La polarizzazione populista è stata applicata ai populisti: Giorgia Meloni perde la sfida social

Sergio Baraldi

Attorno al caso Sangiuliano-Boccia e alle dimissioni del ministro si è consumata una sfida comunicativa e politica che ha avuto il suo centro nei social network e in parte in TV. «Tutto il mondo è un palcoscenico» scriveva Shakespeare. E oggi la società spettacolo sembra prevalere sulla politica, anzi è diventata essa stessa politica.

Ogni giorno assistiamo alla teatralizzazione degli eventi: Biden ha dovuto rinunciare alla ricandidatura per la presidenza Usa dopo una trasmissione tv sbagliata. Il Paese ha seguito in diretta la caduta del ministro e l’inedito confronto a distanza tra il capo del governo, Giorgia Meloni, e Maria Rosaria Boccia, una piccola imprenditrice, una sorta di signora nessuno abile però nell’uso dei social. L’era dei media e della televisione ha imposto una logica comunicativa nuova. Ma non si è mai visto in Italia un governo appeso agli interventi su Instagram di una ex assistente di un ministro. Eppure, è accaduto, costringendo alle dimissioni il ministro e spingendo il governo sull’orlo di una crisi che non ha risparmiato la stessa premier. L’opposizione finora non c’era riuscita.

La battaglia per il controllo dell’interpretazione
Non è chiaro quali siano gli obiettivi dell’ex assistente. Non sappiamo se abbia agito da sola o sia stata aiutata. Gli interrogativi sul suo ruolo rimangono aperti e, per ora, senza risposta. Ma l’evento su cui concentrarsi è il duello a distanza tra premier ed ex assistente, che si è concluso inaspettatamente con la sconfitta della presidente.

Lui, l’ex ministro, era un attore ormai screditato per la sua incompetenza, per il suo stile grossolano, per le continue gaffes. Nella narrazione aveva un ruolo da comprimario, che ricalcava lo stereotipo dell’uomo che usa il suo potere come potere sessuale. Le vere protagoniste erano l’ex assistente che aveva deciso di far pagare all’ex ministro la sua colpa (il contratto promesso e cancellato) e la premier con troppi fronti politici aperti, che ha respinto le dimissioni per poi essere invece obbligata a sostituirlo. La posta in gioco era rilevante: il controllo dell’interpretazione dell’accaduto.

La Meloni si è mossa subito per riuscire a imporre l’interpretazione della propria posizione dominante, quella che lo studioso Stuart Hall ha definito la «lettura preferita» della vicenda. L’errore che ha commesso è stato credere di poter gestire questa competizione secondo regole tradizionali. La premier non ha lesinato i mezzi per prevalere: ha spedito il ministro a confessarsi su Rai Uno, a chiedere perdono alla moglie e a lei stessa (ma non all’ex assistente), a piangere, a tessere una storia che spostava l’attenzione dall’istituzione alla camera da letto. Se l’interesse del pubblico si fosse concentrato sulla relazione sentimentale, si poteva immaginare che gli spettatori si sarebbero convinti e avrebbe dato ragione a lui e torto a lei.

Del resto, non è nuovo il copione che scredita la donna e assolve l’uomo, che torna dalla moglie. È il canone della telenovela. Gli ingredienti della logica televisiva, in effetti, c’erano tutti: personalizzazione, spettacolarizzazione, sensazionalismo, semplificazione. Soprattutto la messa in scena puntava sull’emozionalizzazione del racconto. Condividendo in diretta i sentimenti e i singhiozzi del ministro pentito, il pubblico non avrebbe prestato attenzione alla questione politica, che invece stava affiorando. Dirà l’ex assistente che il ministro potrebbe essere sotto ricatto. Avrebbe rivelato notizie riservate delle istituzioni. Avrebbe raccontato o gli sarebbero sfuggite informazioni relative al governo e alla sicurezza del Paese. Avrebbe usato soldi e mezzi pubblici per fini privati. Emergeva di nuovo l’inadeguatezza di alcuni esponenti del governo.

La dinamica comunicativa può farci individuare il modello che ha ispirato la premier: una comunicazione all’alto verso il basso, nella quale i cittadini sono considerati soggetti passivi, destinatari ben disposti  ad accogliere la versione governativa della verità sotto forma di commedia piccante. La logica televisiva, del resto, ha contribuito a indebolire i meccanismi di intermediazione istituzionale fra governo e cittadini per sostituirli con una relazione immediata, diretta, si potrebbe dire carismatica. Infatti, il ministro  ha ammesso i suoi peccati direttamente davanti agli spettatori nel confessionale televisivo. La leader era assente dallo schermo, ma presente sullo sfondo. Quasi a porre il sigillo sacramentale alla confessione: quello che dice è vero, si è pentito, resti al suo posto.

