La riconfigurazione ideologica della guerra

La guerra in Ucraina offre l’opportunità di comprendere l’impatto di una sequenza di eventi straordinari sulla sfera pubblica e di osservare come potrebbe modellare gli schieramenti ideologici e politici delle democrazie. Ancora non si sono consolidate le tendenze di fondo, ma una riconfigurazione ideologica della società sembra avviata.

Negli ultimi anni, a partire dall’attentato alle torri di New York, una successione di eventi straordinari globali ha investito la società: l’11 settembre, la crisi economica, la crisi dell’immigrazione, la pandemia, e ora la guerra in Europa. Gli eventi straordinari, che la sociologia della comunicazione definisce anche eventi chiave o eventi scatenanti, non sono selezionati dai media, si autoimpongono per la loro drammatica evidenza. Si presentano come più gravi perché inaugurano un più alto livello di eccezionalità. Sono dirompenti nel contesto in cui accadano. La guerra in Ucraina ha le caratteristiche di un evento choc. Spiega il professore Rolando Marini nel libro Immigrazione e sicurezza che gli eventi straordinari «sono capaci di assumere il ruolo di eventi critici, in quanto confermano, rafforzano o addirittura aprono una fase di crisi emergenziale». Possiedono una forza omogeneizzante e insieme attuano una drastica semplificazione della realtà. Hanno il potere di focalizzare l’attenzione della sfera pubblica e richiedono una capacità di gestione comunicativa, simbolica, politica.

Il problema è comprendere come il sistema sociale assorbe l’urto traumatico. Come lo elabora e lo trasforma in un aggregato di senso. Con il rischio, avverte il professore Carlo Marletti nel libro Prima e dopo, di assorbirne troppo e poi rimuoverne gli effetti «senza imparare nulla da essi e senza trasformarsi evolutivamente». L’ideologia entra in campo in quanto può essere il mezzo simbolico per elaborare la risposta. Essa può unificare la domanda dei cittadini prima frammentata, può collegarla alle politiche dei partiti e del governo. Decidere o no sanzioni, sostenere o no l’Ucraina, fare o no fronte comune con i paesi occidentali, attribuire responsabilità, accettare eventuali sacrifici, sono scelte che dipendono dalla concezione del mondo che prevale. I cittadini aderiscono a una concezione del mondo e implicitamente danno un mandato fiduciario a chi governa in termini di interessi e soprattutto di valore.

La posta politica in gioco, quindi, ruota attorno alla costruzione della risposta ideologica all’evento della guerra. Ma alla base di questo processo si trovano le trasformazioni psicologiche e cognitive che l’Ucraina sta causando. È un diverso campo di battaglia: qui combattono stati emotivi, cognizioni, narrazioni, immagini, senso comune, schierati come se fossero armi per formare le ideologie.

Un primo segnale è arrivato dalla recente approvazione a larga maggioranza da parte del Parlamento dell’aumento della spesa per la Difesa fino al 2 per cento del Pil. Una decisione storica.

Un altro segnale può essere considerato il confronto serrato, a tratti aspro, che si è aperto tra una sinistra anti-atlantista e legata a schemi del Novecento, che critica l’Occidente per i suoi errori verso la Russia, e una sinistra più atlantista, che sembra voler leggere la guerra in termini di aggressore/aggredito e che governa in alcuni paesi europei.

Un terzo segnale può essere la frammentazione della destra con Berlusconi e Salvini che hanno avuto rapporti privilegiati con Putin e con loro intellettuali che vorrebbero una Ucraina che si arrende al compromesso.

Il campo della competizione ha un nome: tematizzazione della guerra. Che tende a polarizzare la società.

Un tema è un insieme di discorsi, testi, informazioni prodotti e utilizzati da diversi attori per discutere in modo conflittuale o negoziale attorno a una situazione. È un insieme di rappresentazioni, sentimenti e ragionamenti, in cui si compete per stabilire la definizione, l’interpretazione dell’evento, l’attribuzione di significato. Le interazioni tra i soggetti, la negoziazione in diverse arene (non solo in quella mediale), creano un campo di forze in cui convergono valori, idee, punti di vista, interessi differenti. Alla fine, prevalgono l’analisi e le soluzioni considerate più giuste. Il fine del processo è la costruzione di un regime di verità: un sistema consolidato di credenze che genera un campo di realtà. Le narrazioni costruiscono una dimora narrativa dove vivere e abitare, producono un effetto di verità che orienta l’azione sociale e politica. I regimi di verità hanno una caratteristica: in genere ignorano i dubbi, perché difendono i confini identitari dei soggetti.

La tematizzazione, quindi, può essere considerata il momento della sfida tra diverse ideologie, intese come sistemi di credenze, di valori e opinioni che sono funzionali all’individuo per rispondere a bisogni e motivazioni profondi. Di fronte alla guerra, i cittadini possono ricorrere a una ideologia conservatrice o progressista per dare un senso al conflitto e familiarizzarsi con esso. I media, che svolgono un’opera di ri-contestualizzazione e autoriflessione, hanno un ruolo in questo processo cognitivo e narrativo. Se in Ucraina si spara e si muore, in Europa si stabilisce quale visione del mondo è vera.

