La propaganda della destra italiana s’infrange sull’Europa

Il voto contrario alla ratifica del Mes introduce un cambiamento nello scenario politico italiano. La premier ha rinunciato al pragmatismo che aveva mostrato in Europa per ritornare al ruolo passato di leader sovranista. Uno spostamento a destra, avvenuto in seguito alla decisione della Lega di posizionarsi sul fronte dell’estremismo euroscettico. L’idea sostenuta da molti commentatori di una Meloni che stesse normalizzando Fratelli d’Italia, allineando il suo partito a un conservatorismo moderato, ha perso consistenza. Al contrario, la premier ha radicalizzato sé stessa e la sua coalizione. Lo spazio per i moderati, in particolare Forza Italia, si è ridimensionato. La coalizione al governo si configura come se in realtà fosse all’opposizione.

Secondo il politologo Cas Mudde occorre distinguere tra destra estrema, ostile alla democrazia, e destra radicale che accetta le regole fondamentali della democrazia, ma si oppone a elementi della democrazia liberale come la separazione dei poteri o i diritti delle minoranze. Fratelli d’Italia si può collocare come una forza della destra radicale con alcune ambigue tendenze verso l’estremismo. Se la destra estrema non si riconosce nella sovranità popolare, quella radicale sì, anche se non la interpreta secondo il costituzionalismo. In politica estera la Meloni era apparsa disponibile al negoziato, si è schierata con l’alleanza atlantica, con l’Ucraina e Israele, apparendo affidabile in Occidente, ma ora l’impressione è che si sia solo mimetizzata. Quale destra allora è al governo del Paese? Il Mes riapre alcune domande di fondo.

In realtà la posta in gioco del voto parlamentare sono le prossime elezioni europee e la difficile gestione del dopo. L’Europa diventa il punto di riferimento obbligato per la costruzione delle identità politiche. È questo elemento che rende rilevante lo strappo della Meloni e di Salvini. Ma un problema simile investe anche l’opposizione: tranne il Pd e le formazioni riformiste, che hanno votato a favore del Mes, il voto contrario di Conte, Bonelli e Fratoianni indica che anche l’opposizione progressista è divisa rispetto all’Europa e priva di un progetto comune. Tuttavia, è la maggioranza ad avere la responsabilità dell’indirizzo da imprimere al Paese.

A pochi mesi dalla morte di Berlusconi, il voto sul Mes rappresenta il primo segno di discontinuità con il suo inventore. Berlusconi aveva collocato il suo partito nel PPE e aveva ancorato la maggioranza con Bossi e Fini all’interno del disegno europeo e atlantico. Adesso FdI e Lega sembrano allontanarsi da questa eredità per aprire una fase nuova e incerta. La premier recupera la traiettoria euroscettica del sovranismo e del populismo. Tra le cause che hanno accelerato questa regressione due sono interne alla destra: la concorrenza con la Lega e l’essere diventati Meloni e Salvini due leadership mediatiche, segnando in questo una continuità con il Cavaliere.

Il successo di Fratelli d’Italia nelle elezioni del settembre 2022 era originato principalmente da uno spostamento degli elettori di destra: nel 2018 parte di essi avevano premiato l’antipolitica trasversale di Grillo, ma nel 2022 sono tornati a casa. Inizialmente avevano scelto la Lega come destinazione, spingendo il partito di Salvini alle europee con un 34% e poi nei sondaggi alla soglia del 30%. Salvini si era illuso che la sua linea di lotta e di governo, le sue posizioni estreme sulla immigrazione, avessero riconfigurato la coalizione a suo vantaggio. Ma così non è stato: gran parte di quegli elettori sono transitati successivamente verso Fratelli d’Italia, forse per premiare la sua opposizione al governo Draghi, che Salvini invece ha appoggiato. Da quel momento tra FdI e la Lega è cominciata la competizione sul loro confine elettorale. La Meloni punta a conservare e rafforzare il primato. Salvini tenta una riconquista del consenso che era suo. Le prossime elezioni europee saranno importanti perché, nelle intenzioni della premier, dovrebbero consacrare la supremazia di FdI e convalidare la nuova strutturazione della destra decisa alle politiche. La Lega oggi gode di una sovraesposizione istituzionale: molti presidenti di regione appartengono al partito di Salvini, come se fosse il partito più forte della coalizione. Pesa come se avesse il 30%, ma secondo i sondaggi oggi vale l’8-9 per cento, mentre FdI viaggia al 28/29. Le europee potrebbero riprodurre il nuovo assetto politico e il partito della Meloni potrebbe rivendicare gran parte delle candidature di vertice. In questo caso, il nord d’Italia potrebbe cambiare di segno.

