La transizione progressista

Il risultato delle elezioni amministrative in Italia sembra la risposta nazionale al voto in Germania.

Se una Berlino frammentata ha scelto di investire sul cambiamento e sulla stabilità, che dovrebbero condurre a una normalizzazione del sistema politico, indicando nella Spd, nei Verdi e in parte nei liberali i possibili protagonisti, in Italia l’opinione pubblica sembra essersi orientata in modo simile, scegliendo i progressisti come gli autori più credibili per il governo di una fase nuova.

In Germania all’ordine del giorno c’era il problema di costruire l’eredità di Angela Merkel e, nello stesso tempo, di procedere a un cambiamento stabilizzante. In Italia nel voto per le città e per la regione Calabria, gli elettori sembrano avere avuto in mente un’idea non dissimile: assicurare una continuità ideale con Draghi. Le urne, infatti, hanno visto perdere vistosamente i sovranisti e i populisti, che hanno creduto di conquistare consenso inseguendo i no vax o le proteste più radicali, e hanno premiato i partiti, come il Pd, le liste progressiste o Forza Italia in Calabria, che invece hanno formulato una offerta politica riformatrice vicina al progetto e allo stile di Draghi.

L’ipotesi che nelle società europee si stia instaurando un nuovo clima di opinione, secondo la definizione di Noelle Neumann nel suo libro Spirale del silenzio, vale a dire un nuovo frame interpretativo che attiva modelli latenti che pre-definiscono la realtà, sembra ricevere conferme. Adesso si tratta di capire se il nuovo clima di opinione persisterà e, secondo lo schema della studiosa, potrà dare origine a un ciclo politico, che prenda il posto di quello populista degli ultimi anni. Le elezioni tedesche e italiane si devono probabilmente leggere come l’inizio di una nuova transizione, nella quale la posta in gioco sarà la capacità delle forze progressiste di dare una risposta alle domande sociali emerse dalle urne e negare una seconda opportunità alle forze populiste e sovraniste, che si avvantaggerebbero nel caso di un fallimento dei vincitori di oggi. Quella che si apre, quindi, si può forse definire una transizione progressista.

Non sarà una operazione semplice. E per riuscirci i partiti del campo progressista, per primo il Pd in qualità di formazione più importante, dovranno comprendere la lezione che arriva sia dal voto italiano sia da quello tedesco. Anche il voto politico nazionale, che fino a ieri sembrava quasi scontato a favore del centrodestra, può essere plasmato dal nuovo clima di opinione. L’elettorato è mobile, la partita aperta. Che la transizione abbia inizio.

Quello che colpisce ad una prima analisi del voto è che gli elettori sembrano aver colto l’occasione del voto per ristrutturare lo spazio politico. È una ristrutturazione che sembra richiamare la lezione di Machiavelli. È stato il professore Carlo Galli, nel libro Spazi politici del 2001, a offrire una interpretazione molto interessante della concezione implicita che Macchiavelli aveva dello spazio: di fronte alla crisi della tradizione risalente all’antichità, il pensatore fiorentino lesse lo spazio come percorso da vettori in conflitto, teatro dell’agire virtuoso della politica in cui il conflitto viene determinato dalla ricerca della gloria. Machiavelli, quindi, inaugurò una idea energetica dello spazio, che viene modellato dalla politica. Lo spazio sarebbe definito secondo la geografia della virtù politica. È una indicazione che sembra utile per comprendere quanto accade oggi: lo spazio politico viene plasmato dalle forze sociali e dalle loro scelte politiche, che sembrano disinvestire dalla protesta, dal populismo, dall’antagonismo, per tornare a investire sulle aree più moderate nelle quali la competenza e la affidabilità sono importanti.

Ma quali forze sociali hanno riposizionato i pezzi sulla scacchiera? In attesa di potere leggere le analisi che arriveranno dagli studiosi, possiamo avanzare un’ipotesi: gli attori del riposizionamento sembrano i ceti sociali che godono di una certa stabilità economica (a livelli diversi) e che sempre di più temono di vedere compromessa la loro condizione dalle avventure sovraniste e populiste. Questi ceti sembrano essere una parte degli operai, soprattutto quelli più specializzati, i tecnici tra cui gli addetti al sistema socio-sanitario, la classe media, la borghesia. Forse le classi più deboli, come una parte dei ceti operai, i dipendenti dei servizi esposti a occupazioni precarie, i disoccupati, si sono astenuti o hanno scelto la destra, ma senza escludere pregiudizialmente i progressisti. La ristrutturazione dello spazio politico lascia intravedere il formarsi di una coalizione sociale che tiene insieme una parte della classe operaia, le nuove classi medie e la borghesia, che cercano una offerta politica rinnovata.

