Due precisazioni preliminari. La mano è una prerogativa umana. Come afferma Umberto Galimberti: «l’animale insiste in un mondo per lui preordinato, mentre l’uomo ek-siste perché è fuori da qualsiasi preordinamento e, per effetto di questa sua ek-sistenza è costretto a darsi un mondo. Si tratta di un mondo [nel quale] una parte fondamentale la svolge la mano che Kant definisce “il cervello esterno dell’uomo”».
La mano è uno strumento indispensabile. Come sostiene Hans Jonas: «Aristotele definì la mano umana lo “strumento degli strumenti”, sia perché essa è in un certo senso lo strumento esemplare sia perché per suo tramite gli strumenti artificiali vengono prodotti e applicati come un suo prolungamento».
Ed è proprio la mano che ha costruito la città. Da quella dell’architetto che ha disegnato ogni edificio a quella del muratore che ha realizzato ognuno di quegli edifici. Più di ogni altro mezzo, sono le mani ad aver contribuito ai piccoli e grandi cambiamenti della città.
Tre esempi. Il primo è il Modulor di Le Corbusier. Qui la mano è la parte superiore di una delle tre misure che, in rapporto armonico tra loro, rappresentano la sintesi grafica delle proporzioni del corpo umano. L’idea sottesa era quella di applicarla a ogni progetto di architettura. Il secondo ha un valore simbolico. Ed è La Main Ouverte che si trova a Chandigarh in India. L’autore è ancora Le Corbusier. Significative le sue parole: «questo segno della Mano Aperta per ricevere ricchezze create, per distribuirle ai popoli del mondo, deve essere il segno della nostra epoca». È l’auspicio, chiaro e inequivocabile, di generosità, disponibilità e amicizia. Il terzo esempio è urbanistico. E si riferisce all’esperienza di Steen Eiler Rasmussen con il Piano delle Cinque Dita per Copenaghen. Nel 1949 l’architetto danese perseguì l’obiettivo di arrestare lo sviluppo concentrico della capitale. Come? Sovrapponendo una mano al territorio. Punto di partenza è la città consolidata dalla quale si diramano le cinque dita che consentono di realizzare una pluralità di azioni strategiche tra loro interdipendenti: governare l’espansione residenziale, pianificare la mobilità favorendo il trasporto pubblico anche ferroviario, creare fasce di verde che penetrano all’interno delle aree edificate per salvaguardare l’ambiente e tutelare il paesaggio.
Le Corbusier e Rasmussen si inseriscono in una tradizione molto più generale. Che ha attraversato i secoli. E che ha costruito il proprio sapere su un imperativo: dare forma al rapporto fra struttura spaziale e contesto, topografia e identità, forma urbis e genius loci. Una tradizione nella quale, come ricorda Marguerite Yourcenar, «costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne risulterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa della città. […] Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo».
Un imperativo andato in frantumi. Eloquenti le parole di Jean-Luc Nancy. «La città si ricerca e crolla di nuovo, si lascia prendere in una verità diversa da quella del sottosuolo e delle fondamenta che essa ha scavato. Va verso un altro essere o un’altra essenza, un altro valore, e ha anche un altro nome, conurbazione, megalopoli. Un giorno dimenticherà persino di chiamarsi “città”».
È il passaggio dalla mano che costruisce la città alla manipolazione del mondo. Una manipolazione che è avvenuta al di fuori di qualsiasi progetto; che è andata di pari passo con il degrado di territorio, ambiente e paesaggio; che ha contribuito, in maniera determinante, al processo di marginalizzazione del dibattito sul fenomeno urbano. E sulla perdita di centralità del ruolo dell’architetto nella società.
Sottovalutare l’importanza delle mani nella costruzione della città è stato un grave errore. È nelle mani che si condensa l’eredità più profonda delle discipline del progetto. Un’eredità che viene da lontano. E che, generalmente, l’architetto non ha saputo cogliere per due motivi opposti. E coincidenti. A un estremo c’è l’eccesso di identificazione con il passato e, all’altro, la negazione del debito. Ereditare non è la mera ripetizione di ciò che è già stato, ma neanche può essere un atto di cancellazione che riparte da zero dimenticando, programmaticamente, la tradizione. Ereditare non significa aderire in maniera acritica ai modelli tramandati dalla storia, né può essere, al contrario, l’esperienza di fare tabula rasa.
