Le grandi dimissioni e la fuga dai concorsi pubblici: cosa c’è di vero

Nel corso degli ultimi due anni, coincidenti con la fine del lungo e asfittico periodo di distanziamento sociale imposto dall’emergenza pandemica, il mercato del lavoro italiano si è caratterizzato per fenomeni del tutto inconsueti rispetto al passato.

Uno di essi ha riguardato le «dimissioni di massa» (o «grandi dimissioni»): quasi 2 milioni e 200 mila quelle registrate nel 2022, con un aumento del 13,8% rispetto al 2021 quando in totale le dimissioni erano state 1 milione 930 mila (anche qui con una crescita del 33% sul 2020 e del 19% sul 2019). Rispetto al periodo pre-pandemico, le dimissioni volontarie hanno rappresentato il 67% delle cessazioni totali dei rapporti di lavoro, dunque surclassando ampiamente le risoluzioni datoriali (dati INPS marzo 2023).

Un trend inesorabile che non è passato inosservato, meritando le attenzioni e le analisi di molti commentatori e network di ricerca, oltre che del mondo sindacale ed imprenditoriale.

Si è trattato, invero, di un fenomeno non soltanto italiano che, anzi, è apparso per la prima volta nell’estate 2021 negli Stati Uniti (great resignation) per poi allargarsi anche in Europa.

A richiamare le attenzioni al fenomeno è stato anche un più recente studio del Politecnico di Milano che, analizzando alcuni dati-campione, ha concluso che tra i principali motivi che hanno condotto alle dimissioni volontarie di massa vi sarebbe: per il 25% (circa un lavoratore su quattro) la ricerca di modalità di lavoro più agili; mentre, dato ancora più critico, circa l’83% del campione intervistato ha ammesso motivazioni ricercate anche e soprattutto nel malessere emotivo, dato dall’assenza di riconoscimenti di merito, e dal non sentirsi propriamente allineati ai valori dell’azienda. Il livello di engagement dei lavoratori è ai minimi storici, con solo il 14% dei lavoratori intervistati che si sente pienamente coinvolto nelle dinamiche del contesto lavorativo e professionale di appartenenza (Osservatorio HR Innovation Practice – School of Management del Politecnico di Milano).

Infine, i maggiori infedeli delle aziende sono risultati i millennials, ossia chi oggi ha tra 25 e 40 anni.

Questi dati, solo approssimativamente rappresentativi delle reali (e iper-mutevoli) tendenze evolutive del mercato del lavoro italiano, hanno imposto molte riflessioni su come le aziende intenderanno gestire con una maggiore trazione motivazionale il capitale umano, ad esempio ricorrendo a modalità remote o smart-working; mentre emergono grandi difficoltà nell’attrarre le migliori competenze professionali, oggi sempre più connaturate alla transizione digitale, necessarie ad aggiornare il proprio know-how alle esigenze del settore di appartenenza.

Per altro verso, non può non includersi in tale ragionamento anche l’andamento negativo dei concorsi pubblici, un vero e proprio flop che è andato ripetendosi dal 2021 in avanti: al fallimento del Concorso Sud 2021 (bando per 2.800 funzionari con appena 821 assunti), ha fatto seguito l’esito tutt’altro che positivo del Concorso Coesione 2022 (bando per 2.022 posti con 728 idonei alla prova scritta).

Dati che hanno imposto, anche qui, una riflessione sulle ragioni che hanno persuaso migliaia di potenziali candidati a rinunciare all’accesso ad un impiego pubblico.

Una notizia salutata con un certo iniziale stupore, ove si consideri che, sin qui, si era indotti a ritenere che la fuga dal concorso, fenomeno non propriamente nuovo, nascesse dalle modalità sclerotizzate con le quali sono stati banditi per decenni i concorsi pubblici dalle amministrazioni italiane. La recente fuga dai concorsi, invero, è avvenuta a fronte di procedure selettive oramai iper-semplificate dalla decretazione normativa del PNRR, il che rende la lettura dei dati sulla desertificazione dei concorsi ancora più complessa.

Evidentemente in questa occasione hanno pesato alcune decisioni non propriamente comprensibili del recente legislatore (il Governo Draghi).

Il ricorso esclusivo al contratto a tempo determinato per favorire l’innesto di nuove professionalità di alto profilo, utili alla «messa a terra» del PNRR, si è rivelata una previsione sbagliata: desta perplessità la scelta di colmare gli enormi vuoti di organico degli apparati pubblici, ancora stremati dalla pesante cura del blocco del turn over degli anni 2000, con uno straordinario piano assunzionale destinato al potenziamento della capacità organizzativa delle amministrazioni pubbliche, per mezzo, però, di contratti di lavoro di durata triennale.

Oltretutto, la scelta di reclutare personale a tempo determinato espone l’amministrazione pubblica al rischio di acquisire risorse, inserirle negli uffici, professionalizzarle, e, poi, vederle andar via in quanto vincitrici di altro concorso a tempo indeterminato ovvero, più facilmente, assunte presso imprese private.

Ad ogni modo, non è questo l’unico fattore ad aver contribuito ad un affievolimento delle aspettative di potenziali candidati, dovendosi riconnettere ad una questione più complessa e generale che riguarda, oggi, una minore attrattività della pubblica amministrazione, quantomeno per le figure professionali più qualificate e rispetto ad alcune aree territoriali del paese: condizioni di inquadramento iniziali e bassi livelli retributivi, assenza di autonomia, inesistente dinamicità nei contesti organizzativi, unitamente alla scarsa possibilità di carriera costituiscono ulteriori valide ragioni per cui, con le dovute e opportune eccezioni, i migliori talenti rinunciano ad un impiego pubblico, se non addirittura lo lasciano per intraprendere nuove attività professionali.

Queste brevi riflessioni inducono a ritenere che oggi, a differenza che in passato, al centro del processo di selezione non vi è più il datore di lavoro (pubblico o privato) ma il lavoratore, il quale nella maggioranza dei casi risulta attratto da un ambiente in cui possa abbinare le proprie aspirazioni professionali con quelle personali, e non dalla semplice stabilità occupazionale.

Vi è dunque una questione che si pone a monte delle politiche di selezione del personale: la definizione di una proposta di valore che renda il lavoro dipendente un luogo in cui valga la pena misurarsi e non una scelta di ripiego. Lo sviluppo socio-economico del Paese richiede una attenzione costante ed una rapida capacità adattativa, al fine di evitare lo scollamento tra dato reale e dato ideale che per troppo tempo si è riscontrato nelle politiche assunzionali pubbliche e private, e che rende alcune occupazioni poco appetibili proprio agli occhi di quelle figure di alta specializzazione ed elevata professionalità che, sia le aziende private che le pubbliche amministrazioni, vanno freneticamente inseguendo.

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