Sullo sfondo, secondo la psicologia, emergerebbero tre tipi di bisogni e motivazioni sociali.

Le motivazioni epistemiche, che si riferiscono alla tendenza a ridurre l’incertezza, l’ambiguità, la complessità. Si tratta di una motivazione legata all’istanza definita dal professore Arie Kruglanski bisogno di chiusura cognitiva, di ordine e di struttura.

Secondo questo concetto, l’uomo desidera una risposta («qualunque risposta») che gli consenta di annullare l’incertezza. L’individuo ricorre alla chiusura cognitiva per ridurre l’ansia provocata dall’ambiguità senza rimetterla in discussione. Le persone sentono il bisogno di avere credenze stabili e chiare, di restituire un ordine al proprio mondo. Cercano un sistema di riferimento che serva a spiegare, valutare e dare un significato alla guerra.

La motivazione esistenziale, invece, è legata alla necessità di ridurre la percezione di minaccia, che dà origine a una ricerca di sicurezza e di protezione rispetto a paure che in questi anni si sono moltiplicate.

Infine, la motivazione relazionale richiama il desiderio di affiliazione, di stabilire relazioni con altri. Gli individui avvertono un bisogno di identificazione, di avere con altri una realtà condivisa. Di ridurre il disaccordo di fronte al trauma comune. Questa motivazione valorizza l’appartenenza, la fedeltà al proprio gruppo (e spesso anche il conformismo).

La guerra investe il senso comune, una forma di sapere sociale condiviso costruito in modo inconsapevole, che viene  rimodellato: il sapere dato per scontato è l’assenza della guerra in Europa, ma è stato frantumato dal conflitto ucraino. Nello stesso tempo, l’evento critico interpella l’identità sociale, sottoponendola a una forte pressione. Il rischio innesca anche una tendenza a difendere lo status quo, a legittimare il sistema, perché metterlo in discussione significherebbe perdere ordine, prevedibilità e generare vulnerabilità, inquietudine. Il modello del sociologo Luhmann sostiene che la funzione della comunicazione consiste nel favorire la riduzione della complessità: gli individui cercano di non perdere il controllo sul proprio mondo e desiderano dargli un senso. I bisogni sollevati dalla guerra sembrano coerenti con questa istanza necessaria per rappresentare l’ignoto (la guerra alle porte) e l’indicibile (morte e violenza cieca).

La guerra fa scattare una riduzione forzata di conflitti complessi a una alternativa semplice: sostenere o contrastare, fuggire o combattere, vivere o morire. Sembra attivarsi un effetto generale di riduzione, che ha lo scopo di alleviare lo stress, di lenire l’ansia sociale montante. Oggi la riduzione della complessità assume il volto composito di una riduzione dell’incertezza, riduzione della minaccia, riduzione del disaccordo. Ridurre per dare senso. Ridurre per placare l’angoscia del trauma. Ridurre perché la guerra non può essere rimossa.

La risposta ai bisogni sollevati dal conflitto si coagula attorno a due nuclei tematici, secondo i professori Yost, Federico e Napier della università di New York in Political ideology: its structure, functions and elective affinities in Annual Review of Psychology 2009: la domanda di cambiamento e la diseguaglianza. In entrambi i casi, i cittadini accettano o rifiutano, scegliendo un sistema di credenze e valori: si collocano a destra o a sinistra, liberali o conservatori. Al di là delle caratteristiche individuali, contano le esperienze storiche vissute, che possono modificare la salienza di eventi e di argomenti, spostando le opinioni politiche. Un aumento dei bisogni esistenziali (riduzione della minaccia), potrebbe far propendere i cittadini verso il conservatorismo. Negli ultimi decenni, del resto, la destra è stata pronta a rispondere al bisogno di sicurezza. Dal punto di vista storico, la guerra fredda Usa-Urss contribuì a stabilizzare gli equilibri politici a favore dei partiti moderati e conservatori sempre per rispondere all’istanza di sicurezza. Il rischio è che si replichi uno spostamento a destra del clima di opinione favorito dalla guerra in Ucraina.

Oggi, tuttavia c’è una novità: il modello sovranista è entrato in crisi. L’esito della competizione politica attorno ai due nuclei di fondo, cambiamento e disuguaglianza, non è scontato. La riconfigurazione ideologica in corso sembra fluida.

I segnali sul piano politico non mancano: la vittoria del Pd alle amministrative, i sondaggi che da settimane indicano sempre il Pd come primo partito, la vittoria della Spd in Germania, quella dei socialisti in Portogallo, i buoni risultati del Labour in Inghilterra in elezioni parziali, prima la sofferta ma chiara vittoria di Biden. In un mondo che per anni è stato governato dalla destra e influenzato dall’ideologia neoliberista, ci sono indicazioni che un mutamento è possibile.

