Se si volesse riassumere il risultato delle elezioni amministrative, si potrebbe tentare in questo modo: l’insicurezza sociale questa volta ha premiato il Pd e il centrosinistra e ha penalizzato i populisti e i sovranisti. È un esito che smentisce le interpretazioni che indicavano la destra sovranista e i populisti come i naturali beneficiari dello scontento sociale. Le elezioni amministrative dovevano eleggere i sindaci delle maggiori città italiane e la scelta degli elettori a favore dei progressisti, la sconfitta pesante della destra tranne a Trieste e in Calabria, ci offrono un’inedita immagine del sentimento oggi prevalente nel Paese. Un sentimento che revoca in dubbio l’opinione diffusa di un elettorato ormai posizionato stabilmente sul fronte conservatore.
Le elezioni amministrative non si devono considerare l’anticipo delle politiche che seguono una logica diversa, ma l’elemento che fa riflettere è il tema sul quale i due schieramento hanno vinto o perso e che ha fatto da sfondo alla scelta dei sindaci: la sicurezza.
Un mutamento che va letto con prudenza se si considera l’alto tasso di astensione. Tuttavia il fatto che populisti e sovranisti abbiano perso proprio sulla sicurezza, che sembrava il loro punto di forza, conferma la fluidità dell’elettorato. La società italiana sembra avere iniziato una nuova transizione o forse passa da una transizione a un’altra, ma che si ricollega al nuovo clima d’opinione in Germania e in Norvegia dove hanno vinto i socialdemocratici. È necessario capire cosa significhi il rimescolamento in atto nella società.
A uno sguardo superficiale, una serie di eventi, come l’assalto neofascista alla Cgil di Roma o le proteste no vax, sembrerebbero accreditare la narrazione di un Paese che non sia uscito dalla fase di radicalizzazione. Come spiega il professor Antonelli in un bel libro appena uscito, Radicalizzazione, si tratta della adozione di comportamenti estremisti, che si pongono cioè su posizioni e soluzioni radicali, che non escludono l’uso della violenza. Gli indizi che in realtà la situazione sociale fosse meno scontata non mancavano. Ma sono stati sottostimati. Solo dopo le amministrative alcuni osservatori hanno cominciato a prendere in considerazione un riposizionamento moderato di parte dell’elettorato. E non solo in Italia.
Forse non siamo del tutto usciti dal ciclo della paura e della rabbia che domina da alcuni anni, ma non ne siamo più del tutto dentro. Come aveva scritto Gramsci: il vecchio muore e il nuovo ancora non è nato.
Siamo, come è scritto nei Quaderni dal carcere, in un interregno in cui ci sono movimenti politici e sociali, come i no vax o i gruppi neofascisti e anarchici, che agiscono secondo la logica della radicalizzazione e su questa linea sembrano schierate alcune forze politiche, come Fratelli d’Italia e una parte della Lega. Nello stesso tempo, il voto mostra che una parte consistente del Paese segue un percorso inverso: sembra avviato verso una fase di de-radicalizzazione e disimpegno. Il lungo ciclo della rabbia declina. Compare un disallineamento tra un ceto politico parlamentare ed extraparlamentare polarizzato e una società che sembra investire sul cambiamento nella stabilità. L’alta astensione, del resto, testimonia che l’area della sfiducia è ancora molto vasta.
Sia pure in modo disomogeneo, le analisi sui flussi elettorali rivelano che sono state soprattutto le periferie a disertare le urne. Il disagio sociale ci avverte che la domanda di sicurezza, di protezione e di riconoscimento è intatta. È ancora in attesa di una risposta. Del resto, se si guardano i consumi scopriamo che sono più bassi rispetto al 2019 anche se sono in ripresa. La pandemia ha bruciato un milione di posti di lavoro, secondo i dati in pochi mesi ne sono stati recuperati poco più di 500 mila, ma il mercato del lavoro è ancora in sofferenza. Il Paese registra un record di esportazioni con un aumento del 5%, le imprese hanno imparato a internazionalizzarsi, ma molte sono ancora fuori dai mercati decisivi dell’Asia e della Cina. L’Italia con Draghi è avviata verso una crescita record del 6%, ma le diseguaglianze, la precarietà, l’impoverimento pesano ancora su parte dei ceti popolari.
