L’abbondanza frugale come arte di vivere

Un’intolleranza folle ci sta circondando. Il suo cavallo di Troia è la parola felicità. E credo che sia mortale.
René Char

Se la felicità è generalmente associata all’abbondanza, non è mai associata alla frugalità. L’ideologia della felicità si è sviluppata, infatti, contemporaneamente a quella del progresso con la modernità.

«Nuotare nella felicità», come dice l’espressione popolare francese, è vivere nel comfort e nell’agio materiale, in mezzo a un’accumulazione di oggetti che si suppone generino benessere.

La frugalità, invece, senza essere necessariamente austera, elimina tutti i consumi inutili, ma può comunque essere gioiosa. Implica solo un’autolimitazione volontaria dei nostri bisogni, ma non esclude la convivialità o una certa forma di edonismo. La gastronomia, intesa come l’arte di mangiare bene grazie a una cucina sana e raffinata senza essere né ascetica né orgiastica, fa parte di questa arte di vivere propugnata dalla decrescita. ¹

Naturalmente, la decrescita non pretende che la gastronomia sia l’unico ingrediente di una vita gioiosa nella frugalità e nella convivialità. L’associazione dell’epicureismo con la decrescita non dispiace agli «obiettori di crescita», Epicuro è infatti considerato un precursore. ²

Tuttavia, questo è un riferimento alla sua autentica filosofia e non alla volgare distorsione che ne è stata fatta.

I paradossi della felicità appaiono in modo impressionante, se riflettiamo sul contrasto tra le ambiguità dell’espressione «decrescita felice» che mi viene erroneamente attribuita e che fu proposta da Maurizio Pallante come titolo di un manifesto, e la famosa formula di Saint-Just (1767-1794): «La felicità è un’idea nuova in Europa». È chiaro che se Pallante ha lanciato il suo manifesto con un tale titolo, non è perché la felicità è un’idea nuova legata al programma della modernità, che può dare vita alla società della crescita, ovvero la massima felicità per il maggior numero di persone, ma piuttosto perché la felicità sembra essere un’aspirazione condivisa da tutti, universale e trans-storica. ³

C’è, infatti, un’infinità di testimonianze secondo le quali la felicità è un’aspirazione congenita della natura umana, se accettiamo senza critiche le traduzioni di autori antichi o stranieri.

Seneca, nel De vita beata, scrive, per esempio, «Tutti vogliono vivere felici, ma per quanto riguarda il vedere cosa produce la vita felice, è lì che non vedono chiaro».

Agostino, in un testo dallo stesso titolo, pur sostenendo l’austerità, rimane ancora sulla stessa linea: «Il desiderio di felicità è essenziale per l’uomo; è il motivo di tutte le nostre azioni».

Allo stesso modo, Spinoza, nell’Etica (1677) scrive: «Il desiderio di vivere felicemente o di vivere bene, di agire bene è l’essenza stessa dell’uomo».

E Pascal (1670, Il Bene Sovrano, nei Pensieri) ancora più esplicitamente: «Tutti gli uomini cercano la felicità. Questo è senza eccezione, qualunque siano i diversi mezzi che impiegano. Tutti tendono a questo obiettivo. Ciò che fa sì che alcuni vadano in guerra e altri no è lo stesso desiderio che c’è in entrambi, accompagnato da visioni diverse. La volontà non fa mai il minimo passo verso altro che questo oggetto. È il motivo di tutte le azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che vanno ad impiccarsi».

John Locke, nel suo Saggio sulla comprensione umana, parla dell’istinto di «perseguire la felicità». Scrive «La più alta perfezione di una natura ragionevole sta nella ricerca attenta e costante di una felicità genuina e ferma, così la cura di sé per non scambiare una felicità immaginaria per una reale è il fondamento necessario della nostra libertà».

Tuttavia, un avvertimento importante è che per i teologi medievali, dopo Agostino, solo la vita di ascetismo e di astinenza propugnata dal cristianesimo permette il raggiungimento della «beatitudine», e anche quasi solo post mortem.

