Lavoro e intelligenza artificiale: rischi e opportunità di uno scenario inevitabile

Giuseppe Gentile

Nel dibattito politico e sindacale italiano si discute da tempo delle grandi trasformazioni del mercato lavoro, delle sue infrastrutture e regole di funzionamento.
Le questioni sollevate assumono una connotazione interdisciplinare, proiettando le riflessioni dalla dimensione propria del diritto del lavoro, in cui probabilmente immergono le radici più profonde, ad altre scienze giuridiche e a quelle economiche, aziendali e sociologiche.

E pongono interrogativi oramai imprescindibili: com’è cambiato il lavoro negli ultimi anni?

Come cambierà, da qui ai prossimi cinque-dieci anni?

Quali nuove competenze si richiedono, e come intraprendere percorsi di costruzione di nuove figure professionali di cui il sistema produttivo necessiterà nel prossimo futuro?

Questioni che si collocano nel complicato percorso di innovazione convergente con gli obiettivi ottimistici del PNRR; o forse utopistici, se, come appare evidente, la sfida di ammodernamento del Paese, dei suoi multiformi sistemi produttivi, ma anche degli apparati della pubblica amministrazione, è già tutta in salita.

Queste riflessioni non sfuggono ad una ulteriore considerazione di contesto: viviamo nel pieno della quarta rivoluzione industriale che rappresenta lo stadio evolutivo della rivoluzione digitale già avviata nell’ultimo ventennio, ed è caratterizzata dall’emergere di nuove tecnologie, l’Intelligenza artificiale, l’interfaccia uomo-macchina, o l’internet of things, che stanno trasformando in modo sostanziale i processi produttivi, con profonde conseguenze anche sul piano economico, occupazionale e dunque sociale.

L’Intelligenza Artificiale (IA) sta diventando sempre più pervasiva, segnando in maniera prepotente la transizione verso un nuovo paradigma dell’interazione uomo-macchina, fondato non più sul controllo del primo sulla seconda, ma su una interazione e collaborazione paritaria con la stessa: le macchine sono dotate di un certo grado di autonomia decisionale, indipendente da quella umana; sistemi intelligenti che, differentemente dalla tecnologia algoritmica tradizionale, detengono una reale capacità di apprendimento.

Su questo tema, è di recente pubblicazione uno studio dell’INAPP che, partendo da alcune ricerche della letteratura nord-americana e adattandone le metodologie empiriche al contesto italiano, fornisce un quadro dettagliato e oggettivo della esposizione delle distinte attività economiche e occupazioni lavorative all’IA, (INAPP, Lavoro e Intelligenza artificiale in Italia: tra opportunità e rischio di sostituzione, Settembre 2024).

Il quadro che emerge è alquanto intuibile: le professioni meno esposte all’IA sono quelle che richiedono l’impiego di attività manuali o che fanno leva su caratteristiche fisiche o su attività creative e artistiche (manovali, intonacatori, atleti); più esposte, invece, sono quelle che coinvolgono ruoli di concetto (addetti al protocollo o allo smistamento di documenti) ma anche professioni più qualificate, come direttori generali, dipartimentali e figure apicali.

L’indice di esposizione, invero, è neutro: non calcola, cioè, se l’IA possa determinare benefici (in termini di ottimizzazione dei tempi di lavoro) o effetti negativi (in termini sostitutivi dei lavoratori). Tuttavia, si dà per certo che le occupazioni caratterizzate da una elevata componente routinaria, minori responsabilità e criticità, sono tra le più vulnerabili alla perdita di posti di lavoro, e, dunque, maggiormente esposte ad effetti distruttivi.