Se questa interpretazione fosse confermata dagli studi, la sconfitta della destra appare più comprensibile: Salvini e la Meloni sono rimasti prigionieri della logica delle vittorie passate e hanno perso la sintonia con una opinione pubblica che, lentamente e silenziosamente, è mutata a seguito della crisi del Covid e di quella economica. Lo spazio politico, quindi, sembra riconfigurarsi proprio sulla spinta di una energia: il nuovo clima di opinione e le scelte politiche conseguenti degli elettori.

La transizione oggi sembra soprattutto nelle mani dell’ampio arco progressista. Perché gli elettori hanno offerto innanzi tutto a loro l’onore e l’onere di proporre una risposta di governo. Se si assumono come punto di partenza le domande dei ceti sociali che hanno deciso la partita, cioè la nuova coalizione sociale, alcune indicazioni sembrano chiare: questi ceti puntano sia a una redistribuzione che renda più giusto il sistema sia a una crescita economica che possa distribuire anche opportunità. Questa indicazione generale può essere tradotta in politiche e obiettivi, ma qui preme sottolineare un elemento su cui potrebbe valere una analisi più approfondita: non emerge solo una domanda di redistribuzione ma anche di allocazione delle risorse, vale a dire non si intravvede una spinta anticapitalista, come sembra sostenere la sinistra più antagonista, ma sembra di cogliere una istanza di interpretazione del capitalismo che segni una cesura rispetto agli anni del neoliberismo, che non sovrapponga il capitalismo al neoliberismo. Occorre ridurre le diseguaglianze, combattere la precarietà, riscoprire i diritti sociali e non solo quelli civili, mettere l’ambiente al centro di una riconversione del modello di sviluppo: l’agenda progressista potrebbe già essere delineata nei suoi temi portanti, come ha fatto capire anche Romano Prodi.

Solo indicare questi temi ci fa capire la scelta politica degli elettori: c’è un nuovo bisogno di rappresentanza e di partecipazione dei ceti che hanno deciso le elezioni, nello stesso tempo non si dà credito né al radicalismo di sinistra, che vede protagonista lo Stato in economia, né al ritorno del neoliberismo centrato su un mercato vissuto come una selezione darwiniana, né a un sovranismo o a un populismo difensivo che vogliono chiudere i confini. Questa consonanza tra ceti popolari, classi medie e borghesia guarda invece a un modello equilibrato, misto, in cui la redistribuzione deve essere attuata in modo da sostenere la crescita. Nello stesso tempo, sembra esserci un’apertura verso l’innovazione sia produttiva e tecnologica sia sociale come chiave per raggiungere l’obiettivo. La globalizzazione non è vista come un pericolo, ma come una opportunità che però deve essere regolata e governata. Si avverte, quindi, nel mandato degli elettori una consonanza con la piattaforma di Draghi, che sta dando risultati, e con il suo stile, che rivaluta competenza, serietà, onestà personale. La domanda degli elettori sembra orientarsi verso un riformismo progressista che conta al suo interno una pluralità di voci, che lo frammenta, ma che è sfidato a trovare una sintesi inedita, un nuovo pensiero progressista. Non è un progetto che si può improvvisare, richiede uno sforzo sul lungo periodo sia sul piano delle politiche sia sul piano della cultura economica e politica. Non sarà facile. Ma l’elettorato italiano e quello tedesco mostrano un volto mutato: dopo gli anni in cui hanno prevalso i valori postmaterialisti, siamo entrati in un’epoca in cui si stabilisce un nuovo equilibrio tra valori materialisti e postmaterialisti, che si influenzano a vicenda. Una nuova epoca richiede una nuova progettazione politica.


Se si tiene presente questo mix di istanze economiche e culturali, sarebbe un errore per il campo progressista sottovalutare che la partita si gioca anche su un altro campo: quello comunicativo, psicologico della narrazione e delle emozioni.