Ereditare non è operazione semplice: impone l’obbligo di assumere una distanza critica dal passato senza negarlo o, peggio, rinnegarlo. Goethe lo ha detto in modo straordinario: «l’eredità dei padri, conquistala per possederla». Questo presuppone la capacità di praticare la dimensione del tempo secondo due traiettorie divergenti. La prima procede dal presente verso il passato. La seconda dal passato verso il futuro. Questo doppio movimento è l’atto di «retrocedere avanzando», come disse Kierkegaard.
Ereditare, dunque, non è mai solo ricevere. Senza dimenticarsi di quello che ha visto rivolto all’indietro, lo sguardo dell’erede è orientato in avanti perché sa rifarsi a ciò che è venuto prima, ma sa anche liberarsi di esso. Uno dei pochi che lo ha saputo fare, in modo magistrale, è Aldo Rossi. E forse non è un caso che sia stato colui il quale, più di tutti, ha sostenuto «l’ipotesi della città come manufatto». Rossi ha condiviso molti riferimenti storico-culturali che vanno da Leon Battista Alberti a Walter Benjamin, dal Filarete a Heinrich Tessenow, da Adolf Loos a Baudelaire e a tanti altri. E ha appreso da ognuno di essi una lezione diversa ma sempre aggiungendoci qualcosa di proprio. Rossi è il figlio unico del loro insegnamento ma non ha mai eletto nessuno a padre esclusivo della sua architettura. È un concetto che Goethe ha espresso poeticamente: «chi viene al mondo costruisce una nuova casa, poi se ne va e la lascia a un altro, che la arrangia in modo diverso, e nessuno la porta a termine».
L’eredità delle mani nella costruzione della città è un campo di indagine troppo vasto per un approfondimento esaustivo. Tuttavia, questo rapporto può essere approfondito da tre diverse prospettive strettamente connesse tra loro: i primi trattati rinascimentali di architettura, le grida di allarme, mai ascoltate, di chi aveva colto il disgregarsi di una tradizione secolare e le meritevoli eccezioni di chi ha continuato a sostenere l’importanza delle mani per discipline del progetto.
Nel 1452, Leon Battista Alberti pubblica il De Re Aedificatoria, in cui precisa cosa «si debba intendere per architetto. Giacché non prenderò certo in considerazione un carpentiere, per paragonarlo ai più qualificati esponenti delle altre discipline: il lavoro del carpentiere, infatti, non è che strumentale rispetto a quello dell’architetto. Architetto chiamerò colui che con metodo sicuro e perfetto sappia progettare razionalmente e realizzare praticamente […] opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bisogni dell’uomo».
È la nascita di una nuova categoria professionale non più riconducibile a quella degli antichi costruttori perché tra teoria e pratica, tra immaginazione e realtà, tra progetto e realizzazione si inaugura un altro spazio nel quale le mani sono protagoniste: il disegno su carta di quella che sarà l’opera finita. Un’opera che non si limita al singolo edificio ma va ben oltre: «la casa è una piccola città. La città è una grande casa». Ogni minimo dettaglio transita dalla mente dell’architetto alla sua matita. Ogni progetto diventa pre-visione; pre-figurazione; pre-testo creativo. Non ci sarà più nessuna opera senza una fase preparatoria che, grazie alle mani, diventerà anticipazione di futuro; ritratto di un’idea allo stato nascente; transito dal concetto alla pietra. Prima il pensiero, dopo l’azione. E in mezzo l’opera insostituibile delle mani.
Solo pochi anni dopo il De Re Aedificatoria, il Filarete nel suo Trattato di architettura, dirà: «l’architetto è la madre». Un’affermazione che segue una pluralità di significati in cui le mani hanno un ruolo fondamentale. Tre i principali. L’etimologia di madre è in stretta relazione sia con la mano sia con altri principi basilari dell’architettura come misura, metro e materia.
Il secondo significato si riferisce alla vita prenatale di un’architettura. È il futuro anteriore del processo che va dal concepimento alla gestazione del progetto. Qui le mani accompagnano il disegno dagli schizzi introduttivi alla forma compiuta; dalle suggestioni iniziali al corpo di fabbrica finale; dalle prime ipotesi all’opera che verrà.
