioni agevoli senza provocare interventi importanti (come la rimozione di cavi dalle pareti o dai pavimenti). Dovevano essere accessori decorativi, diventare oggetti della quotidianità con prezzi ragionevoli e funzionamento assai semplice. L’adozione di questo modello fece sì che i pulsanti venissero presentati come oggetti in grado di eseguire un lavoro che prima era totalmente a carico degli individui. Nei cataloghi che li pubblicizzavano, si adottò un approccio pratico facendo leva anche su fattori psicologici che suggerivano di premere i bottoni per il solo piacere di vedere cosa sarebbe successo.

La tendenza fu duplice: ci fu chi interagì creativamente con questi oggetti, imparandone il funzionamento, altri che ne fecero solo uno strumento utile a migliorare la qualità della vita.

Da strumento che trasmetteva ansia, via via si trasformò in un mezzo tramite il quale l’uomo era in grado di addomesticare l’elettricità con la sola pressione di un dito: si immaginarono come strumenti destinati ad adattarsi ai modelli sociali e culturali per quel che riguardava efficienza, controllo e design, richiesti dalla rivoluzione industriale. Per imporre questa visione dell’elettricità, gli esperti si affidarono ai topos della magia e della semplicità. Nel 1916, per esempio, l’americana Society for Electrical Development, tra le 781 proposte che celebravano in modo stravagante i benefici dell’elettricità alimentata da pulsanti, scelse l’immagine di un elettricista che si entusiasmava dicendo: «Non c’è più la lampada antica. Ora c’è il gentile tocco di un bottone e subito arriva il genio, l’elettricità!». Si trasmetteva così il messaggio che gli utenti non avevano bisogno di alcuna conoscenza o abilità per rendere possibili i miracoli elettrici, purché un pulsante fosse sempre a portata di mano.

Gli interruttori facilitarono anche le interazioni tra gli esseri umani e le macchine diventando il tramite per l’attivazione di dispositivi domestici, campanelli, citofoni usati negli uffici, luci, ascensori, orologi e allarmi. A causa dell’ansia che questa nuova forma di potere spesso produceva, molti settori della società intervennero per fornire una formazione che rendesse le attività elettriche più comprensibili. Con il tempo, tuttavia, il design semplice del pulsante, le sue capacità di accensione e spegnimento e il suo potere simbolico, fecero sì che poche persone avessero la necessità di venire a conoscenza di cosa si celasse dietro queste interfacce.

Oggi, pulsanti, quadranti, tasti e leve sembrano oggetti dall’uso scontato, soprattutto se li si guarda nel grande quadro delle moderne tecnologie. In verità, offrono un punto di vista affascinante da cui si può partire per comprendere le relazioni uomo-macchina. Queste tecnologie hanno definito i nodi vitali di quella rivoluzione che ha cambiato la nostra quotidianità. Nel 1884, l’Oxford English Dictionary definiva un’interfaccia come «una superficie che si trova tra due porzioni di materia o di spazio e che costituisce il loro confine comune». Le interfacce utente portano con sé un significativo potere metaforico, conferendo popolarità e credibilità a particolari spinte del dito o torsioni del polso (si pensi alla rotazione delle manopole della radio per la sintonizzazione) e aiutano gli individui a costruire modelli mentali sugli artefatti della vita quotidiana. Le scelte di rendere la tastiera QWERTY (nome derivato dalla sequenza di lettere dei primi sei tasti della riga superiore della tastiera, adottata a partire dal 1873 perché le macchine da scrivere meccaniche tendevano a incepparsi avendo i tasti di più frequente utilizzo troppo vicini) un’interfaccia tradizionale per l’elaborazione di testi anche nelle tastiere dei nostri moderni computer (che certo non hanno problemi di inceppamento meccanici!), di rendere i pulsanti uno standard per azionare dai più antichi ascensori ai più moderni forni a microonde, sono avvenute sia per ragioni tecniche, ma anche per motivi sociali.

Varrebbe la pena riscrivere la storia della tecnologia non solo come un succedersi di dispositivi sempre più evoluti, ma anche come una serie di interfacce nate per soddisfare le esigenze esclusive degli utenti.

A partire dal 1915, le interfacce a pulsante vennero viste come veicoli che avrebbero reso le interazioni con l’elettricità semplici e senza sforzo. Questo cambiamento avvenne in gran parte perché l’elettricità era diventata accessibile e sicura in molti ambiti pubblici e privati. Man mano che gli inventori ne miglioravano il funzionamento e i servizi elettrici si mostravano più stabili, le promesse, un tempo iperboliche dell’industria elettrica, cominciavano a diventare realtà.

Alla fine, l’idea che l’elettricità fosse una specie di magia avrebbe trionfato sugli atteggiamenti più demistificanti. I pulsanti elettrici avrebbero fatto superare l’oscurità legata al timore della novità. Da questo momento in poi ci sarà un uso spropositato di questi bottoni: dai televisori alle lavatrici, passando per le radio, i telecomandi e i pannelli di controllo più sofisticati… impossibile elencarli tutti e immaginare una vita priva di queste interfacce.

Il nuovo secolo ne appiattirà l’uso. Pochi anni dopo l’inizio del 2000 arriverà l’iPhone, risultato di una campagna decennale di Mr. Steve Jobs contro gli inutili pulsanti, tanto odiati dal CEO di Apple. Era il 2007 e questo nuovo dispositivo si presentava con uno schermo touch-sensing e privo dei «difetti che aggiungono complessità ai prodotti elettronici e ostacolano la loro estetica pulita».

Dal 2007 a oggi, i dispositivi si sono completamente trasformati. Tecnologicamente sofisticati sono ancora più intimamente connessi con le nostre vite. Le ultime generazioni di cellulari hanno allestimenti con più fotocamere, microfoni, accelerometri che registrano i movimenti istante dopo istante e che, se li si posiziona correttamente, riescono anche a misurare le nostre frequenze cardiache.

Tuttavia, non si percepisce preoccupazione nei nostri volti, né si assiste a grandi dibattiti sugli effetti che si potranno avere sui processi mentali dei nostri figli che maneggiano questi oggetti quando non muovono ancora un passo.

A pensarci bene, possiamo star tranquilli. I pulsanti sono stati quasi del tutto eliminati; se presente il solo tasto di On/Off, evitiamo accuratamente di usarlo per non correre il rischio di entrare in un ingestibile e incontrollabile stato ansioso.



Letture

The Indipendent Photographer
The Wall Street Journal

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