Inoltre, Biden, Scholtz, Draghi, Macron, Sanchez, Costa in Portogallo, si stanno muovendo proprio sul terreno della sicurezza. In Italia Enrico Letta ha posizionato il Pd in sintonia con i bisogni (epistemici, esistenziali, relazionali) di parte dell’opinione pubblica. I processi di tematizzazione e narrazione, da Biden a Zalensky a Putin ai leader europei, ridefiniscono gli schieramenti politici. Il professore Marletti ha osservato che un tema da una parte aggrega, dall’altra segmenta la sfera pubblica.

Il cambiamento può essere raccontato e interpretato come sicurezza/protezione. In genere il cambiamento suscita apprensione perché rimette in discussione un ordine. Ma c’è una narrazione del cambiamento come difesa della società. L’Europa sembra muoversi in questa direzione: si ragiona su una difesa europea, perché la difesa dei cittadini è un valore per la democrazia; si prepara un piano energetico non solo per rendersi autonomi dalla dipendenza russa, ma anche per avanzare verso un modello di sviluppo sostenibile; la transizione ecologica è immaginata per assicurare non solo la difesa degli equilibri ambientali, ma anche per garantire uno sviluppo alimentare autonomo e qualitativamente superiore. Di fronte alla guerra, l’Europa ha avviato un nuovo, difficile percorso verso una maggiore inclusione e più forti garanzie per i cittadini e il loro benessere.

Il cambiamento può essere raccontato come forma di autodifesa e di autonomia. Una narrazione simile può ridisegnare anche l’altro nucleo: la diseguaglianza. Non si tratta solo di rendere il nostro Paese più efficiente e moderno con il Pnrr, un progetto di efficientamento del sistema per sostenere la crescita. Si potrebbe delineare un modello di sviluppo che riduca le ingiustizie sociali e di genere. Si tratta di immaginare un capitalismo responsabile capace di distribuire più equamente le risorse che produce. Il centrosinistra può disporre di una offerta importante. Anche perché la guerra ha inaspettatamente aperto la crisi del sovranismo.

Secondo molti studiosi, alla radice della espansione del sovranismo e della destra populista c’è stata la capacità di raccontare, spettacolarizzare, imporre all’agenda pubblica il paradigma della crisi, del fallimento delle politiche attuate.

Al centro di questa performance della crisi (secondo la definizione del professore Benjamin Moffit in How to perform crisis in Government and Opposition, 2014), c’è la frattura tra il noi, il popolo, e loro, le élite. Il successo della destra sovranista e populista sarebbe stata favorita da eventi straordinari come la crisi economica e l’immigrazione. In entrambi i casi il fallimento veniva imputato a un loro ai danni di un noi.

Con la guerra questo scenario viene riconfigurato: fino a pochi mesi fa la frattura noi/loro era collocata all’interno della società e la costruzione del nemico riguardava la messa in stato di accusa dell’establishment. Adesso la guerra rovescia la prospettiva che già la pandemia aveva contribuito a modificare: il noi ridimensiona le distinzioni interne ai cittadini, le distanze sociali sono ridotte, e il loro torna a essere collocato all’esterno della nazione (i russi). La frattura non attraversa più la società dividendola, pone in conflitto nazioni, civiltà, concezioni del mondo (Europa/Asia). Vale a dire colloca il nemico all’esterno dei confini. Non a caso il presidente Macron ha lanciato il tema del «sovranismo europeo», un’autonomia europea che deve comprendere la difesa, l’energia, l’economia.  In questo modo, la sovranità non è più quella del popolo in contrapposizione all’élite. Diventa la sovranità delle democrazie verso quella dei sistemi autoritari. La crisi identitaria non riguarda più il dentro della comunità, ma il fuori della nazione.

La crisi delle destre, quindi, non nasce solo per le relazioni pericolose di alcuni partiti e leader con Putin. Ha radici più profonde: riguarda il posizionamento del confine identitario. Lo studioso Henri Tajfel spiega che alla base della identità sociale c’è la categorizzazione sociale, la tendenza inconscia a collocare gli altri nel nostro gruppo sociale o in un gruppo avverso. La distinzione tra appartenenza e non-appartenenza è soggetta a delle distorsioni: tendiamo ad accentuare sia le assimilazioni sia le differenziazioni, cioè le valutazioni positive o negative degli altri (che originano i pregiudizi). La motivazione di questa distorsione è legata alla difesa del proprio sé. È forse questo nodo emozionale e cognitivo delicatissimo che oggi spiazza la destra e offre ai progressisti un’opportunità: assumere la difesa della propria comunità.

Ma deve essere una difesa democratica, ispirata a valori diversi, che però rispondono a bisogni e a paure di fondo suscitati dalla guerra. Indicare obiettivi sovraordinati, le grandi sfide, può funzionare come ha funzionato per la pandemia: immaginare grandi obiettivi che richiedono la collaborazione di tutti per il loro raggiungimento, del resto, consente di rispondere al bisogno di ridurre il disaccordo sociale, avvertito con inquietudine di fronte al pericolo. Desideriamo una realtà condivisa. Vogliamo rinsaldare il bisogno di appartenenza, unendoci in nome di un progetto. La democrazia va difesa. Ma si difende meglio se sarà più giusta.

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