Infine, c’è la vita dopo essere venuti al mondo quando il progetto non è più solo disegno ma non è ancora architettura. È il tempo presente della costruzione. Qui ogni sforzo delle mani è funzionale a realizzare l’edificio. E a conferire senso agli imprevisti, a dare forma agli incidenti di percorso, a trovare il modo per convertire i problemi di cantiere in opportunità perché nessuna architettura si è mai realizzata esattamente per come è stata pensata. È così per ogni progetto, come per ogni figlio che, sistematicamente, disattende le attese dei genitori. Ecco perché non c’è alcun tradimento dell’idea iniziale nell’accettare e affrontare le deviazioni, i ripensamenti e gli aggiustamenti in corso d’opera: è semplicemente l’ordine naturale delle cose.
Le mani sono protagoniste anche con Francesco di Giorgio Martini nel Trattato di Architettura Civile e Militare pubblicato intorno al 1480. In uno dei suoi disegni più noti (Proporzionamento dell’alzato di un edificio sacro in base al corpo umano), le mani delimitano lo spazio delle navate laterali di un impianto basilicale identificando, allo stesso tempo, la giusta pendenza delle falde. Le mani non sono più solo strumento per il disegno ma si fanno, esse stesse, architettura: attraggono lo sguardo, indicano la postura del corpo, danno equilibrio all’iconografia architettonica e urbana.
Il corpo ha un ruolo centrale nella costruzione della città antropomorfa (Rappresentazione della città fortificata in forma umana, con la fortezza come testa). I piedi e i gomiti individuano i torrioni delle mura, l’ombelico accoglie la piazza centrale con il mercato, il cuore è la sede del tempio ma sono le mani congiunte al capo che supportano le funzioni strategiche e reggono la fortezza. Quest’ultima, oltre alla funzione identitaria, deve essere il baluardo per resistere ai colpi delle nuove armi da fuoco. E ha un’importanza straordinaria nella gerarchia urbana perché «la rocca de’ essere principale membro del corpo della città, siccome el capo è principal membro di tutto el corpo. E come perso quello, perso el corpo, così persa la fortezza persa la città da essa signoreggiata».
Nel passaggio dalla mano che costruisce la città alla manipolazione del mondo si è inserito anche il cinema. Nel 1963, Francesco Rosi con Le mani sulla città vince il Leone d’oro alla XXIV Mostra Internazionale di Venezia. Il dialogo iniziale del film è volutamente indegno ed esemplare. «La città va in là, e questa è zona agricola, e quanto la puoi pagare oggi, trecento, cinquecento, mille lire al metro quadrato? Ma domani, questa terra, questo stesso metro quadrato ne può valere sessanta, settantamila e pure di più. Tutto dipende da noi. Il cinquemila percento di profitto. Eccolo là, quello è l’oro oggi». È evidente quale sia l’oggetto del desiderio (di manipolazione): il Piano Regolatore Generale di Napoli. Le mani sulla città agiscono, consapevolmente, per rendere legittimo l’interesse di pochi a discapito del bene comune, per tracciare la speranza, soltanto illusoria, che la Res publica possa avere la meglio sul malaffare; per delineare la debolezza di una città all’oscuro del tradimento che stava avvenendo ai danni del territorio.
Da allora è stato un continuo discutere delle ragioni etiche, dell’impegno politico e della capacità di schierarsi, senza mai dimenticare le qualità artistiche della regia. Accompagnate da una rivelazione esplicita del malaffare collegato al tradimento delle regole più elementari del progetto architettonico e del piano urbanistico. Nel 2005, in una Lectio magistralis a Reggio Calabria, Francesco Rosi ha affermato che «il valore di denuncia costituisce l’informazione necessaria per il cittadino ignaro di ciò che un potere corrotto può determinare ai danni suoi e della società». È la volontà di ribadire l’invito all’impegno. In prima persona. Allora come oggi, il grido d’allarme è ancora valido: se è vero che ovunque si posi lo sguardo tutto è stato fatto dalle mani, è altrettanto vero che tutto può essere distrutto, da quelle stesse mani.
Tre anni dopo, nel 1966, viene pubblicata, L’architettura della città. Inequivocabili le parole di Aldo Rossi: «l’ipotesi della città come manufatto, come opera di architettura o di ingegneria che cresce nel tempo; è una delle ipotesi più sicure su cui possiamo lavorare». Un’ipotesi che attraversa l’intero libro. Ed è legata alla teoria permanenze come «passato che sperimentiamo ancora». Stabilisce che «la geografia della città è inscindibile dalla sua storia». Riesce a rendere interdipendenti tre distinte proposizioni: la prima «sostiene che lo sviluppo urbano è correlato in senso temporale», la seconda allude alla necessità di accettare la continuità spaziale della città e con essa la «natura omogenea tutti quegli elementi che riscontriamo su un certo territorio», la terza riguarda, infine, l’ammissione del fatto che «all’interno della struttura urbana vi siano alcuni elementi di natura particolare che hanno il potere di ritardare o accelerare il processo urbano e che siano per loro natura assai rilevanti». Una straordinaria ricchezza di itinerari analitico progettuali in perfetta sintonia con le suggestioni dell’opera grafica di Rossi. Come testimoniano Le mani del Santo, San Carlone e Fantasia architettonica con mano del Santo, caffettiera, la scuola di Broni, il cimitero di San Cataldo a Modena ed altri progetti.