Se l’affermazione di Saint-Just deve essere presa molto sul serio, è perché alla vigilia della rivoluzione francese stava emergendo un’aspirazione diversa dalla precedente beatitudine celeste e dalla beatitudine pubblica. ⁴

Il contenuto della beatitudine è cambiato profondamente. È ormai una questione di benessere materiale e individuale, l’anticamera del PIL (prodotto interno lordo) pro capite degli economisti, che ha poca o nessuna dimensione etica. Dobbiamo quindi interrogare lo scandalo semantico: le parole, mentre ci permettono di comunicare e di capirci, sono anche delle trappole che portano ai malintesi. Mentre è difficile in un primo momento sostenere che la ricerca della felicità sia apparsa solo nel XVII e XVIII secolo, è chiaro che l’eudaimonia perseguita dai greci, cioè qualcosa come la buona vita e la città felice, ha poco a che fare con la felicità di Locke e Bentham. Sarebbe opportuno parlare di una felicità antica e di una moderna, come Benjamin Constant parla di una libertà dell’antico e del moderno.

Si può supporre che in tutte le comunità umane e per ciascuno dei loro membri ci sia un’aspirazione a una vita «buona». Si assumerà (sicuramente a torto) che l’espressione «buona vita» costituisca un termine neutro e incontaminato per designare questa aspirazione pluriversale e trans-storica, che si traduce nelle varie lingue, culture ed epoche attraverso concetti diversi come, per esempio: Gluck, felicità, bonheur, ecc…, ma anche bamtaare (Pular), sumak kawsay (Quechua), ecc…

Tutte queste espressioni sono ciò che il filosofo e teologo indo-catalano Raimon Panikkar ha chiamato equivalenti omeomorfi della «vita buona». ⁵

La felicità, nelle sue diverse varianti linguistiche europee, ma soprattutto nel senso francese del termine bonheur, è stata certamente la forma della «buona vita» della nascente modernità.

Nonostante l’interesse di tali ricerche, non ci interessa qui sapere come la vita buona si sia incarnata per la prima volta nella «beatitudo» medievale, ma solo il doppio movimento di riduzione e involuzione che si è verificato dal secolo dei lumi ai giorni nostri: quella dell’emergere della felicità alla sua riduzione economistica come «prodotto interno lordo pro capite», poi quella della critica degli indicatori di ricchezza alla nascita della ritrovata aspirazione al buen vivir, all’abbondanza frugale, alla sobrietà felice in un contesto di «prosperità senza crescita» per dirla come Tim Jackson. ⁶

Infine, se prendiamo alla lettera il giudizio di René Char citato nell’epigrafe, la parola felicità dovrebbe essere aggiunta alla lista delle «parole tossiche» stilata da Ivan Illich, insieme a sviluppo, ambiente, uguaglianza, aiuto, mercato, bisogno. ⁷

È in corso la sesta estinzione delle specie dovuta al sovrasfruttamento degli ambienti naturali, all’inquinamento, alla frammentazione degli ecosistemi, all’invasione di nuove specie predatrici e al cambiamento climatico. Il tempo del collasso si sta avvicinando pericolosamente, quindi è arrivato il momento della decrescita!

La società di sobrietà scelta che emergerà sulla sua scia richiederà un rapporto diverso con il tempo. Ripristinare un rapporto sano con il tempo significa semplicemente reimparare ad abitare il mondo. E quindi, liberarsi dalla dipendenza dal lavoro per riscoprire la lentezza, per riscoprire i sapori della vita legati alla terra, alla vicinanza e al prossimo. Non sarebbe assurdo far rivivere la flânerie che Charles Baudelaire ha celebrato e che Frederick Winslow Taylor ha combattuto.

A forza di voler risparmiare tempo contandolo al nanosecondo per approfittarne (nel senso letterale di approfittarne, piuttosto che goderne), lo abbiamo letteralmente perso. Perso cercando troppo di guadagnarlo. La scarsità di tempo per vivere è rigorosamente proporzionale all’allungamento della durata della nostra vita, ridotta quindi a una sopravvivenza aumentata, secondo l’espressione di Guy Debord. Il fatto che questo si rifletta in una frenetica accumulazione di occupazioni, o anche di tempo libero consumato, non cambia nulla; la vita ormai non è altro che consumismo e consumo di tempo, lavoro e denaro. L’uomo contemporaneo non vive più nel tempo, il tempo «libero» è diventato un nonsenso, qualcosa di insopportabile. Il presente scompare in un’eternità virtuale. Viviamo più a lungo (in media) ma senza aver mai avuto il tempo di vivere. Abbiamo perso il contatto con il nostro background originale. L’organico, il vegetale, l’animale sono massicciamente sostituiti dal meccanico, l’elettronico, il digitale e il robotico. Abbiamo sacrificato il reale per il virtuale. Questo sacrificio, che riguarda anche tutto il nostro ambiente, è una minaccia alla sopravvivenza dell’umanità.

