Laura, l’eco del poeta

Centro apparente di tutta la raccolta dei Rerum Vulgarium Fragmenta, Laura si presenta con i pochi elementi topici del ritratto femminile, rappresentati dal colore bianco della pelle e dall’oro dei capelli; è citata due sole volte per nome, nel sonetto 291 e nella sestina 332, entrambi in morte. Due date ci vengono fornite dal poeta stesso riguardo alla sua ispiratrice: il giorno del colpo di fulmine nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, il 6 aprile 1327, e l’anno della sua morte, a causa della peste, il 1348.

Nuovi studi, anche storiografici, si intensificano per scoprire dove cercare Laura e come arrivare a definirne il nome. I sospetti sollevati dal Boccaccio sulla sua inesistenza storica furono rintuzzati già dal Petrarca in una lettera a Giacomo Colonna. All’interno del Canzoniere il poeta porta a compimento un processo già avviato da Dante nella Vita Nova, che assegna alla poesia il compito di registrare ciò che non si vede, sogni, allucinazioni, immaginazioni: non importa che Laura sia presente, anzi, nella voluttà del suo viver «dolce-amaro» l’autore confessa a se stesso che l’assenza è meglio, perché le immagini che la fantasia gli detta sono anche più gratificanti della realtà.

L’essenza di questa funzione risiede nella sostituzione della vista con la visione: si pensi alle tre canzoni sorelle che vengono denominate cantilenae oculorum e che celebrano la centralità degli occhi di Laura nell’esperienza amorosa del Petrarca. Quegli occhi, pur chiamati dal poeta «Vaghe faville, angeliche, beatrici / de la mia vita» (72, 37-38), non donano affatto la beatitudine, come facevano quelli di Beatrice, ma trascorrono semplicemente nel mondo senza concedersi e senza impietosirsi, senza saluto né salute, senza nulla donare. La natura in cui Laura passa ha una sua sacralità profana (Chiare, fresche e dolci acque), che nasce dal delirio del poeta, dalla sua «memoria innamorata» (71, 99), ma da nessun gesto suo, da nessuna parola da lei pronunciata.

Ciò che davvero resta di lei è l’eco del poeta, la sua immensa costruzione dell’universo con lei al centro, immobile motore del pianto e del canto. Così Laura si trasforma in alloro, con la cosciente cooperazione del poeta che sa di dovere a lei tutta la sua gloria in lingua volgare. In questo, lo sguardo della donna si riverbera sul Petrarca stesso: se Laura è l’alloro, nel simbolo si realizza finalmente un’unione e un’identità tra Laura e il poeta, poiché se Laura è come Dafne, il poeta è come Apollo, che la insegue e la vede tramutarsi nell’albero della gloria.

Al di là del simbolo, tuttavia, non si può dimenticare che quel nome ha anche un valore referenziale, che va cercato probabilmente, oltre che ad Avignone, a Saint-Rémy de Provence, sulla scorta di documenti storiografici che la confermano apparentata a quella nobile famiglia De Sade da cui discenderà quattro secoli dopo il Divino Marchese libertino. Laura, sposata a Ugo de Sade all’inizio del Trecento, viveva nel palazzo di famiglia, ancor oggi visitabile, di fronte a quello di Nostradamus, nel centro storico della piccola città provenzale. Così indicava già nel 1533 il re Francesco I che, nell’inventare tradizione e culto petrarcheschi in Francia, non esitò a far trovare al poeta Maurice Scève, nel sepolcro della supposta Laura ad Avignone, un inedito sonetto del Petrarca, ovviamente falso. Il più tardo Marchese de Sade cita invece l’antenata in una lettera dal carcere alla moglie, datata 1793, in cui racconta che la lettura del Petrarca è per lui una grande consolazione e che Laura viene a trovarlo in sogno, incoraggiandolo a raggiungerla in cielo.

 

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A questo tema Giusi Baldissone ha dedicato due libri, Il nome delle donne. Modelli letterari e metamorfosi storiche tra Lucrezia, Beatrice e le Muse di Montale (Franco Angeli, Milano 2005) e Nomi femminili e destini letterari (Franco Angeli, Milano 2008).

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