L’amica geniale: la plebe napoletana di Ferrante esce dallo stato di natura ed entra nella storia

Sul set de L’amica geniale, il più grande d’Europa con i suoi sei ettari di estensione, si sono spente per sempre le luci. Era stato allestito nei pressi di Caserta e riproduceva l’ormai celebre rione dove la serie tratta dal romanzo di Elena Ferrante è ambientata.

È stato oggetto di tour, di gite scolastiche, di vere e proprie visite guidate per fan di tutto il mondo, che del resto possono ormai visitare la città di Napoli in itinerari specifici legati ai luoghi di Lila e Lenù con guide specializzate. Per quattro serie e sette lunghi anni in quello spazio tanto immaginario quanto reale si è prolungata la fase creativa della saga uscita fra il 2011 e il 2014; in quello spazio è avvenuta la trasformazione/traduzione della complessa trama scritta in un prodotto televisivo di altissimo livello internazionale.

L’amica geniale, ora, è consegnata alla storia della letteratura e a quella della televisione, come ha tenuto opportunamente a precisare Saverio Costanzo, primo regista e cosceneggiatore, rispondendo alle richieste di chi, nella valanga inarrestabile di commenti, post, pagine dedicate sui social, vorrebbe poter sperare in una impossibile quinta stagione.

Quello che è avvenuto è un fatto enorme: si è generato un immaginario planetario a partire da un romanzo ambientato a Napoli e scritto da una persona che ha fatto del nascondimento della sua identità una cifra stilistica ed esistenziale.
Per districare la moltitudine tribale del rione e formare personaggi, Elena Ferrante ha avuto bisogno di fare alberi genealogici: e così i Greco, i Cerullo, i Solara, i Sarratore, i Carracci sono comparsi sulla scena con i cognomi dei loro padri e con gli stemmi araldici dell’aristocrazia della miseria economica, educativa, sentimentale, percettiva a cui appartengono dalla notte dei tempi come uno stato di natura. Ma proprio attraverso quelle genealogie, la plebe napoletana di Ferrante esce dallo stato di natura ed entra nella storia, dove definisce la sua posizione, e la sua volontà/capacità/possibilità di modificarla.

È il nodo centrale de L’amica geniale, definito dal New York Times il romanzo più significativo degli ultimi 25 anni, tradotto in oltre 40 lingue, venduto in 15 milioni di copie nel mondo.

Si è detto tutto di quest’opera che in meno di quindici anni ha accumulato una bibliografia critica paragonabile a quella di classici di uno o due secoli fa; un’opera senz’altro periodizzante per la letteratura italiana contemporanea: c’è un prima e un dopo Ferrante, almeno come accadde con Il nome della rosa di Umberto Eco nel 1980.
La Napoli del secondo Novecento diventa il teatro di una parabola storica che va dalla borsa nera del tempo della guerra raccontato da Eduardo De Filippo in Napoli milionaria fino alla città contemporanea di Antonella Cilento e di Valeria Parrella, dove la persistenza di un popolo minuto nascosto alla vista della cartolina partenopea rimette continuamente in forse modelli di sviluppo, visioni progressiste troppo univoche. È la strada osata da Anna Maria Ortese, da Elsa Morante, da Fabrizia Ramondino, quella di una storia d’Italia raccontata dalle donne, fra realismo e visionarismo, fra memoria e invenzione.

Rione Luzzatti è come il quartiere San Lorenzo de La Storia di Elsa Morante, un microcosmo sottoposto alle sferzate di una storia indifferente all’umano come la Natura di Giacomo Leopardi, ma dove pure accade che le persone fuoriescano dalla massa indistinta per gridare la loro paura, la loro rabbia, la loro resistenza nella forma ancestrale delle reazioni primarie: la vendetta, il possesso, il ricatto. Non c’è spazio per i buoni sentimenti ne L’amica geniale, e questa è in parte la sua colpa, almeno per quella significativa parte di critici che l’hanno detestato e relegato al rango di romanzo popolare di serie B senza comprenderne la portata trasformatrice. A una voce di donna non si perdona il racconto dell’inferno, le si permette semmai solo quello del purgatorio e del paradiso, perché il contratto sessuale firmato nella notte dei tempi solo dai maschi stabilisce che sia così, e che sia così per sempre.
Alle pazze che rompono il patto si nega la cittadella del riconoscimento, come fu per La Storia, appunto, e come è stato per L’amica geniale.

Ma le cose cambiano, possono cambiare, e possono farlo anche attraverso il richiamo a modelli e nomi che spostano il centro, riferimenti anche molto diversi fra loro come sono in questo caso Louisa May Alcott e Carla Lonzi, l’Ottocento americano e il femminismo italiano degli anni Settanta.

Si stima che L’amica geniale abbia generato un incremento complessivo delle vendite di opere italiane nel mondo fra il 2014 e il 2015 dell’11,7% con una punta del 14,4% negli Stati Uniti. È in quegli anni, infatti, che scoppia in America la Ferrante Fever, che coinvolge autori come Jonathan Franzen e personalità come Michelle Obama. Il legame con Piccole donne gioca certamente un ruolo in questo successo, stabilendo un contatto fra due mondi culturali diversissimi; eppure, resi contigui dalla letteratura.

Non è solo questo però, la potenza de L’amica geniale si manifesta nell’analisi sconvolgente e a tratti opprimente della violenza come implacabile forza generatrice e non solo distruttrice: l’opposto del mito del materno. Attraverso il suo percorso di ricerca sul femminile traumatico, iniziato negli anni Novanta, Ferrante irrompe sulla scena letteraria imponendo una rilettura della tradizione, costringendo il canone a fare i conti con scritture femminili prima relegate in posizioni marginali o del tutto rimosse, in un continuo scambio fra la cosiddetta cultura alta e quella bassa.

Le bambole, che rivestono un fortissimo significato simbolico nella sua opera, passano da essere un oggetto di transfert del desiderio/rimpianto di maternità ne La figlia oscura a misterioso rito di passaggio, prima rifiutate e poi ritrovate, ne L’amica geniale, fino a diventare oggetti feticcio ne La vita bugiarda degli adulti, dove vengono usate dalle bambine per masturbarsi. Sono sempre rubate, nascoste, segrete, possedute in modo clandestino o precario: incarnano il divieto, la manipolazione, la negazione.

Ferrante lavora sui molteplici e compresenti significati di questa simbologia tanto familiare quanto inquietante, tra rifiuto e affermazione, a cui affida proprio la posizione delle donne e delle scrittrici.
È di questo che è necessario parlare quando si ragiona de L’amica geniale, di ciò che ha spostato, di ciò che ha scavalcato, e non di altro.

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