Del resto, questa è la relazione che la presidente applica nel suo discorso ai cittadini. È stata un’ azione senza precedenti: non si ricorda un’intervista di 15 minuti a un ministro in prime time con la Rai che fa slittare gli altri programmi. Forse la Meloni puntava ad anticipare e depotenziare l’offensiva delle opposizioni, che avrebbe seguito i tempi  lunghi del Parlamento. La premier ha convocato il pubblico in tv come audience, che segue, si diverte. E soprattutto deve applaudire. Voleva assicurarsi il controllo dell’interpretazione, affermando la propria «realtà mediale».

La lettura oppositiva che arriva dai social
La premier non sembra essersi resa conto di quanto sia cambiata la sfera pubblica ibrida (social, tv, giornali) e lo spettacolo che in esso si svolge. Non ha considerato che l’interazione con il pubblico ha una natura bidirezionale e problematica. L’audience ha una voce e un potere: i cittadini rielaborano i codici narrativi in modo autonomo, secondo le proprie competenze culturali, linguistiche, comunicative, psicologiche. Possono non accettare la «lettura preferita» (del governo) e dare vita a una  lettura o negoziata o oppositiva, quella che Umberto Eco ha definito «aberrante», cioè divergente rispetto a quella dell’emittente.

È quello che è successo: il pubblico non sembra aver creduto al ministro. La Meloni ha agito secondo un modello comunicativo vecchio, lento, inadatto a gestire il problema che da giorni aveva davanti. Non si è resa conto che la socialmediatizzazione della sfera pubblica ha comportato profondi cambiamenti. Non ha visto maturare nei social il disincanto verso la sua interpretazione.

Oggi si deve pensare la comunicazione come una conversazione in cui il significato viene costruito e negoziato attraverso l’interazione con i cittadini, i quali sono attivi, nello stesso tempo riceventi ed emittenti. Studiosi e linguisti ci spiegano che si deve guardare alla dimensione pragmatica e contestuale della comunicazione. Il significato di ciò che leggiamo e vediamo interagisce con il contesto per determinare l’interpretazione. Le percezioni, con la loro variabilità, giocano un ruolo rilevante in questo processo. Il suo ingresso nella storia con la forza del capo del governo ha finito per sovrapporre alla crisi comunicativa una crisi politica, perché per la prima volta da quando siede a Palazzo Chigi non è riuscita a costruire una narrazione credibile, che avrebbe dovuto consolidare la fiducia nel suo operato e il consenso al governo.

Il campo di esperienza comune tra la Boccia e gli utenti
Perché l’operazione è fallita nonostante i dubbi che circondano la figura della Boccia? Perché l’ex assistente, solo con il suo account, Instagram è riuscita a  ridefinire una «realtà mediale» molto diversa. Nonostante alcuni retroscena la descrivano meno innocente di come appare, la Boccia ha giostrato con astuzia nella sfida comunicativa. Ha lasciato capire di avere una documentazione abbondante e imbarazzante. Ha usato con calcolata freddezza l’arma dei social. Ha scelto i tempi con accortezza, decidendosi ad uscire allo scoperto (con una intervista al quotidiano La Stampa e poi in Tv) solo quando era chiaro che aveva ottenuto il risultato cui mirava. Ha amministrato con perizia le percezioni del pubblico per smentire il ministro. Si è servita della tattica molto femminile del dire e non dire, dell’alludere, giocando soprattutto con l’implicito. E centellinando poche rivelazioni («Ci sono altre donne»).

Ha instaurato un dialogo complice con i follower, cui lasciava ampia libertà nel costruire il senso delle sue esternazioni. Gli individui per comprendersi devono condividere qualcosa, ha spiegato Schramm. Il qualcosa è un campo di esperienza, che raccoglie orientamenti, attitudini, esperienze personali. Lei non si è auto-rappresentata come una donna abbandonata, tradita, che si lamenta, figura del canone sentimentale. Si è rappresentata come una professionista ironica, garbata, che non parla male di lui e parla bene persino dell’altra (la premier). Anche se poi li ha criticati con la sottigliezza di sentenze fulminanti: «La premier si tolga i guantoni, ci vuole gentilezza». La Meloni non ha tenuto conto che i destinatari non si limitano a tradurre il messaggio, ma gli attribuiscono un senso. E la  mossa decisiva della Boccia sembra essere stata una parola ripetuta spesso: potere. Lei ha ignorato la relazione amorosa per rimettere al centro la questione politica: l’ex ministro ha parlato molto, troppo di questioni riservate di governo. È inaffidabile, ammicca. E lascia intendere al pubblico: la classe al potere è in gran parte simile, poco responsabile verso il bene pubblico. Li ho visti e registrati. La credibilità del governo è stata lesionata.

