Le idee di cui è venuto il momento sono vecchie, familiari, ben collaudate.
Sono le idee nuove che hanno fatto il loro tempo
Timothy Garton Ash
Nelle ultime settimane abbiamo sviluppato riflessioni e avviato un dibattito sul cosiddetto smart-working, che noi chiamiamo lavoro agile.
Da circa due mesi gli italiani sono agli arresti domiciliari ed in un certo senso lo sono milioni di lavoratori e lavoratrici, anche in questo 1 maggio che vorrebbero onorare fisicamente ritrovandosi: un giorno si sono visti chiedere dalla loro azienda e indirettamente dal Governo di restare a casa, continuando a lavorare con un pc e un collegamento internet.
Questo tipo di prestazione lavorativa non è nato in questi giorni di emergenza sanitaria. Sono molte le aziende che in Italia ed Europa adottano tale modello, ancorché in maniera mediamente residuale, almeno per quel che riguarda i lavoratori dipendenti.
Si calcola che non più di mezzo milione di lavoratori in Italia lavorino a distanza, o comunque alternando presenza in azienda e lavoro da remoto, che è invece più sviluppato per le prestazioni al confine tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, che sono parecchio cresciute negli ultimi anni e che presentano profili di ambiguità, da un punto di vista sia giuslavoristico che sociale, che avremo modo di analizzare più in profondità con dibattiti ed eventi ad hoc che abbiamo programmato.
La prima considerazione che è stata fatta è che parliamo solo di una forma di organizzazione del lavoro più flessibile, regolata da un accordo azienda/lavoratore e non certo di una nuova tipologia di contratto di lavoro. Se una modalità di organizzare il lavoro è gradita dall’imprenditore e volentieri accettata dal lavoratore e/o viceversa, non devono in linea di principio sorgere problemi in ordine alla sua libera attuazione, giacché si verifica una convergenza di interessi che è sempre il massimo grado di maturità in questa dialettica.
Tuttavia, in questo inatteso periodo che stiamo vivendo, il lavoro agile non è una scelta ma una necessità, non necessariamente gradita dai datori di lavoro e dai lavoratori e dunque mette in discussione il principio fondante delle nostre relazioni sociali: la libertà.
Può non essere gradita dai datori di lavoro, che perdono una buona parte della loro capacità di controllo sulla prestazione e sul rendimento del lavoratore, come ha ben osservato Mirella Giannini; può non essere gradito dal lavoratore e dal suo sindacato, perché la distanza fisica ridimensiona o addirittura compromette del tutto la stessa esistenza dei lavoratori come comunità e come gruppo sociale.
Non mi sembra convincente la teoria secondo la quale la comunità sopravvive a distanza grazie alla tecnologia: non tutti lavorano nella stessa fascia oraria, non tutti si collegano in rete contemporaneamente, ognuno si organizza il proprio lavoro e la frantumazione diventa così inevitabile.
Aris Accornero ebbe a sostenere – e io condivido – che la professionalità e la stessa produttività del lavoratore non hanno più molto senso in quanto tali, ma assumono un significato solo quando si esprimono e si misurano in un gruppo di lavoro, nell’ottica delle competenze integrate, come pezzi di un motore che presi singolarmente non hanno senso e valore, ma che insieme fanno camminare una macchina. Molte aziende hanno adottato, anche con successo, modelli integrati di questo tipo, che però sono più difficilmente replicabili in modalità smart-working.
É come se, dopo aver ripensato i modelli organizzativi con un’ispirazione più per processi che per compiti singoli, si stia gradualmente tornando all’individuo e, in un certo senso, alla sua solitudine di fronte al compito lavorativo che gli è stato assegnato.
Va tuttavia considerato che il lavoro agile, che in definitiva significa lavorare almeno in parte altrove, è una prospettiva che – Covid-19 o meno – è destinata presumibilmente ad affiancare le tradizionali prestazioni lavorative in maniera crescente. L’emergenza che stiamo vivendo potrà probabilmente essere un robusto colpo di acceleratore ed a questa accelerazione si dovrà rispondere con i necessari adeguamenti in tema di relazioni industriali e sindacali.
Come ha osservato Giuseppe Gentile, lo smart-working in tempi di coronavirus proprio smart-working non è, appunto perché viene meno il carattere di libera scelta delle parti, il dove e il quando, fondamenti della legge che in Italia lo regola.
In ogni caso non da oggi le nuove tecnologie hanno cambiato e stanno cambiando il nostro modo di lavorare e, come ogni rivoluzione, tale radicale cambiamento presenta o può presentare aspetti sia positivi che regressivi.
A titolo esemplificativo, il lavoratore o la lavoratrice che organizzano il loro lavoro in relativa autonomia possono godere di maggiore libertà e indipendenza e meglio conciliare, trovando un migliore equilibrio, i tempi di vita con quelli di lavoro unitamente, come ha osservato Giannini, ad un beneficio per l’ambiente derivante dalla contrazione degli spostamenti delle persone.