La scomparsa del «tempo morto» è in realtà la morte del tempo.

Non si tratta tanto di un ritorno a un passato mitico perduto quanto dell’invenzione di una tradizione rinnovata. Il recupero del tempo libero è una condizione necessaria per la decolonizzazione dell’immaginazione. È meglio promuovere l’otium (svago) del popolo piuttosto che l’oppio dei media e del digitale. La prospettiva offerta dal progetto di decrescita, come reazione alla mortificante realtà di una civiltà in via di collasso, è tutt’altro che triste. Le società che autolimitano la propria capacità di produzione sono anche società felici.

La gastronomia e la gioia sono le basi di un’arte di vivere in decrescita.


¹ Nell’assegnarmi il premio Pellegrino Artusi, intitolato al celebre gastronomo italiano (1820-1911), autore del più famoso trattato di cucina peninsulare, la giuria di Forlimpopoli, sua città natale, non ha sbagliato. Ha capito il legame tra la Scienza in cucina, l’Arte di mangiare bene e la decrescita. Questo libro, che è stato ristampato innumerevoli volte durante la vita del suo autore, è stato per molto tempo l’unico libro posseduto dai poveri in cui generazioni di italiani hanno imparato a leggere. Infatti, fornisce ricette utili per tutte le classi sociali e partecipa, probabilmente inconsapevolmente, a un’arte di vivere frugale. Il suo libro è stato rie-edito in edizione integrale: Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Giunti Editore, 2021

² Si veda Étienne Helmer, Epicure ou l’économie du bonheur, Neuvy-en-Champagne, Le Passager clandestin, coll. Les précurseurs de la décroissance, 2013.

³ Maurizio Pallante, La Decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, Ediz. per la Decrescita Felice, 2011

Beatus esprime lo stato dell’immaginazione di chi ha ciò che desidera, mentre felix esprime lo stato del cuore disposto a prendere piacere. Beatitudo tradotto anche come felicità (Dizionario Wailly) è usato nella teologia francese per designare la felicità in senso religioso, in italiano, beatitudine: godimento interiore.

⁵ «Gli equivalenti omeomorfi non sono semplici traduzioni letterali, né traducono semplicemente il ruolo che la parola originale pretende di svolgere, ma mirano a una funzione equivalente (analoga) al presunto ruolo della filosofia. Non è quindi un equivalente concettuale, ma funzionale, cioè un’analogia di terzo grado. Non cerchiamo la stessa funzione, ma la funzione equivalente a quella che la nozione originale esercita nella cosmo-visione corrispondente» (Raimon Panikkar, Religion, philosophie e culture, InterCulture, n.135, 1998, p. 104; testo ripreso nella rivista Lokanātha del 26 novembre 2018). https://lokanathablog.wordpress.com/2018/11/26/religione-filosofia-e-cultura-raimon-panikkar/

⁶ Tim Jackson, Prosperità senza crescita: i fondamenti dell’economia di domani, Edizione Ambiente (nuova edizione), 2017.

⁷ Wolfgang Sachs (a cura di), Il dizionario dello sviluppo, EGA Edizioni, Gruppo Abele, 2004


L’abondance frugale comme art de vivre

Une intolérance démente nous ceinture. Son cheval de Troie est le mot bonheur. Et je crois cela mortel.
René Char

Si le bonheur est généralement associé à l’abondance, il ne l’est jamais avec la frugalité. L’idéologie du bonheur s’est développée, en effet, en même temps que celle du progrès avec la modernité. «Nager dans le bonheur», suivant l’expression populaire, c’est vivre dans le confort et l’aisance matérielle, au milieu d’une accumulation d’objets censés engendrer le bien-être. La frugalité, au contraire, sans être nécessairement austère, fait l’économie de toute consommation non nécessaire, mais peut être cependant joyeuse. Elle n’implique qu’une autolimitation volontaire de nos besoins, mais n’exclut ni la convivialité ni une certaine forme d’hédonisme. La gastronomie, comprise comme l’art de bien manger grâce à une cuisine saine, raffinée sans être ni ascétique, ni orgiaque, fait partie de cet art de vivre préconisé par la décroissance. Bien évidemment, la décroissance ne prétend pas qu’elle constitue le seul ingrédient d’une joie de vivre dans la frugalité et la convivialité. L’association de l’épicurisme à la décroissance n’est pas pour déplaire aux «objecteurs de croissance» – Épicure est considéré, en effet, comme un précurseur. Toutefois, il s’agit là d’une référence à sa philosophie authentique et non à la déformation vulgaire qui en a été faite…