La crisi del progetto di egemonia culturale
Maria Rosaria Boccia ha evidenziato l’asimmetria di potere tra lei, la presidente del Consiglio, l’ex ministro. Vale a dire: loro. In questo modo ha attuato una delegittimazione indiretta da parte di una testimone che pure ha filmato, fotografato di nascosto con spregiudicatezza all’interno del Palazzo. Ha impersonato una signora nessuno in cui possono identificarsi altre donne illuse e sfruttate. Sui social, suo unico canale contro i tanti a disposizione della premier, ha mostrato che lei e i cittadini normali condividono un campo di esperienza simile: quello di persone estranee al potere, prive di potestà, non riconosciute anche se sono professionisti. Persone che partecipano a un nucleo di senso comune che certo non coinvolge quelli al governo. Una persona che subisce le decisioni dei potenti.

Nel suo racconto ha fatto tutto lui: lui la invita, lui la va a prendere, lui paga, la nomina, le fa leggere chat riservate, documenti confidenziali, le racconta del governo, le fa sentire le telefonate con la moglie. Lei ha assistito.

È chiaro che vuole facilitare un rispecchiamento tra lei e gli utenti per suscitare un’empatia spontanea. Il messaggio implicito è: io e voi siamo simili, semplici cittadini soggetti a chi comanda. Così, anche se non è detto che la sua versione sia vera, il potere dei social viene mobilitato contro il potere della politica. La grande platea dei network viene evocata contro la Rai addomesticata, contro i giornali di destra che l’attaccano senza riguardi, contro il Palazzo che s’illude di imporre la sua verità, usando gli strumenti del potere. Il campo di esperienza comune agevola l’identificazione tra ex assistente e pubblico: noi gente, noi donne comuni, contro loro al potere. La polarizzazione populista è stata applicata ai populisti. In questa occasione, la vera donna forte si è rivelata la signora nessuno. La premier si è scoperta più vulnerabile del previsto, prigioniera di un mondo comunicativo vecchio, che ha poco in comune con i cittadini normali.

La sfida ha portato però in superficie la natura politica della vicenda. Non si tratta solo della classe dirigente della destra che viene mostrata mentre si preoccupa di salvaguardare i propri interessi e i propri privilegi. Né è decisiva la pur grave rivelazione di atti riservati. La Boccia, in realtà, ha aperto uno squarcio nel progetto di egemonia culturale che la premier aveva in mente e aveva affidato a Sangiuliano. Un progetto che un ministro inadeguato ha tradotto in una occupazione di posti, distribuzione di prebende, attraverso la sostituzione di esponenti e dirigenti sgraditi con quelli della destra, come si vede alla Rai. Ma il disegno originario era ambizioso: il governo non intende promuovere una cultura plurale, capace di riflettere le diverse correnti di pensiero del Paese, come dovrebbe avvenire in democrazia. Vuole far prevalere un unico orientamento ideologico: il suo.

La giustificazione è che l’area della destra post-fascista è stata in passato marginalizzata. La caduta di Sangiuliano ha messo in crisi questa ricerca di egemonia, l’ha resa visibile. L’ha persino ridicolizzata. La premier dopo avere lanciato questo piano, di fatto l’ha confermato nominando ministro Giuli, un giornalista che proviene dalle fila dell’estrema destra. La discontinuità che la Meloni cerca è una rottura con una cultura e un orientamento che ha prevalso nella Repubblica dal dopoguerra in poi. È la ricerca di una rivincita, che una indecifrabile (per ora) signora nessuno ha  colpito, facendo cadere colui che aveva incaricato della missione. Il contesto che si voleva tenere in ombra, puntando sulla relazione sentimentale, diventa manifesto grazie all’asimmetria di potere tra le due sfidanti. Se un capo di governo entra in campo con tutta la sua forza contro una signora nessuno, per quanto ambigua, forse ci sono ragioni che vuole tacere. E a sorpresa la Meloni ha perso. Ci sarà un sequel?

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