La più grande libertà a cui aspirare è quella di poter scegliere

Presentata e poi ritirata la proposta di legge del senatore della Lega, Manfredi Potenti, che prevedeva la proibizione dei titoli al femminile all’interno degli atti ufficiali. Dunque, via sindaca, ministra, rettrice per dare spazio esclusivamente a sindaco, ministro, rettore. Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood sembra essere stato scritto proprio per metterci in guardia dall’avvento di cose brutte precedute sempre da piccole, spesso inconsistenti e ridicole (come in questo caso), posizioni politiche che diventano modi di essere, esempi da seguire. «Nulla muta istantaneamente…» scrive la Atwood.

Nel commentare e recensire i romanzi di Margaret Atwood ci si sofferma con più insistenza sul contenuto, sul messaggio, spesso anticipatore di eventi futuri. Sull’immaginazione della scrittrice canadese, sulla sua capacità visionaria. Una visionaria realista.

Poco, troppo poco, ci si sofferma sulla sua capacità descrittiva. E invece la scrittura di vaglia la si riconosce proprio dalle descrizioni. La descrizione di un luogo, del carattere di una persona, di un sentimento, sanciscono la grandezza di un’autrice o di un autore.

La descrizione delle cose e dei fatti sono il narrare stesso. Ovvero la capacità di essere una brava narratrice o un bravo narratore è sempre direttamente proporzionale alla capacità di far vedere al lettore ciò di cui si sta scrivendo, ciò che sta leggendo. E dunque tutto è descrizione e la capacità di saper dettagliare nel modo migliore possibile la scrittura, senza renderla per questa ragione barocca, fa la differenza.

«Mi sono seduta sull’orlo di una delle sedie dallo schienale rigido. Non ho voluto guardarmi intorno, non volevo sembrale disattenta; così la mensola di marmo del camino alla mia destra, la specchiera e i mazzi di fiori sono rimaste semplici ombre, ai lati dei miei occhi. Più tardi avrei avuto anche troppo tempo per assorbire la loro immagine. Adesso il suo viso era alla stessa altezza del mio. Mi era parso di riconoscerla, o per lo meno c’era qualcosa in lei che mi era familiare. Le si vedevano un po’ di capelli, di sotto il velo. Erano ancora biondi. Ho pensato che se li fosse tinti, che la tintura per capelli fosse qualcos’altro che poteva ottenere tramite il mercato nero, ma ora so che sono davvero biondi. Si era sfoltita le sopracciglia fino a formare delle sottili linee arcuate, che le davano un aspetto costante di sorpresa, o indignazione, o curiosità, quali si potrebbero cogliere nell’espressione meravigliata di un bimbo, ma le palpebre avevano un’aria stanca. Non così gli occhi, che erano dell’ostile azzurro piatto di un cielo di metà estate in piena luce, un azzurro che respingeva. Il naso un tempo doveva essere stato ciò che si definisce grazioso ma ora troppo piccolo per la sua faccia, che non era grassa ma grande. Due rughe le scendevano agli angoli della bocca, ai lati del mento, stretto come un pugno».

I fatti, gli accadimenti, si svolgono generalmente all’inizio o alla fine di una narrazione, ma non sono mai determinanti affinché il testo venga ben accettato dal lettore, sono le descrizioni che determinano la bontà di un libro, il suo essere o meno un buon libro.

Il racconto dell’ancella è una lunga, ininterrotta, descrizione di un mondo che inconsciamente e supinamente stiamo costruendo tutti insieme. Un mondo di cui conosciamo i contorni, i limiti, grazie alla descrizione minuziosa, precisa, intellegibile, della Atwood. Potrà essere diverso il ruolo che avremo come singoli o come collettività, potranno essere diverse le priorità di chi detiene il potere, ma le persone, i luoghi, sono come scolpiti nella pietra, in queste pagine.

Siamo in un Truman Show antesignano. Un luogo vero ma finto. Aperto ma in realtà chiuso. A libertà vigilata, sotto controllo. La Repubblica di Gilead attinge al peggio dell’esistenza umana e lo ripropone come modus vivendi in un futuro non molto lontano da noi. Come i corpi morti esposti al pubblico ludibrio, monito per chiunque possa pensare ad una qualunque trasgressione. Vige il pensiero unico e la sottomissione: nessuna deroga, se non per i capi, come sempre accade.