In Europa invece si aprirà la trattativa per la nuova Commissione. I sondaggi oggi sembrano indicare che la destra populista potrebbe rafforzarsi, ma i numeri porterebbero a una riedizione della alleanza tra Ppe, socialisti e liberal-democratici. L’idea della Meloni di riuscire a varare una Commissione di destra, stipulando un accordo tra conservatori e Ppe sembra essere più lontana (in particolare dopo la sconfitta del Pis in Polonia). A quel punto, la premier dovrà decidere se staccarsi dalla destra radicale e avvicinarsi al Ppe per non essere estromessa dai giochi per la nuova Commissione. Se vuole tutelare l’interesse nazionale non può permettersi di essere isolata. Il tempo dell’ambiguità sembra destinato a finire. Ma il prerequisito per qualsiasi strategia è vincere le elezioni. La Meloni non può permettersi di subire una emorragia a destra. Deve garantirsi il controllo sulla legislatura in Italia. E non può avere le mani legate in Europa in vista di una trattativa che non si preannuncia agevole, se il voto confermerà l’attuale accordo europeo.

A questa ragione se ne è aggiunta una seconda: lei e Salvini sono diventati leader mediatici. In questi mesi, la premier ha privilegiato la dimensione comunicativa, diventata uno dei tratti che identificano il suo modo di agire e di vivere la politica. La visibilità della leader, la sua capacità di presidiare la scena pubblica, il sapersi rendere riconoscibile e comprensibile non rappresentano più solo un valore, sono una necessità funzionale, un requisito indispensabile nell’arena politica. Ce lo ricorda la sua polemica con la influencer, Chiara Ferragni, che ha oltre 23 milioni di follower contro i 7,3 milioni di voti della presidente del Consiglio, una figura femminile che non sembra sostenerla e che lei forse teme possa offuscarla. La partita comunicativa si gioca sull’efficacia del messaggio e dell’immagine disintermediati della leader rispetto a ogni altra forma di trasmissione della propria visione politica. La Meloni deve mantenere la presa sull’opinione pubblica in un momento complesso sul piano nazionale e internazionale. Il controllo del sistema televisivo, tra Rai e Mediaset, non sembra sufficiente a garantirla. Sono i social network oggi l’agone privilegiato della sfera pubblica. I riti di partito, la militanza, la Tv, persino i territori, passano in secondo piano rispetto alla capacità di occupare la scena mediatica, imponendo la propria versione della realtà.

La premier punta a costruire una egemonia di senso prima che politica. Questa urgenza la spinge ad assumere una postura mediatica finalizzata al suo consenso. Per riuscirci adotta un mix di polarizzazione ideologica (il Pd e la Schlein sembrano i nemici preferiti), e seduzione narrativa come quella scelta a Natale mostrandosi in privato con la figlia. Tutto il suo discorso politico è costruito su una comunicazione unidirezionale, diretta, semplificata, che ha l’obiettivo di allargare la platea, guadagnare fiducia, consolidare il consenso. La premier ha investito il suo capitale politico soprattutto sulla disintermediazione, vale a dire nella eliminazione di intermediari tra lei e i cittadini, in un rapporto che diventa quasi plebiscitario, confermando il declino dei partiti come strumenti di mediazione tra società e istituzioni.

Non è da sottovalutare questa scelta comunicativa, che irradia le proprie conseguenze in altre dimensioni. La riforma costituzionale del premierato, che indebolisce Parlamento e Presidente della Repubblica a vantaggio di un premier eletto e connesso direttamente con il popolo, sembra lo specchio politico della relazione comunicativa. Ma la disintermediazione è contingente, strumentale: oggi si afferma qualcosa, domani il contrario, secondo le necessità dettate dalle polemiche e dalle convenienze, anche se la Meloni si sforza di dimostrarsi coerente. Questo ecosistema comunicativo vorticoso, ipertrofico, basato su un flusso ininterrotto porta a favorire una comunicazione di facile e immediato effetto, emozionale, aggressiva, molto diversa da quella riflessiva e ragionata. Il flusso favorisce una personalizzazione estrema, che è diversa dal leaderismo, perché caratterizza il passaggio (iniziato con Berlusconi) dal partito-comunità al partito personale, dal partito per il leader al partito del capo. Fratelli d’Italia, che nasce come partito tradizionale, subisce la metamorfosi in partito-persona al punto da essere governato da una famiglia. Una evoluzione simile la vive anche la Lega. FdI è ormai a pieno titolo il partito di Giorgia, come la Lega sembra il partito di Matteo, forze politiche accentrate e concentrate in una persona. Si potrebbe persino dire: privatizzate. Una trasformazione che esprime una tendenza delle democrazie contemporanee, ma che in Italia assume il tratto più radicale del partito privatistico-padronale, svelando la matrice aziendale del berlusconismo.

