La Russia di Limonov: monotona e violenta

Serebrennikov rinuncia ad una costruzione realistica e la sostituisce con immagini metaforiche, oniriche, suggestive ed esplosive

Giorgio Simonelli

È uscito finalmente nelle sale italiane Limonov, il film di Kirill Serebrennikov  tratto dal  libro di Emanuel Carrère e non gode dell’attenzione e dell’apprezzamento che meriterebbe, forse un po’ schiacciato dai premi, le conferme e le sorprese della mostra di Venezia.

D’altronde che non fosse un film fortunato lo si sapeva già, viste le traversie che ha vissuto in fase di ideazione e lavorazione. Una fase durata un intero decennio, dal 2013 quando la Wildside acquisisce i diritti del romanzo uscito due anni prima e propone la regia a Saverio Costanzo che, dopo due anni di riflessione, rinuncia perché «non a proprio agio con un soggetto così russo».

E su questa dimensione di russità sarà il caso di tornare.

Resta tuttavia la curiosità di immaginare cosa avrebbe saputo fare un bravo regista come Costanzo alle prese con una storia così affascinante. E  la curiosità è ancora più forte se si pensa alla seconda fase di progettazione, iniziata nel 2017, che prevedeva la regia di Pavel Pawlikowki, l’autore dello strepitoso Ida e dell’interessante Cold War. Neppure questa soluzione andò a buon fine. Pawlikoski rinunciò alla regia per una sorta di antipatia nei confronti del personaggio.

Nel frattempo, aveva scritto, insieme a Ben Hopkins, una sceneggiatura su cui è basato il film di Serebrennikov, il quale entrò nella partita quando già la produzione stava operando in Russia e motivando la sua candidatura in virtù di una frequentazione giovanile di Limonov.

Trovato finalmente il regista, scelto come protagonista l’attore inglese Ben Wishaw e iniziate le riprese  a Mosca, tutto si interruppe per  complicazioni finanziarie della produzione e quelle personali del regista e degli attori legate alla guerra in Ucraina. Solo nell’estate del 2022 si riuscirono a riorganizzare le riprese spostando il set in Lettonia. L’approdo al festival di Cannes del 2024 sembrava una giusta ricompensa a tante fatiche e tanti sacrifici, ma sulla Croisette il film non brillò, snobbato da giuria e critica come un mezzo fallimento, un pasticcio di scarso rilievo. La cosa rischia di ripetersi ora all’uscita nelle sale dove raccoglie ben poco seguito.

È un peccato, perché si tratta di un’opera che presenta molteplici motivi di interesse, resi ancor più vivi dalle vicende degli ultimi anni. Basti pensare che tutta la storia comincia a Charkiv, una delle città ucraine più colpite dall’esercito russo e tipico centro industriale e operaio ai tempi dell’Unione sovietica e della giovinezza di Limonov. Lì fa le sue prime esperienze letterarie in uno di quei circoli provinciali, idealisti e velleitari in cui si mescolano letture poetiche, bevute e sesso. Lì ritorna dopo i soggiorni negli USA e in Francia a trovare i vecchi genitori, la madre sempre affettuosa e il padre che, in piena perestrojka, non tollera l’entusiasmo riformistico gorbaceviano e rimpiange apertamente le scelte politiche di Stalin che avrebbe rimesso in un attimo tutti a posto.

È una Russia, quella sovietica raccontata dal Limonov di Carrère e ribadita da Serebrennikov, complessa, tanto monotona in provincia quanto violenta e feroce a Mosca e dintorni, nelle dacie dei politici e degli scrittori dove si  giocano carriere e amori. Non è, quella dipinta dal film e prima ancora dal libro, l’immagine dell’Unione Sovietica tanto cara al pubblico occidentale, quella mediata dalla letteratura di Brodsky o Solgenitsin sui quali Limonov riversa tutto il proprio disprezzo, considerandoli scrittori preoccupati soprattutto di esibire il loro dissenso. È piuttosto quella raccontata da Hans Magnus Henzesberger in un suo bellissimo libro, quella di un paese nato con il progetto di annullare le differenze sociali e destinato invece a moltiplicarle.

Ma nei confronti di questa nazione, per la madre Russia con tutti i suoi difetti non può mai venire meno l’amore. Questo è l’altro grande tema del film su cui il film dice qualcosa che di questi tempi è particolarmente delicato e significativo (e speriamo di non essere annoverati tra i putiniani toccando questo tasto).

La difesa del proprio paese, della Russia, va oltre ogni limite di civiltà, di ragionevolezza. Finisce in rissa, a bottigliate il dibattito radiofonico con gli intellettuali parigini scettici nei confronti dell’Unione sovietica e immemori del suo immenso sacrificio nella lotta al nazismo; finisce con una sconfitta dialettica il confronto con l’insegnante di inglese newyorkese: a Limonov che le spiega come in Russia non ci sia bisogno di pagare né per studiare né per curarsi, lei pone una domanda che non ha risposta: «ma allora perché tu sei venuto qui?».

New York, dunque, che occupa la parte centrale e più ricca della storia, una New York brutta, sporca e cattiva, esasperata ed esasperante, un luogo dove un giorno Limonov vive con la più bella e ricercata top model e il giorno dopo è uno sbandato che pietisce un rapporto sessuale con un homeless di colore  e che per lasciare quella vita diventa il maggiordomo di un facoltoso signore con amicizie importanti anche nel mondo letterario.

Ma è proprio a New York, che il film gioca le sue carte decisive, in una scelta stilistica tutta spinta all’eccesso, all’iperbole narrativa e visiva, con la rinuncia di ogni costruzione realistica sostituita da immagini metaforiche, oniriche, suggestive ed esplosive. In un momento in cui il cinema d’autore sembra privilegiare la forma classica, il Limonov di Serebrennikov ha anche questo pregio, il coraggio di proporre un linguaggio originale, che sembra riprendere le provocazioni anni Settanta, un po’  avanguardia, un po’ pop art. Fino a tornare nel finale al tema dell’illusorietà della vita e della supremazia dell’immagine sulla realtà, quando Limonov ripete la sua uscita dal carcere a beneficio delle telecamere. La  prima, quella vera, non era venuta bene ed è meglio che non esista, meglio quella recitata, come in fondo è stata tutta la sua vita.

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