La scoperta di Pavese negli anni dell’utopia

Settantaquattro anni fa moriva Cesare Pavese. Un omaggio alla sua memoria

Darwin Pastorin

Passo davanti al mio vecchio liceo, in via Juvarra, all’angolo con corso Palestro, colorato dal mercato: oggi si chiama Alessandro Volta, un tempo era il mitico Quinto Liceo Scientifico.

Mi fermo. Ricordo. 1969. Il mio primo anno da liceale.

L’emozione del primo giorno, la ricerca di un volto conosciuto, il «come sarà»? Sapevo del maggio francese, dei primi cortei, degli scioperi degli operai, della «sporca guerra» in Vietnam, dell’uomo che da poco aveva passeggiato sulla luna frantumando le rime dei poeti. Ma avevo quattordici anni e mi interessavano, soprattutto, le ragazze e la Juventus, e da poco Pietro Anastasi, passato dal Varese alla corte di Madama, era diventato il mio idolo.

La politica entrò in quegli attimi. Fine della giovinezza, degli eroi salgariani, di un mondo racchiuso, seminato di certezze e tenerezze. Un agguato fascista. Improvviso, violento. Spranghe e scalpelli. Una testa rotta. Sangue. Decisi da che parte stare. Subito. Nel segno della Resistenza, del comunismo inteso come la possibilità di un mondo migliore, non più diviso in classi, tutto per tutti, tolleranza, pace, il rifiuto della violenza. Che Guevara, assassinato nella selva boliviana due anni prima, prese il posto di Sandokan.

Tutto stava cambiando, velocemente. E noi ragazzi potevamo portare sul presente e sul futuro la forza della nostra giovinezza, la nostra ingenuità, certo, ma anche la nostra purezza. Eravamo, in molti, degli angeli con i pugni alzati e le bandiere rosse. Poi arrivarono, il 12 dicembre, le bombe di piazza Fontana. E capivamo che bisognava giungere al più presto a un cambiamento, mettendo sulle barricate il nostro cuore e i nostri volti chiari, feriti, ma non disposti a perdere la speranza. Furono stagioni di lotte, di smarrimento, di vertigini.

La politica, certo. Ma anche l’amicizia. I giorni trascorsi insieme, a fare tardi, immaginando i viaggi, l’America amata e detestata, Hemingway e la Beat Generation, Sulla strada di Jack Kerouac che passava di mano in mano fino a diventare un groviglio di fogli consumati e in disordine. Leggere ci insegnò a capire, a vivere, rappresentò la nostra consolazione e il nostro ossigeno. Così come la musica. Bob Dylan fu come una illuminazione, devastante, abbagliante, come i versi di Arthur Rimbaud o la scoperta di Cesare Pavese, con la sua solitudine, il suo «non fate troppi pettegolezzi», la poesia data agli uomini. Le chitarre e le armoniche suonavano e le nostre voci erano fresche anche negli autunni più desolanti e desolati. E Fabrizio De André e Francesco Guccini e Claudio Lolli a portarci il senso delle parole e delle storie. E il calcio era la nostra prateria. Allo stadio e, soprattutto, sui campi. Lo spogliatoio, le partite, i gol fatti e i gol sbagliati, il rigore che ti sei fatto parare, il saluto con i compagni, il tram che ti riportava a casa, «riusciremo a togliere le ingiustizie?». E poi quel bacio finalmente dato, prima della fine di quel film d’autore in un cinema alternativo. Quel brivido che non dimenticherai mai.

Guardo il mio vecchio liceo. Ripenso agli anni trascorsi, alle occasioni che la mia generazione ha gettato al vento. Ma nel riflesso della vetrata d’ingresso non ritrovo il me stesso di adesso, avanti con gli anni e le delusioni. Eccomi, sono quello dei quattordici anni. E aspetto la campanella. Con i libri di filosofia e di matematica legati stretti da una cinghia. Oggi ci sarà assemblea. Nel pomeriggio la gara di atletica. Poi: in giro con gli amici, a Porta Nuova. Sorrido. Le nuvole minacciano pioggia, ma cosa importa? C’è luce viva nel ventaglio dei ricordi.

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