Per la quantità di risorse finanziarie messe in campo e l’ampiezza dei temi affrontati, il PNRR rappresenta una sfida senza precedenti per il nostro Paese. Nella sua costruzione, il Governo è partito dalla consapevolezza che la crisi economico-sanitaria scaturita dalla pandemia, oggi fortemente acuita da una crisi energetica ben più grave, abbia colpito un Paese già afflitto dalle profonde fragilità del suo sistema produttivo, nonché dai divari sociali, territoriali, generazionali e di genere che caratterizzano il mercato del lavoro.
Una presa d’atto della ormai indifferibile necessità di una «trasformazione delle infrastrutture del sistema produttivo» (e più in generale del modello economico) fin qui imperante, unitamente alla «individuazione e costruzione di nuove competenze professionali» di cui il Paese avrà bisogno.
Questioni di non poco conto, che si pongono al centro degli obiettivi ottimistici, o forse utopistici, legati al Piano Nazionale. Qui va subito chiarito che la sfida di ammodernamento del Paese, dei suoi multiformi sistemi produttivi ma anche degli apparati della pubblica amministrazione (vedi le complesse azioni riformatrici del Ministro Brunetta sul delicato tema del reclutamento pubblico), è già tutta in salita; per i ritardi che segna il Governo nella implementazione dei macro-progetti, ma anche per le inefficienze delle strutture periferiche (Regioni e Enti locali) nella messa a terra dei macro obiettivi del PNRR.
La crisi economico-sanitaria ha rappresentato uno straordinario acceleratore di eventi, un catalizzatore di processi evolutivi e di transizione economica e produttiva da tempo in corso un po’ ovunque in Europa e in tutto l’Occidente, tranne che da noi in Italia.
Va detto chiaramente: eravamo impreparati!
Eravamo impreparati tanto allo shock economico-sanitario da pandemia quanto allo shock energetico su cui si è abbattuto il grave conflitto militare russo-ucraino nel cuore dell’Europa. Ma soprattutto eravamo impreparati ad imbastire una rapida ed efficiente ripartenza, a mettere cioè in atto in tempi brevi le azioni necessarie per un rilancio immediato del Paese. Assistiamo alla consegna delle prime risorse finanziarie del piano Next Generation UE, ma si fa fatica a comprendere come saranno tradotte in valore e futuro.
Tornando al tema, in questo disegno di ripartenza ideale messo a punto dal Governo sarà importante focalizzare l’attenzione su una serie di interrogativi: quale ruolo potranno ricoprire le parti sociali nelle dinamiche evolutive del PNRR che verranno a delinearsi nei prossimi mesi? E poi, quali possibili strumenti e tecniche di negoziazione sindacale potranno essere adoperati per favorire e promuovere un modello economico più efficiente ed inclusivo e una riduzione delle disuguaglianze?
Preliminarmente, va precisato che il PNRR ruota attorno a diverse leve strategiche denominate «di transizione», che qui si intendono circoscritte a tre punti nevralgici: una transizione digitale, che possiamo tradurre nella rivoluzione digitale dispiegata nei luoghi di lavoro oltre nella vita di tutti noi; una transizione ecologica, che segna il passaggio ad un modello economico e di sviluppo sostenibile green; una transizione produttiva, che implicherà la ristrutturazione del sistema di specializzazione produttiva e manifatturiero costruito oramai trent’anni fa.
Non è ancora chiaro quale sarà l’impatto della rivoluzione digitale nell’attuale mercato del lavoro.
Sappiamo soltanto che nel prossimo decennio trasformerà la metà degli attuali posti di lavoro, distruggendone moltissimi. Ma c’è da chiedersi: sarà in grado di crearne altrettanti? Riuscirà a crearli negli stessi luoghi ove questi posti di lavoro verranno meno? E poi, la transizione verso nuove forme di lavoro riguarderà le stesse persone che il lavoro lo avranno perso?
Domande legittime e necessarie, in quanto in ragione delle possibili risposte (dei possibili scenari) occorrerà ipotizzare i modelli di transizione produttiva ed occupazionale più adeguati. Lo stesso discorso vale per il processo di transizione ecologica verso un’economia circolare e sostenibile, ancora più oscuro perché meno indagato, e poi reso drammaticamente incerto a causa della crisi energetica di questi mesi.
