L’autunno caldo? No, la rivoluzione

La rivoluzione, possibile ai tempi di Marx, oggi non è più possibile, perché se è vero come ci insegna Hegel che la rivoluzione è il conflitto tra due “volontà”, quella del servo e quella del signore, oggi sia il servo che il signore si trovano non più su fronti contrapposti, ma dalla stessa parte contro l’ineluttabilità di quella forma astratta, anonima e regolatrice di tutti gli scambi che si chiama mercato. Un Nessuno che regola la vita di tutti, anche se Omero ci ha avvertito che “Nessuno” è pur sempre il nome di “qualcuno”. Ma questo qualcuno non è di immediata evidenza.
Umberto Garimberti, Il segreto della domanda

 

La citazione di Garimberti in esergo non potrebbe essere più opportuna per rispondere alla questione se, nell’Italia di oggi, le tensioni sociali generate dalla crisi economica, aggravata dalla pandemia Covid-19, potranno sfociare in un nuovo autunno caldo. Invero, si evoca questa immagine laddove si voglia predire la replica di quella stagione di lotta che sicuramente rivoluzionò il mondo del lavoro e anche delle relazioni nella società. E se di cruenta rivoluzione non si trattava, si trattò di grandi e talora aggressive manifestazioni di massa, che portarono la classe operaia ad un protagonismo nelle fabbriche, un luogo dove, come nel messaggio marxista, essa si contrapponeva al padrone e finiva per essere vittoriosa nel conflitto sui salari e sull’organizzazione del lavoro.

Certo la classe operaia non spezzava le proprie catene, ma vinceva soprattutto nelle grandi fabbriche o nel settore pubblico, laddove il sindacato poteva gestire un contropotere, come allora si diceva, rispetto al potere imprenditoriale delegittimato. Mentre nelle piccole aziende industriali e dei servizi, con una manodopera prevalentemente femminile, si continuava a sottopagare e a lasciare il lavoro senza molte protezioni sociali. Comunque nell’immaginario sociale del momento, e ancora di quello attuale, l’autunno caldo rappresenta il movimento collettivo che con la sua forza contestataria ha preceduto e accompagnato grandi conquiste di diritti nel mondo del lavoro, e soprattutto la più importante riforma legislativa di quegli anni, lo Statuto dei lavoratori, la legge 300 del 1970.

Che, come ci dice Garimberti, oggi quello specifico movimento di contestazione e, insieme, di costruzione di un mondo rivoluzionato non sia più possibile, è vero. E non solo perché, come lui dice, i poteri e i contropoteri si fluidificano nel mercato, o perché non sia visibile il potere a cui contrapporsi. Il fatto è che sono molteplici le ragioni alla base delle forme di protesta, e. come l’osservazione storica ci suggerisce, queste ragioni si raggruppano secondo il tipo di scenario che genera malcontento e secondo gli attori sociali che si possono mobilitare per obiettivi rivendicativi. Ora, si può ipotizzare che, in questa prossima stagione autunnale, ci siano delle ragioni per manifestare malcontento e protesta, quindi cercheremo di individuarle e di caratterizzarle, ma con l’intento di mostrare la profonda diversità da quelle che hanno portato all’autunno caldo del passato.

Iniziamo dicendo che le manifestazioni dello scontento, delle delusioni, delle rivendicazioni sono diverse perché derivano dal cambiamento dello scenario economico e istituzionale e dalla mutata postura degli attori contrapposti. Perciò tracceremo, ma sommariamente, lo scenario, per intenderci quel luogo dove operano i signori Nessuno, sempre per citare i termini di Garimberti riportati in esergo, quei poteri cioè che oggi governano il mercato e la vita sociale. Tratteremo soprattutto degli attori che mettono in scena la protesta, e cercheremo di capire le caratteristiche dei protagonisti dell’autunno caldo e di quelli che oggi si presume siano potenziali contestatari, di cogliere la direzione verso cui questi indirizzano la loro voce.