«Ci fermiamo, insieme, come a un segnale, e stiamo lì a guardare i corpi. Non ha importanza se guardiamo. Ci è permesso guardare ed è per questo che i cadaveri sono appesi al Muro. Talvolta restano lì interi giorni, finché non ce ne sia una nuova infornata, perché possano vederli in molti. Sono appesi a dei ganci. I ganci sono stati infissi nel Muro a questo scopo. Non tutti sono occupati. Sembrano uncini per gente senza braccia. O punti interrogativi d’acciaio, capovolti e sghembi. Sono i sacchi la cosa peggiore, peggio di quanto sarebbero le stesse facce, fanno sì che gli uomini sembrino bambole su cui non sono ancora stati dipinti gli occhi, il naso, la bocca, simili a spaventapasseri, e in un certo senso lo sono, poiché la loro funzione dev’essere, appunto, quella di spaventare. Oppure sembra che le teste siano dei sacchi imbottiti di una materia qualunque, farina o segatura. È evidente la pesantezza delle teste, la loro inerzia, per cui la forza di gravità le tira in giù e manca la vita a riportarle su. Le teste sono degli zeri».

Margaret Atwood offre la possibilità di riflettere e di pensare a ciò che potrebbe accadere non solo a te o alla tua città, ma al mondo intero se non si prende parte attivamente alla vita della comunità a cui si appartiene. Partendo dall’assunto che il peggio che poteva accadere è già accaduto e ci siamo dentro, come ad esempio la riduzione degli spazi di libertà individuale e collettiva, ripercorre le tappe che hanno portato a che ciò accadesse. Piccole cose quotidiane, segnali trascurati, minuzie. Accadimenti apparentemente minori che in sequenza hanno determinato il cambiamento con la conseguente perdita di libertà.

«Nulla muta istantaneamente: in una vasca da bagno che si riscaldi gradatamente moriresti bollito senza nemmeno accorgertene. C’erano notizie sui giornali, certi giornali, cadaveri dentro rogge o nei boschi, percossi a morte o mutilati, manomessi, così si diceva, ma si trattava di altre donne, e gli uomini che commettevano simili cose erano altri uomini. Non erano gli uomini che conoscevamo. Le storie dei giornali erano come sogni per noi, brutti sogni sognati da altri. Che cose orribili, dicevamo, e lo erano, ma erano orribili senza essere credibili. Erano troppo melodrammatiche, avevano una dimensione che non era la dimensione della nostra vita. Noi eravamo la gente di cui non si parlava sui giornali. Vivevamo nei vuoti spazi bianchi ai margini dei fogli e questo ci dava più libertà. Vivevamo negli interstizi tra le storie altrui».

Le prime cento pagine del romanzo, in modi diversi ma sempre con una minuziosa descrizione di ciò che accade, descrivono la condizione della donna nella Repubblica di Gilead. Ovvero il potere sul corpo delle donne che si esplica scegliendo chi può e chi non può procreare. L’utilizzo della reiterazione di alcuni concetti serve all’autrice per accompagnare il lettore nella costruzione del suo immaginario e nella realizzazione virtuale dei luoghi dove si svolgono i fatti.

Da qui in poi il racconto cambia in modo significativo. Cambia la tonalità della scrittura e anche il contenuto si arricchisce di storie nella storia che contribuiscono a definire al meglio il contesto in cui tutto è successo. Ritmo più serrato e incalzante per provare a comprendere il dialogo che ognuno stabilisce con sé stesso, con le proprie aspirazioni, i propri sogni. Protagoniste diventano le singole donne, una per una. Le descrizioni non riguardano più solo gli ambiti urbani, ma descrivono le persone umane nelle loro paure e fragilità.