Les paradoxes du bonheur apparaissent de façon frappante, si on réfléchit au contraste entre les ambiguïtés de l’expression «la décroissance heureuse» qui m’est attribuée à tort et qui a été proposée par Maurizio Pallante comme titre d’un manifeste, et la fameuse formule de Saint-Just (1767-1794): «Le bonheur est une idée neuve en Europe». Il est clair que si Pallante a lancé son manifeste avec un tel intitulé, ce n’est pas parce que le bonheur serait une idée neuve liée au programme de la modernité, qui donnera naissance à la société de croissance, à savoir, le plus grand bonheur pour le plus grand nombre, mais bien parce que bonheur semble une aspiration partagée par tous, à la fois universelle et transhistorique.

On a, en effet, une infinité de témoignages selon lesquels le bonheur serait une aspiration congénitale à la nature humaine, si l’on accepte sans critique les traductions des auteurs anciens ou étrangers. Sénèque, dans De vita beata, écrit par exemple: «Tous veulent vivre heureux mais quant à voir ce qui produit la vie heureuse, c’est là qu’ils ne voient pas clair». Augustin, dans un texte du même titre, bien que préconisant l’austérité, reste encore sur la même ligne: «Le désir de bonheur est essentiel à l’homme; il est le mobile de tous nos actes». De même, Spinoza, dans l’Éthique (1677): «Le désir de vivre heureux ou de bien vivre, de bien agir est l’essence même de l’homme». Et Pascal (1670) plus explicitement encore: «Tous les hommes recherchent le bonheur. Cela est sans exception, quelques différents moyens qu’ils y emploient. Ils tendent tous à ce but. Ce qui fait que les uns vont à la guerre et que les autres n’y vont pas est ce même désir qui est dans tous les deux, accompagné de différentes vues. La volonté ne fait jamais la moindre démarche que vers cet objet. C’est le motif de toutes les actions de tous les hommes, jusqu’à ceux qui vont se pendre». («Le souverain bien», dans les Pensées). John Locke, dans son Essai sur l’entendement humain, parle d’instinct de «la poursuite du bonheur». «La plus haute perfection d’une nature raisonnable, écrit-il, réside en la poursuite attentive et constante du bonheur authentique et ferme, de même le souci de soi de ne pas prendre un bonheur imaginaire pour un bonheur réel est le fondement nécessaire de notre liberté». Toutefois, réserve importante, pour les théologiens médiévaux, à la suite d’Augustin, seule la vie d’ascèse et d’abstinence prônée par le christianisme permet d’atteindre la «béatitude», et encore presque uniquement post mortem.

S’il faut prendre très au sérieux la déclaration de Saint-Just, c’est qu’émerge à veille de la Révolution française, une aspiration différente de la béatitude céleste et de la félicité publique antérieures. Le contenu de la félicité béate a profondément changé. Il s’agit désormais d’un bien-être matériel et individuel, antichambre du PIB (produit intérieur brut) par tête des économistes dont la dimension éthique est faible, voire nulle. Il faut donc s’interroger sur le scandale sémantique: les mots, en même temps qu’ils nous permettent de communiquer et de nous comprendre, sont aussi des pièges sources de malentendus. S’il est difficile de prime abord de soutenir que la recherche du bonheur n’apparaît qu’au xvii-xviii siècle, il est clair que l’eudaimonia poursuivi par les Grecs, quelque chose comme la vie bonne et la cité heureuse, n’a pas grand-chose à voir avec le happyness de Locke et de Bentham. Il conviendrait au mini- mum de parler d’un bonheur ancien et d’un bonheur moderne, comme Benjamin Constant parle d’une liberté des anciens et des modernes.

On peut faire l’hypothèse qu’il existe dans toutes les communautés humaines et pour chacun de leurs membres une aspiration à une vie «bonne». On présupposera (à tort très certainement) que l’expression « vie bonne » constitue un terme neutre et non connoté pour désigner cette aspiration pluriverselle et transhistorique qui se traduit dans les diverses langues, cultures et époques à travers des concepts différents comme, par exemple: Gluck, bonheur, felicità, happiness, etc., mais aussi bamtaare (pular), sumak kawsay (quechua), etc. On tiendra toutes ces expressions pour ce que le philosophe et théologien indo-catalan Raimon Panikkar a appelé des équivalents homéomorphiques de la «bonne vie». Le «bonheur», dans ses différentes variantes linguistiques européennes, mais surtout dans le sens français du terme, a certainement constitué la forme de la «vie bonne» de la modernité naissante.

