La precarizzazione del lavoro

La cosiddetta precarizzazione dei rapporti di lavoro è un tema all’ordine del giorno. Si va in piazza per manifestare; è un argomento ricorrente nel dibattito fra i partiti e anche, da qualche tempo, nelle campagne elettorali.

Il termine precarietà, però, è sovente usato in maniera ambigua o impropria: non è chiaro di cosa si stia parlando in concreto e, di conseguenza, in quali termini vada analizzato e con quali strumenti affrontato.

È utile partire dai dati. Se per lavoro precario intendiamo quello a tempo determinato, nel nostro Paese i contratti a termine costituiscono circa il 17% dell’occupazione dipendente, non di molto superiore alla media UE (15,5%). Questi numeri inducono a pensare che più che un mercato del lavoro precario (termine, mi pare, sconosciuto in altri Paesi europei quando si parla di lavoro), abbiamo la percezione di un mercato del lavoro precario. È assai diverso, perché da una condizione oggettiva si passa a una dimensione soggettiva (la percezione, appunto), che cambia l’angolazione dell’analisi.

L’ambiguità di fondo sta dunque nel concetto stesso di lavoro precario e nel suo uso comune. L’utilizzo crescente dei contratti a termine (nel 1991 erano circa la metà di quelli attuali sul totale del lavoro dipendente) è facilmente spiegabile con l’incertezza che domina la vita delle imprese e nella difficoltà di prevedere il futuro, anche nel programmare l’utilizzo della manodopera.

Questo dato di contesto, innegabile quanto irreversibile, mette in discussione il concetto stesso di eternità connesso ad un rapporto di lavoro, che perde di significato dal punto di vista delle imprese ma direi anche dal punto di vista dei lavoratori. Nulla sembra più poter essere per sempre: un prolungamento all’infinito del presente non pare più possibile, proponibile.

Il lavoro a tempo indeterminato, va notato, è comunque ancora largamente prevalente. Questo significa che molti contratti a termine si tramutano in tempo indeterminato, perché l’eccessivo turn over non è gradito neppure dall’impresa e il dato serve anche a ridimensionarne, almeno in parte, la portata.

Alla fine, il termine precarietà è un uso distorto, politicizzato, di flessibilità, che definisce più correttamente dinamiche e struttura del mercato del lavoro oggi. La questione in definitiva è come noi viviamo la temporaneità degli accadimenti, la frammentarietà delle nostre esperienze in un mondo che corre: se come una potenziale opportunità o soltanto come una condanna.

Bene inteso, l’obiettivo della stabilità di un impiego è del tutto legittimo: consente di stabilire un legame più forte con un’azienda con la prospettiva di crescere nella stressa azienda, ma soprattutto di avere la certezza di un reddito più a lungo termine, la cui mancanza è la prima causa di comprensibili ansia ed insicurezza che generano una sensazione di precarietà: che mi succederà fra una settimana, fra un mese, fra sei mesi? Come posso programmare la mia vita?

Il lavoro a termine viene dunque percepito e vissuto dalle persone in maniera differente: «stare nella stessa azienda per anni mi annoierebbe e sento il bisogno di cambiare»; «non posso fare programmi, neppure per un week-end, perché non ho sicurezza»; «piuttosto che avere un lavoro sicuro che però non mi piace, preferisco essere insicura» (G. Fullin, M. Magatti, Percorsi di lavoro flessibile).

 Sono approcci molto diversi: non tutti i lavoratori e le lavoratrici con contratti a termine sono precari, perché non tutti hanno questa percezione di sé; pensano che un lavoro a termine possa essere il preludio della stabilità e non lo vivono del tutto negativamente: un obiettivo che probabilmente riusciranno a cogliere in ragione della loro professionalità.

Il sociologo del lavoro Emilio Reyneri, in una ricerca su questo tema, notò come la maggior parte delle persone che hanno questa percezione di precarietà svolgono lavori temporanei che non sono formativi, accontentandosi del primo che capita; lavori incoerenti con le proprie ambizioni, con il proprio titolo di studio e, spesso, cambiando radicalmente il tipo di lavoro a termine, accumulandone un gran numero che alla fine non definiscono una precisa identità professionale. Un senso di provvisorietà, spesso vissuta dall’attesa di un peggioramento, di cui non si intravede la fine. Il più delle volte sono persone che non hanno stabilito un preciso obiettivo professionale.

In questa prospettiva una certa stabilità dipende, anche, dalle scelte delle persone che certamente andrebbero maggiormente supportate per tempo da un sistema di informazione ed orientamento socio professionale più all’altezza in un mondo del lavoro così complesso.

Che la temporaneità del lavoro sia vissuta in modo differente lo prova anche la significativa quantità, in crescita negli ultimi anni, di lavoratori e lavoratrici (quasi tutti under 40) che decidono, con la forza della loro professionalità, di lasciare, addirittura, il posto fisso per cercare un’occupazione migliore, più omogenea alle proprie aspettative, non necessariamente a tempo indeterminato.

In tutto questo il ruolo del legislatore sembra essere relativo. I provvedimenti che hanno tentato di limitare l’utilizzo del lavoro a tempo determinato inserendo causali più restrittive sono risultati alla fine evanescenti ed inefficaci.

Più realisticamente, il Jobs act ha esteso il sussidio di disoccupazione a chi termina un’esperienza a tempo determinato, classificandola come disoccupazione involontaria. È una buona cosa. Certamente non si possono obbligare le imprese ad assumere a tempo indeterminato; l’ispirazione dello stesso Jobs act è stata quella di incentivare i contratti stabili, per quello che una legge può fare, con risultati apprezzabili, nei limiti del possibile in questa epoca di frammentarietà dei percorsi. Ma se la mia qualificazione professionale diventa una rete di relazioni stabili, la flessibilità diventa anche la mia sicurezza.

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