Le radici non si estirpano

La compiutezza linguistica de Il fuoco che ti porti dentro ne fa letteratura e una lezione di scrittura. La forza ammaliatrice di questo raccontare distoglie dalla bellezza pura delle parole e invoglia a frequentare l’unità di vicinato di Angela per conoscere un altro mondo, il mondo del sud.

Modi di dire, di essere, personaggi come icone senza tempo abitano questa commedia di eduardiana memoria. Anche quando la pagina restituisce il racconto di alcuni luoghi comuni (luoghi comuni per chi è nato al sud s’intende), il registro della scrittura resta sempre alto con una lettura piacevole e che accompagna, mai consolatoria sempre indagatrice.

C’è poi la restituzione del tempo alle stagioni, la cadenza delle stagioni, svelata con le azioni umane e le osservazioni che da sempre l’accompagnano, per esempio, il mare è l’estate, la conserva di pomodoro l’estate che si avvia a finire.

Una lunga e dettagliata descrizione di luoghi e persone precede e prepara gli eventi che seguiranno. Un’attenzione maniacale ai dettagli e al quadro d’insieme distoglie, anche se solo per qualche pagina, l’attenzione sul giudizio negativo e senza appello espresso fin dall’incipit nei confronti di Angela. La protagonista e madre della storia.

«Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza. Tra noi se ne parla senza allusioni. “Pare’ e trasì dint’’a grotta d’’o cane” dice mio padre uscendo dalla camera da letto alle fine del loro riposo pomeridiano. Si riferisce a un passaggio sotterraneo nella solfatara di Pozzuoli, dove i miasmi di anidride carbonica ristagnano al di sotto del metro di altezza lasciando indenne l’essere umano ma soffocando il cane che s’avventuri incauto per quel budello».

Antonio Franchini scrive un’opera esemplare sul crescere in un orizzonte familiare che esplica la sua universalità in modi e forme diverse, ma che trova la ragion d’essere in un’educazione non educazione che in molti hanno ricevuto e, spesso, subito.

Ci si può identificare in molte delle situazioni che sono raccontate e si possono riconoscere ambiti e spazi di relazione che appartengono non solo ai protagonisti della storia, la casa innanzitutto, le stanze chiuse, i divani con il cellofan. E in quegli spazi leggi e ascolti frasi, modi di dire che hanno contribuito a costruire un pensiero sul mondo e sulle cose del mondo. È il caso di «cazzoni americani», per esempio, che ascoltato oggi fa sorridere, se invece si va indietro con la memoria, si realizza che ha costituito un primo vulnus nei confronti degli yankee, prim’ancora delle contrapposizioni politiche.

Si ri-conosce un’Italia del Sud evaporata, emigrata, che non tornerà mai più, «In un paese in cui ogni famiglia ha il suo “soprannome”, quelli del ramo di suo padre sono detti “sgherri”. Sgherri some guardie armate, milizie private, gente a cui non la si fa, prepotenti. Il suono della parola rimanda anche a “sgarro”, è assonante con “sbirro”, con “ferro”, evoca qualcosa di marziale, di metallico, di prevaricatore. A questa risibile albagia paesana Angela tiene sopra qualunque cosa. Ripete “io so’ sgherra!” con una solida fierezza che nemmeno il tempo è riuscito ad affievolire, anzi gliel’ha accentuata».

Una storia esemplare capace di parlare e farsi comprendere da un popolo intero, come esemplare è la spiegazione del provare vergogna. Qui Franchini fa ricorso alla sceneggiata napoletana più famosa, Zappatore, cercate e gustatevi le pagine 80, 81 e 82, non ve ne pentirete.

Non resterete delusi perché la bravura di Antonio Franchini scrittore viene sovrastata dal Franchini conoscitore della letteratura italiana e della critica letteraria. Insomma, pur restando nell’ambito della narrazione, queste pagine sono una vera e propria lectio magistralis che si potrebbe intitolare: dello scrivere.

La scrittura è sempre così fluida che attraversa la vita dei protagonisti senza lasciare alcun tempo per pensare e rendersi conto di ciò che sta accadendo come nel caso del trasferimento di Angela da Napoli a Milano. Si comprende tutto a cose fatte. Anche quando per rafforzare il concetto dell’essere calabrese interviene un fatto, suppongo realmente accaduto allo scrittore e non alla voce narrante, che si integra e incastra alla perfezione nella narrazione.

