L’anima di Sarajevo

Sarajevo è nel nostro immaginario città di lutti. Gli spari di Gavrilo Princip (28 giugno 1914) all’arciduca Francesco Ferdinando e alla moglie Sofia che fu pretesto per lo scoppio della Prima guerra mondiale. La triplice occupazione fascista-ustascia-nazista durante la Seconda guerra mondiale. L’assedio degli Anni Novanta (1992-1995), il più lungo della storia contemporanea. Il Ventesimo secolo che è nato e morto nella città martire.

Eppure c’è stata (per certi versi c’è sotterraneamente sempre stata anche nei periodi più bui, e c’è ancora) una Sarajevo felice e poco conosciuta. In controtendenza rispetto alla Jugoslavia di cui faceva parte e che soffriva la dolorosa transizione post-Tito, la capitale della Bosnia ha vissuto negli Anni Ottanta il suo decennio d’oro che ha preceduto il decennio di sangue.

Il prologo, e non poteva essere diversamente in una terra tanto amante dello sport, fu un successo inaspettato e clamoroso nella pallacanestro. Il Bosna dell’allenatore Boscia Tanjevic, allora trentaduenne, diventò campione d’Europa sconfiggendo in finale, nel 1979 a Grenoble, la leggendaria Emerson Varese di Dino Meneghin (96-93). Un’impresa, nei ricordi del coach, «forse maggiore di quella del Leicester nel calcio in Inghilterra, compiuta senza stranieri, senza la possibilità di comprare giocatori sul mercato jugoslavo, partendo dalla A2 e facendo affidamento solo sul vivaio».

Per quel circuito virtuoso e magico che talvolta si insedia in un luogo, di lì a poco una catena di eventi contribuirono a rendere Sarajevo la città più fashion, diremmo oggi, dei Balcani e non solo. Pittori, scultori, artisti di ogni genere calarono da tutto l’Est Europa e la scelsero per elezione. Attirati dallo spirito cosmopolita, dal genius loci che favoriva (allora) la convivenza tra etnie, religioni, culture. Come sostiene Wim Wenders, il panorama è importante, e se qualcuno in quel periodo aveva qualcosa da dire al mondo lo diceva da Sarajevo. Tutta linfa che alimentava la crescita, nei vari campi, dei fuoriclasse locali, degli «enfants du pays». Era ancora vivo Mesa Selimovic, lo scrittore che aveva vergato lo slogan più efficace: «Tutte le città hanno un cuore, solo Sarajevo ha un’anima».

Morirà l’11 luglio del 1982, il giorno in cui l’Italia vinceva i Mondiali di Spagna. Nella musica spopolava il rock dei Bjielo Dugme (Bottone Bianco) di Goran Bregovic al ritmo del quale si ballava nelle piazze e prima che il musicista si convertisse alla contaminazione di generi tra la modernità e il folk. Nel cinema muoveva i primi passi Emir Kusturica, poi pluripremiato, che si avvaleva della collaborazione come sceneggiatore del poeta Abdulah Sidran.

Sarajevo era un cantiere perché si apprestava a organizzare le Olimpiadi invernali del 1984 (per noi quelle della medaglia d’oro di Paoletta Magoni) considerati all’epoca i Giochi meglio organizzati di sempre. Ebbe per prima in Europa le piste di sci illuminate, la gente scendeva con gli assi ai piedi di notte per arrivare fino a casa o fin sulla soglia delle decine di ristoranti che non chiudevano mai. Era vita h24, come in una piccola New York depositata tra i Balcani.

L’anno successivo per la seconda e ultima volta l’Fk Sarajevo diventò campione nel calcio con una squadra senza fuoriclasse ma con molti ottimi giocatori come Mirza Kapetanvic, Predrag Pasic, Davor Jozic che avrà fortuna nel Cesena, Faruk Hadzibegic il capitano dell’ultima Jugoslavia prima della secessione che fallirà il rigore decisivo nei quarti di finale ai Mondiali italiani del 1990 contro l’Argentina di Maradona.

A completare idealmente il ciclo, nel 1989 al drammaturgo e scrittore Dzevad Karahasan venne assegnato il premio per il miglior libro jugoslavo dell’anno. Il volume, un capolavoro, ha per titolo Il divano orientale, ambientato nell’età dei califfati Abbasidi. Già si respiravano i primi venti di guerra. Dopo niente sarà più lo stesso.


Ad alcuni di questi temi Gigi Riva ha dedicato il libro L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra (Sellerio, Palermo 2016).
«Sono quasi le 7,30 della sera a Firenze. Nessuna brezza è arrivata a dare un briciolo di refrigerio. Ai calci di rigore si consuma il destino di quella che sarà l’ultima Jugoslavia alla fase finale di una competizione mondiale».

Il libro ha vinto il  Prix Etranger dell’Association des écrivains sportifs 2016, Premio letterario Coni 2017, Premio Nazionale Letteratura del Calcio Antonio Ghirelli 2017.

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