En dépit de tout l’intérêt d’une telle recherche, on ne s’intéresse pas ici à savoir comment la bonne vie s’est incarnée d’abord dans la beatitudo médiévale, mais seulement au double mouvement de réduction et d’involution qui s’est produit de l’âge des Lumières à nos jours: celui de l’émergence du bonheur à sa réduction économiciste comme « produit intérieur brut per capita », puis celui de la critique des indicateurs de richesse à la naissance de l’aspiration retrouvée au buen vivir, à l’abondance frugale, à la sobriété heureuse dans un contexte de « prospérité sans croissance » pour le dire comme Tim Jackson. Finalement, si on prend à la lettre le jugement de René Char cité en exergue, le mot «bonheur» devrait s’ajouter à la liste des «mots toxiques (toxic words)» dressée par Ivan Illich, aux côtés de développement, envi- ronnement, égalité, aide, marché, besoin, etc., en raison des confusions qu’il engendre et des malentendus qu’il véhicule.

La sixième extinction des espèces due à la surexploitation des milieux naturels, à la pollution, au fractionnement des écosystèmes, à l’invasion de nouvelles espèces prédatrices et au changement climatique est en marche. Le temps de l’effondrement se rapprochant dangereusement, celui de la décroissance est donc venu ! La société de sobriété choisie, qui émergera dans son sillage, supposera un autre rapport au temps. Restaurer un rapport «sain» au temps, c’est tout simplement réapprendre à habiter le monde. Et donc, se libérer de l’addiction au travail pour retrouver la lenteur, redécouvrir les saveurs de la vie liées aux terroirs, à la proximité et au prochain. Il ne serait pas absurde de renouer avec la «flânerie» que célébrait Baudelaire et que combattait Taylor.

À force de vouloir épargner du temps en le comptabilisant jusqu’à la nanoseconde pour en profiter (au sens propre de tirer profit, plutôt que jouissance), on l’a littéralement perdu. Perdu à trop vouloir le gagner. La raréfaction du temps de vivre est rigoureusement proportionnelle à l’allongement de notre durée de vie, réduite ainsi à une survie augmentée, selon l’expression de Guy Debord. Qu’elle se traduise par une accumulation effrénée d’occupations, voire de loisirs consommés, ne change rien à l’affaire, la vie n’est plus que consommation et consumation de temps, de travail, d’argent. L’homme contemporain ne vivant plus dans le temps, le temps libre est devenu un non-sens, quelque chose d’insupportable. Le présent disparaît dans une éternité virtuelle. Nous vivons, certes, plus longtemps (en moyenne) mais sans avoir jamais eu le temps de vivre. Nous avons perdu le contact avec notre fond originel. L’organique, le végétal, l’animal sont massivement remplacés par du mécanique, de l’électronique, du numérique et du robotique. Nous avons sacrifié le réel au profit du virtuel. Ce sacrifice qui touche aussi tout notre environnement constitue une menace pour la survie de l’humanité.

La disparition des «temps morts» est en fait la mort du temps. Il s’agit moins dans tout cela d’un retour à un passé mythique perdu que de l’invention d’une tradition rénovée. La reconquête du temps «libre» est une condition nécessaire de la décolonisation de l’imaginaire. Il vaut mieux promouvoir l’otium (le loisir) du peuple plutôt que l’opium des médias et du numérique. La perspective offerte, en réaction contre la réalité mortifère d’une civilisation en cours d’effondrement, par le projet de la décroissance est tout sauf triste. Les sociétés qui autolimitent leur capacité de production sont aussi des sociétés festives. La gastronomie et la joie sont bien aux fondements d’un art de vivre décroissant.


Texte tiré de l’ouvrage, L’abondance frugale comme art de vivre, bonheur, gastronomie et décroissance, Editions Payot & Rivages, 2020


La traduzione dal francese all’italiano è di Thierry Vissol

Il disegno che accompagna l’articolo è di Trax, Christine Traxeller (Francia). Prima avvocatessa è oggi pittrice e vignettista di stampa. Le sue vignette sono pubblicate da Le ravi, Zelium, Espoir, su vari siti web e sul suo blog trax.revolublog.com. Membro di France cartoons e di United Sketches International, partecipa a numerosi festival internazionali, condivide l’aforismo di Alexandre Vialatte, «la caricatura non è arte, è anarchia».

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