Le cause strutturali socio-economiche che hanno sostenuto la protesta e la disaffezione si sono ridotte ma si fanno sentire. La sfiducia dei ceti che hanno pagato il prezzo più alto della crisi e della pandemia, non è sparita. Ma allora come interpretare l’astensione? Forse non è mutata la sfiducia, ma stanno cambiando le aspettative. I problemi che sono stati identificati come un’ingiustizia non sono stati rimossi, ma si moltiplicano i segnali che la crescita è avviata e che presto si potrebbe stare meglio. La sfiducia ha cambiato forma. E sembra assumere quella del disimpegno e della de-radicalizzazione.
Il disimpegno è l’allontanamento da un comportamento, un modus operandi diverso dall’impegno nel voto, anche se non implica necessariamente che il soggetto abbia mutato la propria convinzione. Si tratta di una scelta che attiene più alla sfera emotiva, che riposa nella disillusione e nella demitizzazione dei soggetti che in passato hanno guidato l’ideologia radicale. In questo caso i candidati sindaci dei populisti, come i grillini, o dei sovranisti di destra che non hanno mobilitato l’elettorato. La disillusione però ha investito anche i leader nazionali e le loro offerte politiche. La de-radicalizzazione, invece, è un processo che ha una relazione con la sfera cognitiva e si esprime in una rinuncia a determinati valori, atteggiamenti, punti di vista. Comporta un cambiamento di idee e di mentalità.
L’astensione di ampi settori sociali potrebbe avere seguito questi due diversi processi: quello emotivo di una sfiducia che si rivolge contro coloro a cui si era dato credito per ottenere un mutamento o quello cognitivo che conduce a una revisione delle proprie convinzioni e ad approdare alla de-radicalizzazione come risposta per risolvere le contraddizioni del sistema. L’astensione, quindi, potrebbe essere interpretata come un riflusso del rancore. Che si auto colloca in una posizione di attesa. È possibile che si sia diffusa nei ceti sociali più colpiti dalla crisi la sensazione che la protesta non produca vantaggi (visto che le cose per loro non sono migliorate), ma che non riescono a immaginare e a credere in una proposta. Questo slittamento verso la sospensione di giudizio potrebbe essere stato innescato dal mutamento di aspettative che si deve alla figura di Draghi.
Sia sulla pandemia sia sull’economia, un’ampia maggioranza di cittadini percepisce l’avvio di un cambiamento che attribuisce al premier e al suo governo. La figura di Draghi sembra costituire una garanzia per molti: un premier che parla solo quando deve: che comunica solo quello che fa; che quello che fa poi accade nella vita quotidiana dei cittadini. I risultati si vedono. Non è un caso che coloro che hanno votato hanno premiato il Pd e il centrosinistra: sono i partiti che hanno appoggiato con più decisione Draghi, che si sono resi partecipi dei suoi risultati, che si sono identificati con la sua azione, che hanno condiviso la sua credibilità. L’insicurezza ontologica, come l’ha definita Anthony Giddens, così ha giocato un ruolo cruciale: ha finito per premiare i progressisti e penalizzare la destra. Del resto la Lega al governo non ha perso occasione per distinguersi come se fosse opposizione, Fratelli d’Italia ha messo in scena un’opposizione senza soluzioni.
In questo quadro, la sconfitta della destra non può dipendere solo da candidati sbagliati o da programmi deboli. Al contrario, è emersa una frattura tra la rappresentanza e la rappresentazione politica della destra e le percezioni, il senso comune della società. La destra aveva per prima compreso le paure sociali, per prima aveva offerto riconoscimento a ceti marginalizzati e disorientati. Con il passare del tempo la sua azione politica è sembrata una commercializzazione dell’insicurezza: ad ogni nicchia sociale veniva offerta la sua narrazione in cui c’era un nemico cui attribuire ogni colpa (l’establishment e la sinistra) senza riuscire a delineare un progetto di cambiamento credibile. Sull’immigrazione o sull’economia, ogni volta la destra legittimava emozioni, ansia, rabbia di qualcuno. Non si accorgeva però che la società stava maturando un ripensamento. La figura di Draghi ha materializzato questo ripensamento in virtù della sua affidabilità. Così mentre la destra trasformava il green pass o la scelta di non vaccinarsi in una battaglia di libertà, gli italiani andavano a vaccinarsi e scaricavano il green pass, perché lo avevano interpretato come una salvaguardia della propria libertà anche di lavorare.