Il punto da sottolineare in questo mutamento è che la campagna permanente in cui una leadership mediatica è impegnata sembra possedere una sua autonoma forza performativa: si potrebbe dire che vincola gli attori ad una narrazione in cui l’antagonismo, la drammatizzazione, la spettacolarizzazione sono ingredienti indispensabili per conquistare l’attenzione del pubblico, suscitare emozioni, identificazioni. È una gara senza soste. Quello che conta per il leader mediatico è ottenere l’attenzione e la fiducia dei cittadini-utenti, riuscire a influenzare i loro sistemi di credenze, costituiti da percezioni, valori, rappresentazioni dei problemi, degli strumenti per risolverli, di sé stessi.

Un esempio l’ha offerto l’accordo sugli immigrati con l’Albania: avrà costi alti per il Paese, nel centro di raccolta albanese si potranno spedire poche migliaia di immigrati rispetto ai 155 mila arrivati finora, ma quello che conta è far passare il messaggio che gli immigrati sono dirottati all’estero, non sbarcano qui. Il regime narrativo finisce per retroagire sulla rivendicazione di rappresentanza del capo, che, mentre elabora l’offerta deve prestare ascolto alla domanda, intesa però non come istanze sociali, bisogni, interessi, ma come emozioni, risentimenti, identità.

Il no al Mes, dunque, va inquadrato all’interno di una rivendicazione sovranista e populista, che punta al recupero di un controllo politico su processi governati da una élite europea descritta nuovamente come lontana, anonima, non benevola. Il framing discorsivo, vale a dire l’inquadramento interpretativo, proposto dalla premier punta a catturare l’inquietudine di molti cittadini circa le difficoltà del Paese e può avere un impatto sulle scelte di politica pubblica. La leadership mediatica fa pressione e condiziona la stessa leadership politica: il modo più facile e aggressivo di condurre la campagna elettorale sembra pronunciare un no all’Europa su un tema importante, ma non fino al punto da produrre effetti dirompenti sul Paese, come sarebbe stato un no sul Patto di stabilità. A maggior ragione, si può dire no se la mossa serve a neutralizzare il concorrente leghista, che gioca la stessa carta. Lo scontro resta innanzi tutto dentro la destra.

 La campagna permanente della Meloni riscopre così i pregi della politica della identità. Ogni forza politica ha bisogno di darsi una identità: un elemento chiave attorno al quale aggregare persone, che si riconoscano in obiettivi e qualità comuni, che lo distingua dagli altri. Ma la politica dell’identità compie un salto concettuale ulteriore: mobilita forme di appartenenza e di solidarietà di un gruppo sociale. Tracciare il confine del noi contro loro, è fondamentale per l’assunzione di una identità collettiva. Ma quello che caratterizza le mobilitazioni identitarie è che pongono la propria identità collettiva come oggetto della lotta, come posta in palio per ottenere il riconoscimento.

Contrapporsi all’Europa sul Mes, dovrebbe consentire alla premier di attivare negli elettori questo riconoscimento. Si cerca di suscitare un orgoglio nazionale rispetto agli altri popoli europei percepiti come sordi, distanti. Il no al Mes diventa lo strumento per rivendicare una sorta di pari dignità con Francia e Germania, per manifestare la specificità italiana senza dover subire gravi danni. Il sentimento su cui la Meloni probabilmente baserà la sua campagna sarà appunto l’orgoglio.

Ma la politica dell’identità rilancia anche una politicizzazione senza precedenti dell’Europa contro il processo di depoliticizzazione che è stato innescato dalla europeizzazione e dalla globalizzazione. Sembra questa la sfida della premier tornata sovranista. Come ha spiegato la filosofa Iris Marion Young nel libro Le politiche delle differenze i gruppi sociali marginalizzati reagiscono valorizzando in positivo le appartenenze utilizzate per escluderli dal potere, per stereotipizzarli, per sfruttarli. In questo caso la politicizzazione dell’Europa serve a sostenere un’idea di giustizia, che non è solo redistribuiva ma vorrebbe essere politica. La Meloni tende a presentarsi come paladina di una Europa delle nazioni più giusta. E arruola nella sua campagna l’essenzialismo, vale a dire la rivendicazione di una identità che vede la propria collettività come un gruppo omogeneo, unificato, minacciato da un solo fattore di oppressione, la cui volontà è espressa da una leader. La radicalizzazione, quindi, sembra funzionale all’assunzione di una identità chiara e netta da comunicare in una società frammentata e individualizzata in vista del voto.