D’altra parte, lavorare da casa in solitudine può rappresentare un regresso, perché la solitudine limita il confronto, elimina le riunioni, le strette di mano e la fisicità e la comunità sociale dei lavoratori tende così a scomparire, parcellizzata e dispersa, con ricadute inevitabili sul ruolo e la stessa tenuta del sindacato, che resta pur sempre un protagonista collettivo dal quale non si può ancora prescindere.
Senza contare che l’abbattimento del confine tra vita privata e vita lavorativa non credo sia e non credo possa essere una grande conquista: le due dimensioni si mescolano, si diventa sempre reperibili e dubito che la qualità della vita, a lungo andare, ne guadagni. O per lo meno il rischio esiste.
In tutto questo, le ricadute sulle relazioni sindacali non mi paiono di poco conto, in primo luogo perché, nel lavoro agile e a distanza, non scompare del tutto ma si ridimensiona un elemento fondamentale della contrattualistica collettiva del lavoro: l’orario di lavoro, che ironia della sorte è l’elemento che animò le lotte del 1 maggio, orientate all’ottenimento di una sua riduzione.
James Champy e Michael Hammer, circa vent’anni fa, non ancora influenzati dallo sviluppo dello smart-working ma semplicemente prevedendo un futuro diverso, nel loro importantissimo saggio Ripensare l’azienda sostennero fra l’altro che «non verremo più pagati per il tempo passato in ufficio, ma per il valore creato per l’organizzazione di cui facciamo parte». Questo è il vero punto: al controllo si sostituisce l’autonomia e la responsabilità; alla quantità la qualità.
La misurazione del valore creato (anche lavorando a distanza) e, di conseguenza, del giusto salario da riconoscere al lavoratore o alla lavoratrice è la vera sfida, anche per le organizzazioni sindacali, perché tenderà inevitabilmente a differenziarsi a seconda dei risultati raggiunti, superando la tradizionale uniformità contenuta nei contratti collettivi. É il caso di ricordare che la prevalenza, per definire l’ammontare del salario, delle ore lavorate (quantità) sulla produttività e sulla performance del lavoratore (qualità) è una delle cause che ha uniformato, principalmente nel nostro Paese, i livelli salariali verso il basso.
La refrattarietà, nel nostro sistema di relazioni sindacali, a sottoporre il lavoratore allo stressa da valutazione andrà superata; e andrà superata la diffidenza tradizionale, per timori di arbìtri, del chi valuta chi, mettendo a punto strumento condivisi e affidabili.
É senz’altro tempo – ed il coronavirus ci dà un’inattesa spinta in questo senso – di cominciare ad assumere nuovi modelli organizzativi concertati, senza sostituire del tutto, bene inteso, il lavoro tradizionale e nuove forme e parametri di misurazione del rapporto fra produttività e salario. Ed anzi, se il lavoro agile si svilupperà in maniera crescente, è una sfida dalla quale diverrà impossibile sottrarsi, guardando inevitabilmente al risultato ottenuto più che al tempo lavorato.
Più controverso, allo stato attuale, è il rapporto fra lavoro agile e produttività. Marta Angelici e Paola Profeta hanno pubblicato di recente un’indagine seguendo un campione di 300 lavoratori, sia uomini che donne e mettendoli a confronto con altri che non svolgevano lavoro a distanza, controllando gli effetti su benessere, equilibrio vita privata/lavoro e appunto produttività.
Sulle prime due dimensioni si notano ricadute, per il momento, sostanzialmente positive, anche per le regioni che sommariamente abbiamo detto; sulla produttività viene sottolineato che non diminuisce (di fatto sentenziando una sostanziale parità), mettendo in evidenza una maggiore propensione delle donne, che non sorprende, a concentrarsi sul risultato da ottenere.
Torniamo al punto di partenza: tutto si può fare se rappresenta una libera scelta delle parti in gioco, tutto si può fare se adeguatamente governato e regolato. Ed un rinnovato ruolo delle organizzazioni sindacali assume una valenza cruciale, non tanto o non solo nella tradizionale difesa dei diritti, quanto nel concordare con l’imprenditore modalità di lavoro agile che possano promuovere l’intelligenza creativa e la professionalità dei lavoratori e adottando ogni accorgimento perché il lavoro agile non sia frustrazione, isolamento, solitudine o anche discriminazione (per esempio allontanare dall’azienda un lavoratore o una lavoratrice scomodi senza imbarcarsi in un provvedimento di licenziamento); ma coinvolgimento, responsabilità, giuste gratificazioni.
Come sostiene Maurizio Del Conte, il primo studioso che si è occupato di regolamentare per legge il lavoro agile, al lavoratore vanno garantite le migliori condizioni per svolgerlo e quindi esprimersi senza arbitrii e discriminazioni: concertazione, chiari obiettivi da raggiungere, diritti, doveri, informazioni necessarie, insieme ad una strumentazione tecnologica adeguata per lavorare secondo gli obiettivi che insieme ci si è dati.
Tutte queste considerazioni potevano tranquillamente essere fatte prima dell’emergenza da coronavirus; oggi diventano viepiù attuali, prché passata l’emergenza anche le organizzazioni del lavoro non saranno più, presumibilmente, le stesse.