L’idea di «assimilare la città a un grande manufatto» era una certezza, per molti. Oggi, purtroppo, è un ricordo, solo per alcuni. E, per molti di meno, un itinerario di riflessione.
Cosa ne è stato del rapporto tra le mani e la costruzione della città dopo Aldo Rossi? Solo rare eccezioni. Sporadici ma significativi tentativi di opposizione a un processo di dissolvimento; all’impegno a non allinearsi al pensiero dominante; alla volontà di pensare altrimenti.
Giancarlo De Carlo fu tra i primi a intuire i rischi della digitalizzazione in architettura. «Tutti i giovani, sono tutti giovani, che lavorano con me usano il computer, ma anche schizzano, fanno plastici di lavoro, disegnano ortogonale e a mano libera: per loro scelta, ma anche perché sollecitati dalla mia convinzione che senza la più stretta complicità tra l’intelletto e le mani, astrazione della mente e sensualità delle dita, non si arriva all’architettura». Un avvertimento che non ha sortito gli effetti sperati. Attualmente è un dilagare pervasivo di rappresentazioni grafiche computerizzate, render fotorealistici, visioni tridimensionali, senza nessuna quota, senza riferimento alle dimensioni e senza alcuna scala metrica. Immagini che restano mere esercitazioni figurative prive dell’ambizione non solo di essere realizzate ma persino di essere realizzabili.
Questa situazione è l’esito di un trasloco: «quando traccia uno spazio immaginario o disegna un oggetto, la mano si trova in un delicato e diretto rapporto di collaborazione e d’interazione con l’immaginario mentale». Oggi, invece, l’azione della mano si esprime attraverso la tastiera. Esclusivamente. «Immaginare al computer tende ad appiattire le nostre magnifiche capacità d’immaginazione multisensoriali, simultanee e sincroniche, trasformando il processo progettuale in una passiva manipolazione visuale, in un viaggio retinico». È la spiegazione del fenomeno in atto.
Ma anche l’invito a un atto di resistenza radicale: «il computer crea una distanza fra l’oggetto e colui che lo fa, mentre disegnare a mano o costruire un modello pone il progettista a contatto di pelle con gli oggetti e lo spazio». Parole incontrovertibili di Juhani Pallasmaa tese a sottolineare come la mano sia un’estensione dell’immaginazione che non potrà essere mai sostituita. Ogni tentativo di esautorarla sarà inutile perché «nell’immaginazione l’oggetto è posseduto simultaneamente nel palmo delle mani del progettista e nel suo cervello».
La mano non è solo lo strumento per scrivere l’incipit del progetto. Tracciare le prime linee sulla carta consente di porsi tutti i dubbi che fanno da corollario a qualsiasi ipotesi di lavoro; di esplorare le potenzialità dei luoghi; di sperimentare la varietà delle alternative. Come ha fatto Le Corbusier nel disegno delle fondazioni del Padiglione svizzero a Parigi. Questo il commento di Francesco Venezia: «è un disegno “greco”. Greco non perché sia greca la forma della cavità o la forma dell’edificio superiore, ma perché greco è il conflitto che infuria alla base del disegno. C’è un fatto drammatico, la presenza di due mondi: il mondo oscuro delle viscere della terra e il mondo solare dell’edificio su pilotis. Ma le due mani che Le Corbusier disegna su questi due mondi ci dicono che essi devono potersi conciliare, riunire. Due mani che si incontrano. […] Oggi la mano è sparita da tanta parte degli orizzonti dell’umano lavoro, è sparita dal lavoro dell’architetto». Quest’ultima frase non è semplice rammarico perché contiene anche un auspicio: fare dei maestri un tramite per il futuro; imparare dai padri dell’architettura come fare ad andare oltre il loro insegnamento; riconoscere l’importanza del passato come presupposto per un nuovo inizio.