Lo scenario dell’autunno caldo rappresentava un’epoca in cui il lavoro era centrale, cioè l’intera società era regolata sulla base del lavoro dipendente industriale, e la classe operaia era protagonista della forma di protesta più comune, l’interruzione del lavoro, perché sapeva di rendere vulnerabile la struttura produttiva ma soprattutto di essere legittimata ad essere conflittuale, riformista o rivoluzionaria. A quell’epoca, la conflittualità appariva in situazione espansiva, con una relazione positiva con il livello di prosperità economica, come aveva ipotizzato lo storico Hobsbawm. Nelle rivendicazioni sembrava esserci un effetto di rincorsa agli aumenti salariali ottenuti dalle varie categorie di lavoratori, ma soprattutto sembrava importante il ruolo mobilitativo e organizzativo dei sindacati, in ciò favoriti dal sistema politico pro-labour che legittimava e istituzionalizzava, anche regolandole, le forme della protesta.

Già subito dopo la rovente stagione sindacale, il sociologo Cella ipotizzava tre ordini di fattori che stavano deprimendo la protesta. Ed erano in primis l’influenza della disoccupazione, e poi sicuramente la trasformazione del rapporto di lavoro da dipendente a irregolare o atipico, ora si direbbe precario, che avrebbe cambiato lo scenario sociale e ridotto il potere negoziale dei lavoratori. Il terzo fattore sarebbe stato il declino dei settori industriali toccati dalle forme accese di conflittualità e quindi il cambiamento della posizione settoriale della popolazione attiva. In effetti, stava iniziando il processo di terziarizzazione dei conflitti con una peculiarità molto importante, quella che le manifestazioni di protesta non dovevano essere necessariamente quantitativamente rilevanti per essere socialmente dirompenti, come sottolineava Accornero.

Questo, in effetti, è lo scenario attuale. Il problema è che agli alti livelli di disoccupazione, in gran parte giovanile, alla larga diffusione del lavoro precario, al forte declino dei settori industriali tradizionali, a tutti questi fenomeni già individuati quando erano in nuce, si è aggiunto recentemente lo stato di emergenza sanitaria dovuto all’ondata dei contagi da coronavirus che sta provocando un collasso dell’economia, specie per i settori manifatturieri e il sistema dei trasporti, nondimeno per le attività professionali e commerciali. E nonostante ci siano state misure e interventi sul tessuto lavorativo e professionale da parte del governo, o della Comunità europea, nonostante siano state costituite taskforce per programmi di sviluppo sociale e economico, la situazione è davvero sotto stress.

A tutt’oggi non ci sono ulteriori restrizioni alle attività lavorative, scolastiche e ludiche ma le nuove ondate di contagi da coronavirus stanno prolungando le paure, il malcontento e una certa rabbia repressa sin dai primi mesi invernali fino alla fine dei mesi estivi. Sono evidenti gli effetti della pandemia sull’aumento stridente delle disuguaglianze sociali e economiche, sull’aumento dei soggetti già marginalizzati, come disoccupati, poveri, immigrati, «gli invisibili», come li chiama Roberta Bortone, una combattente giurista del lavoro. E ancora il governo non ha presentato un programma di aiuti sociali per i soggetti che navigano a vista nel mondo del lavoro e della vita, né ha ancora proposto un piano dell’economia e dell’occupazione che adotti valori nuovi rispetto a quelli che hanno evidentemente contribuito a rendere fragile l’immunità del sistema sociale e economico pre-Covid19.

È uno scenario di grande depressione sociale e economica e non privo di tensioni questo attuale. La ministra dell’Interno si è preoccupata che si potessero accendere focolai di forte conflittualità, quando alcune categorie di lavoratori hanno manifestato il malcontento, in maniera comunque limitata e senza grande impatto sociale. Il timore di manifestazioni di protesta nei mesi autunnali, un po’ come nella tradizione quando si pensava al rinnovo della contrattazione collettiva, è stato alimentato dal sindacalista Landini. Ha minacciato conflitti di lavoratori se si spegneranno alcune misure governative, come il blocco dei licenziamenti o la fine della cassa integrazione, peraltro con un fare inconsapevole della debolissima forza mobilitativa dei sindacati.