Al centro del diverso clima di opinione si colloca quello che il sociologo Anthony Giddens, nel libro Le conseguenze della modernità, ha definito «insicurezza ontologica», cioè uno stato mentale stabile che deriva dall’ordine e dalla coerenza delle proprie esperienze di vita, che danno un senso all’esistenza. Se alla radice del fenomeno del populismo e del sovranismo c’è un bisogno di sicurezza ontologica delle persone, e le recenti ricerche degli psicologi vanno in questa direzione, il voto in Italia e Germania non cancella questa matrice. Ci avverte però che l’opinione pubblica sembra cominciare a declinarla in modo differente. Non prevale la risposta dell’ansia come è accaduto fino a ieri. La destra è rimasta senza la paura. Ma resta una richiesta di rassicurazione e di difesa, che ora si indirizza verso figure e proposte differenti. È la stessa domanda, ma in una forma diversa.

Il campo progressista non capì in tempo l’insicurezza strutturale istillata dalla globalizzazione nella versione neoliberista. Non ha raccolto l’ansia diffusa per i cambiamenti che gli individui sentivano di non potere controllare né comprendere appieno, e che si traduceva in una crisi di identità personali e sociali che divideva i vincenti dai perdenti. La narrazione populista è stata più complessa di quello che è apparso a prima vista: non c’era solo la visione apocalittica del noi contro loro, popolo contro élites, non si trasmetteva solo un messaggio negativo, destruens, contro le presunte manipolazioni e ingiustizie della classe dirigente al potere. In realtà, il messaggio populista conteneva anche un forte messaggio positivo, construens, come ha scritto la professoressa Donatella Bonansinga, docente in Gran Bretagna, nel suo articolo Who thinks, feels: the relationship between emotions, politics and populism. Vale a dire: una conferma della propria identità, una convalida dell’orgoglio della propria appartenenza di gruppo (nazione, etnia etc.). La mobilitazione populista poggiava anche su una soluzione contro la minaccia avvertita da alcuni strati sociali, faceva appello al sollievo di una ritrovata sicurezza, al «brivido di una rivincita». L’offerta autoritaria confortava e insieme proponeva una risposta di senso a chi ha reagito al cambiamento chiedendo risposte dure.

La transizione che i progressisti possono guidare richiede, quindi, un approccio nuovo: intanto comprendere l’intima relazione che esiste tra razionalità ed emozionalità contro il pregiudizio che vuole le emozioni in contrasto con la ragione, sapendo che il processo decisionale si basa sia sulle cognizioni sia sulle emozioni. E la politica certo non sfugge alla presenza decisiva di uno sfondo affettivo. La narrazione che la politica farà nei prossimi mesi inciderà sul modo con cui i cittadini daranno un senso alle strategie politiche messe in atto. Saranno valutate se risponderanno o meno ai loro bisogni. Il racconto dei leader sarà importante per gli elettori per decostruire le informazioni che ricevono e dare un significato. I cittadini, osserva la professoressa Bonansinga, faranno molta attenzione a decifrare chi è danneggiato, chi è a rischio, chi è da biasimare, chi è favorito. Il campo progressista, quindi, dovrà attrezzarsi per una narrazione che si occupi anche delle richieste affettive degli elettori. Mentre mettono a punto un progetto politico-economico rispetto al nuovo spazio politico, occorrerà che i progressisti sappiano mobilitare l’emotività degli elettori. Occorre creare un coinvolgimento affettivo rispetto agli obiettivi politici e offrire un adeguato riconoscimento alle diverse identità sociali del Paese. Per riuscirvi si dovrebbe privilegiare alla retorica negativa dell’indignazione una narrazione che susciti speranza e fiducia. Che ristori i bisogni affettivi dell’opinione pubblica.

Se si riflette, è proprio il metodo adottato dal Presidente del Consiglio, Draghi: la sua battaglia sul fronte dell’epidemia e della crisi economica non è stata percepita solo come efficace dai cittadini, ma vi hanno trovato risposte confortanti alla loro insicurezza di fondo. Ha ragione, quindi, il segretario del Pd Letta quando sostiene che il voto rafforza il governo Draghi: in effetti i cittadini credono che cambiamento e stabilità siano la via giusta. Adesso tocca ai progressisti continuare il lavoro sul piano politico. Non sarà facile. Ma non è impossibile.

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