Ora, si può discettare sulla attendibilità di questi studi, che presentano diversi limiti. Innanzitutto, perché non tengono conto della capacità dell’IA di generare nuovi posti di lavoro, e di accelerare molte attività oggi svolte in modo tradizionale. E poi perché ragionano su un mercato del lavoro statico, non considerando, cioè, che l’avanzamento tecnologico indurrà le professioni maggiormente esposte ad affrontare la sfida dell’apprendimento (adattamento), generando la consapevolezza che l’IA debba essere vissuta anche come uno strumento (di avanzamento dei processi di lavoro) e non soltanto come fonte di rischio sostitutivo.

Tuttavia, non si può negare che il fenomeno sia già presente, come dimostrano le proteste di alcune categorie in più parti del modo: dalla Spagna (i disegnatori artistici, fumettisti e illustratori contro l’uso massivo dell’IA nella loro attività), agli Stati Uniti d’America (vedi lo sciopero, per più di 5 mesi, ad Hollywood dei sceneggiatori, proclamato dal Sindacato Writers Guild of America che rappresenta 11mila iscritti, contro l’utilizzo dell’IA nella progettazione, scrittura e ambientazione dei film e delle commedie teatrali), ma anche in Italia (è notizia recente l’installazione in alcuni Musei di robot museali intelligenti in grado di svolgere attività di guida e di rispondere alle domande dei visitatori).

Non è un caso, quindi, che il potenziale impatto dell’IA sui diritti sociali, ma anche sulle regole di libera concorrenza tra le imprese, abbia esortato l’Unione Europea a varare un apposito Regolamento (AI Act 1689/2024/UE), di cui non è ancora chiaro il plusvalore giuridico, ma è invece ben evidente il primato politico: l’Unione europea è detentrice della prima legge al mondo sull’utilizzo professionale di sistemi di IA; una mossa strategica di grande impatto che, inevitabilmente, potrà incidere sulle scelte dei players mondiali del settore.

Venendo ai riflessi interni, non è facile comprendere quale sarà l’impatto dell’IA sul sistema produttivo italiano, e su un mercato del lavoro già afflitto da profonde fragilità e ampi divari sociali, territoriali, generazionali e di genere.
Sicuramente trasformerà la maggior parte degli attuali posti di lavoro, distruggendone moltissimi. La sfida è riuscire a crearne altrettanti, favorendo un processo di turn over occupazionale che implicherà forti investimenti nelle nuove competenze e professionalità di cui il Paese avrà bisogno.

E allora, la leva strategica su cui occorrerà concentrare risorse ed energie è proprio il sistema di formazione delle competenze professionali di qualità.

Lo scenario, qui, è abbastanza deficitario: i Fondi interprofessionali raccolgono e investono ogni anno circa 700 milioni di euro, pari a meno di un quinto dell’omologo fondo francese, che raccoglie circa 4 miliardi. Senza tralasciare la condizione in cui versano i Sistemi Regionali di Formazione: essi dovrebbero favorire una effettiva «governance di formazione territoriale», a presidio dei bisogni di professionalità e competenze richieste dalle imprese di un dato territorio, per scongiurare quei fenomeni di skill shortage, veri e propri giacimenti occupazionali inespressi, centinaia di migliaia di posti di lavoro permanentemente scoperti per mancanza delle persone adatte a ricoprirli, che da decenni caratterizzano il nostro mercato del lavoro.

Siamo un Paese che fatica a star dietro all’innovazione: sebbene abbia nel lavoro la sua fondamentale ricchezza, al di là dei numeri (alquanto positivi) sul recente andamento occupazionale, l’Italia ha soprattutto un problema di qualità del lavoro, che si riverbera inevitabilmente, in negativo, sui salari (tra i più bassi d’Europa, e certamente i più bassi in termini di crescita esponenziale).

Il sistema produttivo italiano continua a caratterizzarsi per indici di economicità (basati sul costo del lavoro contenuto), puntando (troppo) poco sull’innovazione (anche tecnologica), sulla formazione professionale e sulla crescita delle competenze e dei contenuti tecnici del lavoro.

È da qui che occorrerebbe ripartire investendo risorse e governance, prima che l’ultimo treno (il PNRR) ultimi la sua corsa.

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