Le luci della centrale

Per diversi anni ho fatto la spola tra Pescara e la Romagna, solcando le nostre autostrade per poi addentrarmi nel reticolo di strade semi poderali che suddividono la porzione di pianura padana che arriva al mare. Un dedalo metafisico in cui a quadranti di campi estensivi si avvicendano tasselli di tessuto urbano ed inserti di agrotecnologie applicate.

Lo stesso percorso, fatto con il treno, scopre una faccia diversa, un retro operaio di questa terra laboriosa, un paesaggio tratteggiato dai materiali accatastati lungo la linea ferroviaria, un paesaggio postmoderno che mi ricorda i racconti di Pier Vittorio Tondelli contenuti in quel meraviglioso volume del 1990 che è Un Weekend postmoderno. Un paesaggio che appartiene al mio Adriatico, che appare tra le nebbie di Verso la foce di Gianni Celati.

Il paesaggio è un tratto importante del nostro lavoro, i tratti somatici di questo territorio sono la sedimentazione di una storia collettiva, sociale, economica, scritta nei solchi della terra. Tutto il nostro lavoro parte da tutto questo, un progetto sociale, prima ancora che architettonico ed ingegneristico. Definirei il mio lavoro come un’arte tattile, sentire il suolo per poi plasmarsi in edifici/territorio/paesaggio e tornare ad essere suolo, in ultima istanza paesaggio.

Ma partiamo dall’inizio.

La chiusura in Italia di molti zuccherifici è stata determinata dalla riforma comunitaria dellOrganizzazione Comune di Mercato zucchero (OCM zucchero) varata a novembre 2005 dai ministri dell’agricoltura della UE.

La drastica riduzione del prezzo di riferimento dello zucchero e conseguentemente delle bietole, sancita dalla nuova normativa, ha comportato la rinuncia di oltre il 75% della quota di produzione di zucchero in Italia, attraverso la chiusura di 15 impianti su 19.

Al fine di ridurre l’impatto economico e sociale di questa riforma, il Governo italiano ha emanato la legge 81 del 2006 che prevede la predisposizione di un Piano nazionale di ristrutturazione del settore bieticolo-saccarifero e l’obbligo per le imprese saccarifere di predisporre dei piani di riconversione.

Coerentemente con queste previsioni Eridania Sadam (controllata al tempo dal Gruppo Industriale Maccaferri con sede in Bologna) ha predisposto e avviato i progetti di riconversione sui sei impianti chiusi; per cinque di questi il progetto prevede la realizzazione di centrali per la produzione di energia da fonti rinnovabili alimentate attraverso filiere agro-energetiche.

Viene avviato un progetto sociale molto importante che parte dal territorio: Riconvertire la filiera di coltivazione della barbabietola in filiera per la coltivazione di pioppo da cippato.

Lo schema è molto semplice, gli ettari coltivati a barbabietole nella filiera bieticolo saccarifera saranno adesso coltivati ad alberi. La legna dovrà provenire da una filiera corta del raggio di 70 Km e opportunamente ridotta in scaglie, sarà bruciata in un caminetto industriale (caldaia) che è in grado di produrre energia.

Gli alberi, che assorbono anidride carbonica durante la crescita e la rilasciano durante la combustione, permettono la produzione di energia rinnovabile.

La quantità annua di energia prodotta, 220 GWh, corrispondente al fabbisogno di 84.000 famiglie, sostituisce l’uso di combustibile fossile e quindi riduce la quantità di anidride carbonica immessa nell’aria di circa 120.000 t. Così facendo i valori positivi insiti nel progetto sono di interesse generale e locale.

Dal punto di vista generale, oltre a ridurre la quantità di anidride carbonica immessa nell’aria contribuendo al raggiungimento degli obiettivi dichiarati nel protocollo di Kyoto, si contribuisce a ridurre la cronica dipendenza energetica italiana da fonti provenienti dall’estero. Dal punto di vista locale la creazione di una nuova filiera agroindustriale consente di creare ricchezza riversando sul territorio ingenti quantità di risorse. Oltre agli agricoltori, anche i contoterzisti, i trasportatori e tutti gli altri operatori di filiera verranno protetti. Secondo quanto riportato dalla letteratura specialistica tutta la filiera (agricola e tecnica) si stima occupi circa 350 persone.

Il progetto ha preso in carico tutte queste istanze cercando di trasformarle in architettura.

Abbiamo iniziato da subito a lavorare con il paesaggio, immaginando questo intervento di transizione industriale come la scommessa per mettere in campo un progetto di rigenerazione territoriale. L’intera area di intervento si estende per circa 47 ettari posti a nord-ovest della città di Russi (alle porte di Ravenna) a ridosso dell’argine del fiume Lamone.

Una porzione considerevole dell’area (28 ettari) viene rinaturalizzata e restituita alla collettività come parco naturalistico, in quest’area nidifica il cavaliere d’Italia, soltanto su una residua porzione di suolo già occupato dai manufatti dell’ex zuccherificio di circa 16 ettari viene effettuata una bonifica e progettato il nuovo polo per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.

Dal progetto sociale a quello architettonico, di nuovo il paesaggio è stato ispiratore e suggeritore delle soluzioni architettoniche che prendevano forma.

I bordi dell’area sono pensati come dei terrapieni di altezza variabile che definiscono il margine dell’intervento e l’interfaccia tra i due ambiti. Una sorta di bastione contemporaneo che termina con la grande collina/ingresso da cui si staglia il corpo principale dell’edificio caldaia; un dispositivo ambientale a bassa tecnologia che ha origine dal disegno del suolo che funge da punto di interfaccia tra l’area rurale e quella industriale.

Il progetto rappresenta la crasi tra il mondo agricolo circostante e quello energetico.

Una delle scommesse del nostro lavoro è stata proprio questa, provare a fare architettura anche con un intervento brutto sporco e cattivo con una preponderante connotazione impiantistica.

Obiettivo non secondario del progetto è stato quello di mettere a fuoco un’architettura adatta a rappresentare una centrale agroenergetica. Mi piace utilizzare il termine architettura adatta, così come mi piace il concetto di adeguatezza che dovrebbe essere proprio del nostro lavoro e di tutti i lavori. Non solo esatto, ma adeguato.

Definito il sistema del terrapieno verde che si srotola dal margine del fiume Lamone fino a via Carrarone, nel momento in cui abbiamo posizionato l’edificio principale della centrale, edificio caldaia e linea fumi, è nata l’idea che questa architettura dovesse rappresentare la metamorfosi di un manufatto rurale che si ibrida con l’anima industriale/tecnologica della centrale. La scomposizione percettiva di questo edificio dalle dimensioni considerevoli è stata posta come tema progettuale. Così come il paesaggio ibrido che avevamo sotto gli occhi abbiamo iniziato a combinare tutte queste parti individuandone le possibili intersezioni, semantiche e figurative, con delle esperienze artistiche che sperimentavano tecniche di dissimulazione percettiva.

Un progetto di innesto
La tecnica di camuffamento Razzle Dazzle, ispirata dall’arte cubista e sviluppata in ambito navale durante la Grande Guerra, è estremante interessante e il suo studio ci ha permesso di sviluppare delle soluzioni architettoniche impreviste.

Non si tratta di nascondere bensì di proporre all’osservatore una realtà diversa, più complessa, dissimulata, che paradossalmente tende a richiamare l’attenzione dell’osservatore e a farlo riflettere su ciò che sta guardando.

Powerbarn, crasi tra power e barn (fienile), è il precipitato di questo insieme di varie umanità, che l’architettura rende intelligibile.



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