La scelta di tornare a una politica della identità richiama in servizio la pressione dei populisti per una ripoliticizzazione dei temi europei. Depoliticizzazione e politicizzazione non sono fenomeni che si escludono, ma due facce della medesima medaglia. La depoliticizzazione indica il fenomeno attraverso il quale viene delegata a enti non elettivi (autorità, enti sovranazionali, banche centrali) o alla società e ai privati il potere di regolazione dello Stato nazionale. Questo trasferimento di competenze regolative non annulla la politica, che di fatto ne decide l’avvio, ma la distanzia. Fa apparire più neutre e tecniche decisioni una volta esclusivamente governative. È in virtù di una diffusa depoliticizzazione che molti cittadini hanno la percezione di avere perso il controllo delle proprie istituzioni nazionali, di subire decisioni prese in ambiti tecnici ed amministrativi non eletti in momenti gravi come la Recessione del 2007/8, la crisi economica successiva o la pandemia. E questo è stato un punto di attacco del populismo e del sovranismo contro l’integrazione europea. Il risultato di questa critica radicale è una parziale delegittimazione sia delle istituzioni comunitarie sia delle scelte. Alla depoliticizzazione dell’area governativa e istituzionale ha corrisposto però una politicizzazione della società, perché le controversie sui temi si sono trasferite a livello sociale. Durante la pandemia la disputa sui vaccini e le cure si è trasferita dalla politica agli esperti.

La scelta della premier può condurre a una ripoliticizzazione dei temi europei e di conseguenza ad una possibile nuova conflittualità in Europa. La Meloni potrebbe immaginare una replica della tattica, nella sostanza fallita, della trattativa a pacchetto: ottengo importanti concessioni sul Patto di Stabilità e allora approvo il Mes, altrimenti non passa.  Come si sa, il Patto di Stabilità è stato varato con limitate risposte all’Italia, e la Meloni forse ha bocciato il Mes per dimostrare che l’Italia è coerente. Ma non è detto che funzioni il tentativo di utilizzare la futura conflittualità sovranista per uno scambio negoziale. Anche perché la destra estrema della Le Pen e di Salvini non segue la Meloni. La politicizzazione dell’Ue può essere remunerativa nel breve periodo sotto il profilo elettorale, ma sul lungo periodo è sempre stata rischiosa. Dopo le elezioni, soprattutto se si confermerà un’alleanza Ppe socialisti liberal-democratici, la premier potrebbe essere costretta a convergere verso un pragmatismo funzionale, vale a dire orientato alla soluzione dei problemi. Anche se un certo grado di politicizzazione e controversialità dell’Unione si può prevedere.

L’Italia però non può essere isolata se viene nuovamente vista come un Paese non del tutto affidabile per il suo continuo cambio di atteggiamento. Nell’agenda dell’Ue dopo il voto ci saranno questioni decisive: dovrà affrontare l’allargamento a Est (all’Albania, al Montenegro, all’Ucraina e alla Moldavia), entrerà in vigore il nuovo Patto di stabilità, più flessibile rispetto al vecchio, ma che vincolerà ugualmente il Paese al rispetto di regole sui bilanci, dovrà darsi un nuovo quadro normativo mentre Francia e Germania sembrano pensare a una Europa a cerchi concentrici con più questioni su cui si voterà a maggioranza qualificata e non all’unanimità.

Il problema del nostro super debito resta decisivo: si dovrà affrontare in un orizzonte pluriennale a partire dal 2025-26 con un rientro sul debito (oggi viaggia sul 144 % del Pil) e una riduzione del deficit strutturale (intorno all’5,7%). Secondo le stime del think thank Bruegel, al nostro Paese potrebbe essere richiesta una correzione di bilancio da 12 miliardi (0,6 % del Pil) per 7 anni, anche se il ministro del Tesoro Giorgetti per ora lo ha escluso. Ci attende un passaggio molto complesso, non privo di incognite. Il governo Meloni pensa a ridefinirsi come sovranista invece che a riforme strutturali, riduzioni degli squilibri sociali, rilancio della crescita. Identità, comunicazione, schieramenti, tutto tranne che governo e politiche pubbliche incisive. Si tratta di capire se a pagare il conto saranno i cittadini.

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