«Affondo nel mio corpo come in una palude, un acquitrino, dove io sola so come muovermi. Terreno infido, il mio territorio. Divento la terra su cui premo l’orecchio, per cogliere i rumori di ciò che sta per arrivare. Una fitta, un dolore che brontola, sommesso, le increspature della materia che si disfa, i gonfiori e gli assottigliamenti dei tessuti, gli umori della carne, questi sono i segni, queste sono le cose che mi occorre sapere. Ogni mese aspetto il sangue, impaurita perché, se arriva significa incapacità. Sono stata di nuovo incapace di esaudire le attese altrui, che sono diventate mie. Ero solita pensare al mio corpo come a un veicolo di piacere, o a un mezzo per spostarmi da un luogo all’altro o uno strumento per compiere la mia volontà. Potevo usarlo per correre, premere pulsanti di qualsiasi tipo, per far sì che succedesse quello che mi era necessario. C’erano limiti, ma il corpo era, ciò nondimeno, agile, leale, solido, tutt’uno con me. Adesso la carne si dispone in modo diverso. Sono una nube congelata attorno a un oggetto centrale a forma di pera, duro e reale più di me stessa e che riluce di rosso entro il suo diafano involucro. Dentro c’è uno spazio, vasto quanto il cielo di notte e altrettanto buio e ricurvo, sebbene rosso-nero più che nero. Puntini di luce si espandono, scintillano, scoppiano e avvizziscono all’interno, innumeri come stelle. Ogni mese c’è una luna gigantesca, rotonda, pesante, un presagio. Transita, sosta, prosegue, scompare dalla vista, e vedo lo scoramento venirmi incontro come una carestia. Sentirsi così vuota, daccapo, daccapo. Ascolto il mio cuore, onda su onda, onde salate e rosse, che segnano il tempo».

Il tempo di leggere un paragrafo e si torna alle descrizioni dei luoghi, degli ambienti domestici. La descrizione torna ad essere la vera protagonista del racconto della Atwood, nonostante i contenuti devastanti e destabilizzanti della storia.

Nella Repubblica di Gilead, antesignana del Truman Show, ciò che è la cosa più naturale del mondo e che accomuna tutti gli esseri viventi, la nascita, il parto, diviene evento eccezionale durante il quale vengono sospese, in parte, alcune limitazioni comportamentali che regolano la vita all’interno dello stato totalitario teocratico nato dall’immaginazione della scrittrice canadese. La nascita di una nuova vita è il segno che ci potrà essere futuro. È dunque il futuro, la sopravvivenza della specie, l’aspetto più importante di tutto. Si possono sospendere anche le libertà individuali in nome della sopravvivenza del genere umano. Per questa stessa ragione sono proibiti l’amore e il desiderio. Esiste ed è permessa solo la procreazione. In ciò risiede la differenza tra un regime totalitario e una società libera e democratica. In quest’ultima albergano e sono possibili le debolezze. La debolezza con l’amore e il desiderio possono essere assunti come paradigma e sinonimi di libertà.

La storia della Repubblica di Gilead inizia con la perdita dei diritti delle donne che sono divise e organizzate in caste a seconda dello status sociale e prosegue con la perdita progressiva dei diritti di (quasi) tutta la popolazione.

Nella Repubblica di Gilead le persone non hanno la possibilità di scegliere e anche quello che apparentemente sembra che scelgano è, in fondo, una scelta che non dipende dal loro libero arbitrio.

Il finale del libro, invenzione dell’invenzione, Note storiche su Il racconto dell’Ancella, consente a Margaret Atwood di esprimere in modo più libero e meno vincolante al romanzo alcune considerazioni che ognuno di noi può fare dopo averlo letto. Tra tutti due mi sembrano i temi che meritano un ulteriore approfondimento da parte nostra.

«Come sappiamo dallo studio della storia, nessun nuovo sistema può sovrapporsi a quello precedente senza incorporarne molti elementi, come testimoniano gli elementi pagani nella cristianità medievale e l’evoluzione sovietica del K.G.B. che ha la sua matrice nei servizi zaristi; Gilead non fa eccezione a questa regola. Le sue politiche razziste, per esempio, erano saldamente radicate nel periodo pregileadiano, e le paure razzista fornirono parte del propellente emotivo che permise la presa di potere gileadiano».

Non c’è molto da aggiungere alle parole della Atwood, sono ciò che accade alle società da sempre, basta sapere leggere gli accadimenti della storia. Anche se la stessa autrice ammonisce: «Come tutti gli storici sanno, il passato è un grande spazio buio, colmo di echi. Le voci che ci raggiungono di lì sono intrise dell’oscurità della matrice da cui provengono e, per quanto ci si provi, non sempre possiamo decifrarle con esattezza alla luce più chiara del nostro tempo. (Applausi)»,

La più grande libertà a cui aspirare è quella di poter scegliere. Avere la possibilità di poter scegliere. Per questo vale la pena battersi e anche, un po’, morire.

Related posts

Le radici non si estirpano

L’Italia e il delitto Moro: una storia pubblica e privata

La scoperta di Pavese negli anni dell’utopia