Il riferimento esclusivo all’architettura non tragga in inganno. Tutte le discipline del progetto sono coinvolte nel processo di dissolvimento del rapporto tra le mani e la costruzione della città. Il tracollo dell’urbanistica italiana ne è la testimonianza. Le parole di Leonardo Benevolo in apertura del libro non potevano essere più chiare. E condivisibili. «L’urbanistica in concreto: l’organizzazione dei manufatti umani sul territorio; i programmi urbani e territoriali; il loro funzionamento iniziale o progettato per il futuro; il dibattito su questi argomenti nelle varie sedi, dalla politica alla vita civile è oggi in Italia una pratica esautorata, residuale nella prassi professionale e nella considerazione sociale».
Difronte a questa situazione l’architetto ne paga le conseguenze perché, quando il patrimonio di una disciplina si svuota di senso, decade il potere di chi parla, la sua autorità, la sua legittimazione. Ed è un problema che non concerne solo la prassi operativa ma anche il progressivo aumento della sfiducia, da parte dei destinatari, nella capacità del progetto di sortire effetti positivi sulla realtà urbana e territoriale. Può apparire come il problema di una categoria professionale, ma non è così. È qualcosa di più grave perché riguarda l’intera società: la marginalità dell’architetto, nell’ambito del dibattito pubblico, è la stessa marginalità in cui si trovano territorio, ambiente e paesaggio.
Le discipline del progetto vivono una consapevolezza diffusa. E un’impasse. Per un verso, c’è la certezza dell’errore: è del tutto evidente come sia sbagliato trattare gli attuali temi della città all’interno dell’impalcato teorico tradizionale. Per altro verso, c’è l’incapacità di porvi rimedio. È un sentimento diffuso che dipende, in langa parte, dal fatto che l’intreccio inestricabile tra le mani e la costruzione della città è rimasto lettera morta. In altre parole, è un’eredità che non ha avuto posterità diretta; che ha attecchito nella coscienza di una minoranza senza diventare grido d’allarme generalizzato; che è rimasta relegata nelle menti più sensibili senza entrare nel dibattito disciplinare. Ed è anche per questo che, senza grandi clamori «il confine tra “polis” e “natura” è stato cancellato. La città degli uomini, un tempo un’enclave nel mondo non-umano, si estende ora alla totalità della natura terrena e ne usurpa il posto».
Non c’è soluzione di continuità: le dimensioni della città sono sfuggite di mano. Letteralmente. E molti si sono concentrati su questo aspetto, scrivendo intere biblioteche per affrontare il problema. Tuttavia, non sono le dimensioni a destare l’inquietudine maggiore ma il fatto che la «sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha lanciato con il suo smisurato successo, che coinvolge ora anche la natura stessa dell’uomo, la più grande sfida che sia mai venuta all’essere umano dal suo stesso agire». Era un monito che esprimeva la necessità di rimboccarsi le maniche. E darsi da fare in quanto tutte le «questioni che non furono mai in passato oggetto della legislazione, diventano di competenza delle leggi che la “città” totale deve darsi affinché ci sia un mondo per le generazioni future». Era il 1979 quando Hans Jonas disse queste cose. Altri gli hanno fatto eco. E continuano a farlo. Questo, però, non è più il tempo delle parole o, per essere più precisi, delle esercitazioni sonore. È tempo di sporcarsi le mani. Di agire. Rapidamente.
Senza mani non ci sarà umanità.
Umberto Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999
Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1979
Le Corbusier, La mia opera, Bollati Boringhieri, Torino 2008 (1961)
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi, Torino 1951
Jean-Luc Nancy, La città lontana, Ombre Corte, Verona 2002
Johann Wolfgang von Goethe, Faust, Rizzoli, Milano 2005 (1829)
Francesco Rosi, Una città un film, Lectio magistralis per il Conferimento della Laurea Honoris Causa in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale da parte della Università Mediterranea di Reggio Calabria nel 2005, ora in Enrico Costa (a cura di), Con Francesco Rosi a lezione di urbanistica, Città del Sole, Reggio Calabria 2012
Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966
Giancarlo De Carlo, Franco Bunčuga, Conversazioni su architettura e libertà, elèuthera, Milano 2000
Juhani Pallasmaa, Lampi di pensiero. Fenomenologia delle percezioni in architettura, Pendragon, Bologna 2011
Francesco Venezia, Che cosa è l’architettura, Electa, Milano 2022
Leonardo Benevolo, Il tracollo dell’urbanistica italiana, Laterza, Roma-Bari, 2012