Questo è proprio lo scenario deprimente che, secondo le ricordate analisi storico-sociali, non dovrebbe accendere la paventata rivoluzione. Anche la morfologia sociale, che dovrebbe essere la forza motrice di una replica dell’autunno caldo, presenta tutte quelle caratteristiche che spengono o riducono le capacità di far sentire la propria voce per rivendicare misure di riduzione delle disuguaglianze e di incentivazione allo sviluppo economico, nel rispetto di diritti e di valori socialmente legittimati.

Infatti, vediamo che il declino della conflittualità è determinato, nel campo economico e sociale, dalla minore rilevanza dei settori tradizionali dell’industria, e dalla quasi scomparsa, in termini di egemonia, della classe di lavoratori salariati, tradizionali protagonisti delle manifestazioni da autunno caldo. Di contro, vediamo che l’emersione dei settori del terziario, come i servizi, il commercio, e di quelli coinvolti nell’evoluzione tecnologica e nelle reti digitalizzate, comporta una elevata diffusione di lavori instabili, temporanei e precari. Qui, i nuovi lavoratori, soprattutto giovani, mostrano di essere del tutto estranei alle modalità rivendicative della generazione che ha vissuto la passata stagione delle lotte.

Come possiamo desumere da alcune ricerche sulle trasformazioni del lavoro e sui comportamenti di consumo dei giovani, condotte negli ultimi dieci anni da gruppi di sociologi di diverse università, non solo italiane, molti di questi giovani percepiscono il lavoro come un’attività centrale nella propria biografia solo se vissuta al di fuori di ogni rapporto di subordinazione e anzi solo se mossa da passione, insomma se rientra in un progetto di vita instabile ma autonomo. Tra questi giovani, generalmente istruiti e con alti livelli di capitale sociale e economico, molti mostrano attitudini a manifestare, ma poi raramente manifestano nelle piazze, spesso lo fanno in piccoli gruppi e se vanno in piazza e riescono a attrarre molti cittadini per adesione ideologica, queste manifestazioni non sembrano avere neanche la durata di una stagione.

Abbiamo notato che questi giovani lavoratori manifestano contro obiettivi di sfruttamento sociale capitalistico, talvolta le loro proteste sono indirizzate a istituzioni come università o governo, raramente contro datori di lavoro per ottenere migliori condizioni di lavoro ancorché precario. Una inedita forma di protesta, questa sì di lunga durata, che è individuale ma allo stesso tempo collettiva, portata avanti da gruppi identificabili nella società e nel territorio, è il nuovo modo di consumare e di vivere, avendo una attenzione alla salvaguardia della salute, degli animali, dell’ambiente naturale. Non si può sottacere delle manifestazioni con leader giovanissimi contro l’inquinamento e la distruzione del pianeta.

Ma è interessante rilevare, anche leggendo i risultati delle stesse ricerche, che, tra i giovani lavoratori precari, quelli che hanno un basso livello di capitale culturale e economico protestano in maniera privata, per dirla in altri termini manifestano il proprio malcontento e la propria rabbia su problemi relativi alle esigenze non soddisfatte della vita quotidiana. Sono giovani che indirizzano la propria rabbia generalmente contro il governo, contro le istituzioni, certo anche contro una politica che enfatizza piuttosto che ridurre le disuguaglianze, le deprivazioni e le povertà. Il bersaglio difficilmente viene personalizzato in uno specifico datore di lavoro, se si personalizza questi protestatari si ritorcono verso se stessi, verso la mancanza di proprie risorse, e persino si colpevolizzano.

Allora, per terminare, possiamo certamente dire che ci troviamo in uno scenario di grande depressione, in cui i signori Nessuno, quelli che noi chiamiamo così come li chiama Garimberti, non hanno la capacità o la volontà di formulare un progetto che tenda a non produrre disuguaglianze stridenti nel campo sociale e economico, in modo da spegnere un po’ il fuoco del malcontento diffuso e anche della rabbia sociale. Ma ci ritroviamo anche di fronte ad una sorta di mutazione antropologica dei lavoratori, giovani non più consoni e pronti a rivendicazioni da autunno caldo, ma a forme inedite di proteste, che potremmo perciò considerare rivoluzionarie, rispetto alle quali le istituzioni sindacali e politiche dovrebbero attrezzarsi per ascoltarle, comprenderle e operare perché si diano delle risposte adeguate.

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