La destra si è trovata con un pacchetto interpretativo scollegato con l’agenda dei cittadini e in parte dei media. Salvini e la Meloni hanno dimenticato che ogni pacchetto interpretativo ha una carriera: mentre loro criticavano Draghi per il green pass, i cittadini invece si concentravano su altre priorità, come il lavoro, la crescita, la scuola tornata in presenza senza troppi problemi, la sanità. La definizione del problema, la strutturazione del dibattito, la mobilitazione del sostegno, l’identificazione delle cause, la presentazione delle soluzioni, devono adattarsi ai mutamenti degli eventi. La destra invece è rimasta prigioniera del proprio successo passato.
Il voto delle amministrative, dunque, ha messo in luce l’inatteso disallineamento tra la destra e la società, sia quella che ha votato sia quella che si è astenuta. E difficilmente questo disallineamento potrà essere recuperato con un pranzo chez Berlusconi. Oggi la domanda di sicurezza dei cittadini vuole ascoltare proposte sulla propria agenda, dove spiccano i diritti sociali, e il green pass è considerato uno strumento per tornare alla normalità. La destra cioè ha smarrito quella che due studiosi, Gamson e Modigliani, in un breve saggio del 1989, «Media discourse and public opinion on nuclear power: a constructionist approach», hanno definito risonanza culturale. Si ha risonanza quando un frame, vale a dire un quadro interpretativo della realtà, evoca simboli, miti, credenze latenti di una società. Questo costrutto focalizza il legame tra un discorso su un problema e il contesto culturale in cui il discorso avviene.
La destra, che pure aveva goduto del vantaggio della risonanza sui temi dell’immigrazione e della globalizzazione, ha ceduto ora il vantaggio al Pd e ai progressisti. Anche se in modo poco strutturato, Pd e progressisti hanno posto la salute dei cittadini al centro della politica del governo, assieme al lavoro e alla crescita. Storie che sono diventate più attrattive per alcuni settori sociali, che hanno catturato l’attenzione, che hanno reso ricettivi cittadini e media a quel modo di presentare una policy issue. Perché questi temi risuonavano negli individui. Se a questa connessione emotiva-cognitiva si uniscono candidati più credibili, programmi più seri, il gioco è fatto. Il resto lo ha fornito Draghi con il suo patrimonio di affidabilità.
Gli imprenditori dello scontento sono così andati incontro a una sconfitta prevedibile. Le loro parole, e quelle dei loro candidati, non riuscivano a ritrovare la magia della risonanza: agli elettori sono apparse lontane dai propri interessi, distanti dalle loro ansie reali, incapaci di mobilitarli per il sostegno. Ma adesso la sconfitta della destra rappresenta la difficile sfida per la sinistra e i progressisti. Populisti e sovranisti mantengono un cospicuo radicamento nel Paese. E il centrosinistra è chiamato a elaborare una risposta socio-economica alle preoccupazioni di chi ha votato e di chi si è astenuto. Nello stesso tempo dovrebbe offrire una risposta culturale-emozionale, perché oggi occorre governare le emozioni per vincere le elezioni. Si tratta di costruire una strategia che probabilmente dovrà attuare due diverse manovre: da una parte convincere una parte dei ceti sociali che si sono astenuti, sottraendoli al richiamo della destra, rischio che rimane se il governo Draghi non riuscisse a concludere il suo lavoro; dall’altra consolidare la coalizione sociale che è emersa alle amministrative e che ha visto settori ampi della borghesia, della classe media, e parte dei ceti operai sostenere i progressisti.
Pd e centrosinistra, quindi, dovranno agire rispetto a due elettorati diversi. Gli astenuti sono in gran parte elettori mobili di ceti popolari che vanno persuasi con proposte calibrate sui loro interessi e le loro convinzioni. La nuova coalizione sociale, che il voto ha prefigurato, chiede soprattutto una prospettiva, un progetto di futuro credibile e realizzabile. In ogni caso per entrambi gli elettorati sarà necessario rassicurare, essere credibili, affidabili, senza inseguire posizioni estreme. Cambiamento e sicurezza potrebbero essere i temi dominanti delle prossime elezioni politiche. Occorre, dunque, dare un senso rinnovato al lavoro di Draghi per fare durare la crescita, senza la quale il debito rischia di diventare insostenibile. Il compito difficile che attende i progressisti è quello di costruire un’identità collettiva convinta che il cambiamento sia possibile, che neghi l’immutabilità della situazione. E che parli il linguaggio della fiducia e non della negatività che lo assimilerebbe agli imprenditori della rabbia. L’identità da costruire deve definire il noi che può cambiare le cose.