Quest’insieme di obiettivi costituisce – al contempo – sia il presupposto che l’occasione per una ridefinizione delle figure professionali utili al Paese. E passa, a mio avviso, per due direttrici strategiche: il potenziamento del sistema nazionale di formazione delle competenze professionali oggi alquanto deficitario (fondi interprofessionali, fondo nuove competenze, e sistemi regionali di formazione); e poi un massiccio turn-over occupazionale, atteso che i tre modelli di transizione prefigurati dal PNRR ne presuppongono almeno un quarto: la c.d. transizione occupazionale, che si misura nella necessità e nella opportunità di favorire processi di ricambio generazionale della forza lavoro senza traumi.
Volendo indagare meglio quest’ultimo punto, la partita si gioca con il contributo decisivo delle parti sociali, mettendo al centro delle dinamiche economiche anche le leve dell’ordinamento intersindacale: qui si segnalano due strumenti negoziali molto innovativi sui quali già buona parte dell’imprenditoria sta dirottando risorse e attenzioni, i «contratti di espansione» nella riconversione industriale, e gli «accordi di transizione occupazionale» nelle crisi industriali.
I «contratti di espansione» costituiscono uno strumento negoziale ideato per consentire alle imprese italiane (inizialmente di grandi dimensioni, oggi anche piccole) di sostenere i processi di ristrutturazione e riconversione tecnologica (anche con rivoluzione digitale e transizione verde) e di accelerare il ricambio generazionale del personale. Introdotti in via sperimentale con il Decreto Crescita 2019, l’istituto è oramai una realtà. Consiste in un modello negoziale (un contratto collettivo aziendale) con cui è possibile sostenere l’innovazione (attraverso la modifica strutturale dei processi aziendali volti al progresso e allo sviluppo tecnologico) tramite un mix di misure che comprendono: un piano di riconversione e di assunzioni di risorse umane qualificate e specializzate, in possesso delle competenze necessarie all’impresa per restare competitiva; scivoli per la pensione fino a 5 anni, per quei lavoratori che accettano la proposta di esodo incentivato garantito; riduzione dell’orario di lavoro con accesso alla cassa integrazione straordinaria per i lavoratori che non hanno i requisiti per accedere allo scivolo; un piano di formazione per questi ultimi, le cui skill necessitano di aggiornamenti soprattutto sul fronte tecnologico.
Gli «accordi di transizione occupazionale» nelle crisi industriali, invece, sono stati istituti con la Legge di Bilancio 2022 e rappresentano il nuovo connubio tra politiche attive del lavoro e modelli di gestione delle crisi d’impresa. Ai datori di lavoro che abbiamo in corso una cassa integrazione guadagni straordinaria viene concesso un ulteriore intervento di integrazione salariale di 12 mesi, regolato con un accordo sindacale aziendale, finalizzato al recupero occupazionale di quei lavoratori in esubero, che non rientrerebbero in azienda. I lavoratori coinvolti saranno considerati come già espulsi, sebbene ancora in forza e sospesi in CIGS, e come tali coinvolti nelle azioni finalizzate alla rioccupazione o all’autoimpiego, accedendo al programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori (c.d. GOL).
Nei due modelli descritti, diversi per ratio e finalità, ma entrambi funzionali agli obiettivi di un turn over occupazionale, lo strumento più importante è proprio l’accordo sindacale aziendale, poiché con esso le imprese ratificano assieme al sindacato il percorso di transizione occupazionale dei lavoratori coinvolti (e le relative forme di rioccupabilità) attorno ai progetti di ristrutturazione aziendale e riconversione tecnologica che le prime saranno chiamate a porre in essere per intercettare nuove forme di competitività.
Si discute da tempo della profonda crisi di strategie e contenuti che caratterizza il confronto tra gli attori dei processi produttivi. È ben evidente che oramai in gioco non sono soltanto i diritti dei lavoratori, ma anche l’esigenza di salvaguardare la sopravvivenza delle imprese stesse. Di conseguenza, la necessità di rimodulare le dinamiche delle relazioni industriali, di individuare nuovi paradigmi operativi per concretizzare le prospettive evocate in sede teorica, passa anche per forme di co-gestione delle dinamiche imprenditoriali che veda il sindacato in prima linea. I due modelli segnalati costituiscono un (seppur timido) contributo a tali prospettive evolutive.