Le indagini di Lolita Lobosco, un caso di fiction italiana

Giorgio Simonelli

Cominciamo da un aneddoto spero non insignificante. Era una sera dolce di fine estate e ci trovavamo sulla terrazza della Fondazione Di Vagno a Conversano per l’ultima serata dell’edizione 2021 di Lector in fabula, dedicata agli eroi e antieroi. Si parlava tra critici e sceneggiatrici di eroi (ed eroine) della fiction televisiva, il tutto coordinato da Oscar Buonamano. A un certo punto, a proposito di eroine, mi capita di fare un cenno a Lolita Lobosco. Dalla platea sempre folta e partecipe come accade a Conversano, si leva un sospiro di disappunto e di sufficienza.

Lolita non è molto popolare presso un pubblico di profilo culturale levato, molto coinvolto nelle attività della società civile e che, per di più conosce bene nella realtà i luoghi, i paesaggi, la varia umanità e l’accento descritti nella fiction. E forse si possono comprendere i motivi di tanto scetticismo. Lolita Lobosco può sembrare una serie un po’ ruffiana.

Ci sono un sacco di elementi che legittimano questo sospetto: c’è Bari con la città vecchia, il lungomare e i dintorni tutti luoghi affascinanti  visti dall’altezza del drone; c’è il folklore del fruttivendolo con il motocarro e la storia d’amore un po’ caramellosa con la mamma di Lolita; ci sono i cliché del conflitto fra tradizione e modernità con il poliziotto bello di mamma tutta chiesa e cucina pugliese innamorato della meccanica vegana e buddista; c’è il politicamente corretto sparso a piene mani nelle rivendicazioni femminili di Lolita, ma anche di Porzia e di alcune malcapitate e in altre varie situazioni di sopruso dei potenti o di riscatto dei più deboli.

Tutto ciò sarebbe sufficiente, nell’ottica dei detrattori, a garantire quel sorprendente risultato di audience attorno al 30%: per la precisione sopra il 30 all’inizio, poi qualche punto sotto e infine di nuovo alle soglie del 30 per la puntata finale che si pensava avrebbe potuto scontare le conseguenze dell’abbuffata sanremese.

E qui bisogna riflettere: perché se è vero che un’audience elevata non è sempre sinonimo di qualità, io sono dell’avviso che quando un prodotto supera quel 20/25% ottenuto da parecchie fiction di Rai 1, allora ci sia di mezzo qualcosa di speciale, una sorta di magia o meglio di incantesimo, per citare il famoso testo di Luisella Bolla sulla fiction italiana.

L’incantesimo nella serie di Lolita Lobosco viene certo dal paesaggio che però non è solo cartolina, ma anche scoperta e sfondo coerente con le vicende. Ma non trascurerei la profondità nella costruzione di un personaggio come Antonio o l’ironia diffusa attorno a Lello.

A proposito dei quali c’è sottolineare il livello delle interpretazioni anche dei comprimari che non sfigurano di fronte alla performance stellare di Luisa Ranieri, all’ intensità dei suoi diversissimi primi piani.

Infine, c’è la detection story, la trama gialla forse un po’ troppo spesso interrotta dall’invadenza delle vicende sentimentali ma in grado di incuriosire lo spettatore sia nella ricerca del colpevole sia per la collocazione in ambienti inconsueti.

Insomma, Le indagini di Lolita Lobosco non è affatto quel prodotto medio che da qualche parte viene snobbato, ma un caso di fiction italiana (tecnicamente si può definire uno sceneggiato) da osservare con attenzione, una serie in cui, tra l’altro, emerge di tanto intanto una graditissima presenza di raffinata cultura cinematografica: in quale altra serie italiana o straniera è mai accaduto di trovare riferimenti a Truffaut e alla nouvelle vague?

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