Le quattro cose che mi mancano di Inter-Milan, il derby di San Siro

Giorgio Simonelli

Il primo derby non si scorda mai. Il mio primo derby allo stadio, San Siro (non tiro in ballo Dio, ma che qualcuno ce lo conservi), risale all’ottobre del 1961. Per cui mi perdonerete qualche scivolata nella nostalgia. Anche quella volta l’Inter era favorita. Aveva cominciato il campionato alla grande sotto la guida del mago Helenio Herrera mettendo in mostra in regia il suo nuovo acquisto, un genio, Luis  Suarez.

Il Milan arrancava, il nuovo allenatore il grande Nereo Rocco sembrava non legare con l’ambiente metropolitano milanese, lui così genuinamente provinciale. La dirigenza gli aveva preso dall’Inghilterra un fuoriclasse, Jimmy Greaves, ma le cose non andavano tra incomprensioni e capricci. In più quella domenica al Milan mancava uno dei calciatori più forti, il centravanti Josè Altafini, al suo posto giocava Gino Pivatelli, un bravo attaccante ma ormai un po’ vecchio.

Insomma, la bilancia pendeva decisamente da una parte.

Finì 3 a 1 per il Milan, inaugurando la regola che vuole vincitore del derby chi parte sfavorito.

Speriamo vada così anche quest’ultimo (questa non so se il direttore me la passa).

Quella volta fu decisiva la grande partita di Gianni Rivera e soprattutto della difesa con un giovane Giovanni Trapattoni a marcare Suarez.

Basta ricordi personali infantili! Al di là della nostalgia che è sempre canaglia, che cosa aveva quel calcio che oggi non c’è più e che lo rende qualcosa di straordinario?

Non solo soggettivamente ma a livello culturale: non dimentichiamo che qualche anno fa un bravo giornalista come Gigi Garanzini organizzò a Palazzo Reale a Milano una bella mostra sul biennio d’oro delle squadre milanesi 1962/1963.

È una domanda difficile, piena di trabocchetti in cui è facile cadere tra moralismi sugli stipendi, discorsi sulle bandiere che non ci sono più (ma per la cronaca quell’Inter aveva come portiere un grande ex del Milan, Lorenzo Buffon e il Milan un ex Inter, Giorgio Ghezzi), polemiche per i troppi stranieri.

Ma voglio rischiare e butto lì tre o quattro cose che mi sento di rimpiangere.

Uno. Le maglie, a strisce verticali piccole, senza nomi e senza sponsor, con i numeri dell’1 all’11, neanche tanto belle, certo non telegeniche, nel bianco e nero della tv addirittura si confondevano, ma maglie da calcio con i numeri che indicavano un ruolo e non un calciatore, con tutto quello che questo significa: la maglia è della squadra, la si indossa, non la si possiede.

Due. Le chiacchiere dei protagonisti. Quasi muti i calciatori, i due allenatori erano molto ciarlieri. Enfatico, l’uno, nel suo italiano misto di spagnolo, ruspante l’altro nel suo italiano misto di veneto, si divertivano e divertivano, sparandone una ogni tanto, quando capitava, spontaneamente (che non vuol dire senza calcolare l’effetto delle loro parole) ma senza quell’orribile situazione della conferenza stampa attuale in cui ogni allenatore sembra il presidente del consiglio.

Tre. Il tempo.  I derby una volta avevano una forte connotazione stagionale. Si giocavano sempre nel primo pomeriggio domenicale, per cui all’andata il derby finiva avvolto nelle prime brume autunnali, al ritorno spesso scintillava sotto il primo sole primaverile. Erano una tappa del calendario. Ora è chiaro che le esigenze televisive, che conosco bene, collocano il derby nei più diversi orari, sabato preserale, sabato sera, domenica sera. Ma una domanda la voglio fare: cosa vi ha fatto di male la domenica pomeriggio per trattarla male, per concederla solo all’Empoli o alla Salernitana. Con tutto il rispetto per Empoli e Salernitana, un derby alla domenica pomeriggio me lo fate vedere?

Quattro. Lo stadio e i tifosi. Ora so benissimo che passerò per un ingenuo, fuori dal tempo e dal mondo, con delle pretese pericolose. Ma io dopo quello del 1961 ho visto ancora parecchi derby a San Siro, assiepato sulle gradinate, entrando due ore prima per trovare un posto buono, mescolato con vicini della stessa fede e di fede opposta, tra battute ironiche, polemiche e qualche parolaccia, incitando la squadra senza che qualcuno organizzasse quei monotoni cori che oggi accompagnano tristemente tutta la partita. Ovviamente nessuna delle cose che rimpiango ha la minima possibilità di trovare posto nel derby di domani, per cui l’unico auspicio realizzabile è un altro. Ma questo l’ho già detto, toccando ferro.

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