Un pezzo di bravura che interviene quando il romanzo, mantenendo sempre la cifra stilistica del romanzo, diventa quasi un trattato di antropologia culturale. Un po’ come in Sud e magia di Ernesto De Martino, un libro che ci ha aiutato a comprendere meglio i riti e la cultura popolare del Mezzogiorno d’Italia.

È un romanzo che evoca e valorizza l’appartenenza. L’appartenenza ad una famiglia, ad un territorio, alle proprie origini. Ci si può affrancare, rendere autonomi e quasi estranei a ciò che si è stati per un periodo anche lungo della propria vita, ma qui viene fuori in modo evidente, ancestrale, che le radici non si estirpano. Non si possono mai estirpare del tutto.

«La prima volta che vengo a Milano ho diciannove anni e passo a trovare la zia Maria, l’unica sopravvissuta dei numerosi fratelli del nonno paterno […] La seconda volta che sono venuto a Milano è stato per i funerali di zia Maria. La terza, per rimanerci».

Un’appartenenza che non è solo alla famiglia, ma è soprattutto ai luoghi in cui si è nati e cresciuti. Ciò è evidente quando la protagonista non è più Angela, ma suo figlio, la voce narrante. L’arrivo a Milano di quest’ultimo a Milano così come il primo viaggio sulle Alpi ci restituiscono l’attaccamento ai luoghi e alle persone, la rivendicazione dell’essere meridionale.

«Un fine settimana di giugno Francesco mi porta a Cortina. Ho poco più di vent’anni e vedo le grandi montagne come un bambino vede per la prima volta il mare […] Prima puntiamo verso Pocol per aprire casa e lasciare i bagagli, poi risaliamo verso il passo Giau. Mel, Pocol, Giau sono i nomi del Nord, come Bèco del Mesodì, mentre i posti a me familiari si chiamano Frattamaggiore, Casoria, Afragola […] Le montagne ci sono anche al Sud. Come il selvoso Taburno, patria dei Sanniti Caudini, i più bellicosi».

L’epilogo invece non riguarda più Nord e Sud, vicinanza e lontananza, ma l’ultima stagione della vita che tutti ci accomuna annullando le differenze. Angela, anche in condizioni fisiche disperate, resta ferma nelle sue convinzioni e il suo carattere non ne trae giovamento, «Che me n’aggia fa d’ ’a dama ’compagnia, io nun tengo bisogno ’e nisciuno!», ma non è più in grado di modificare lo stato delle cose e gestire le persone. La liricità di queste pagine e insieme la leggerezza che Franchini è capace d’infondere rappresentano un momento di passaggio significativo che cambia la prospettiva che ha accompagnato il lettore fino a questo punto.

«Scosto con precauzione la poltrona, sollevo il mucchio d’ossa che mi ha messo al mondo, la rimetto nel letto. Uomini e donne sani sanno nascondere il mistero delle loro notti. Vecchi, malati e pazzi no. Te lo consegnano quel mistero. E qualche volta, anche quando sono incontinenti, agitati, logorroici, te lo riconsegnano in un tremendo silenzio, come se nulla fosse».

Un momento della narrazione in cui c’è spazio per riflessioni che si addensano sulla testa di ognuno così come le nuvole in cielo in attesa del temporale. Si attende solo il lampo che annuncia il tuono e poi giù il rovescio d’acqua.

«Per lungo tempo Angela ha finto, ha interpretato una parte. Ha finto come normalmente fingono gli esseri umani, non inventando di sana pianta una se stessa completamente diversa, ma esagerando i tratti di quella che era per assomigliare di più a quella che voleva essere. Tutti lo facciamo, chi per periodi brevi, chi più a lungo, chi per sempre, finendo col dimenticarci com’eravamo prima della finzione. Lo facciamo per sopravvivere, per illuderci, per stare meglio, perché non siamo fatti per la verità, per essere quel che siamo come se fosse una libera scelta e non n destino o una condanna».

Si studia, viaggia, si conoscono nuove persone e nuovi modi di vivere, ma non si dimenticano le proprie origini, da dove si viene, chi si è. Il crisma che ti è stato imposto.

Franchini non fa sconti a nessuno. Alla protagonista, al lettore, alle tante donne che si riconosceranno nelle movenze e nei modi di dire di Angela. Al suo intercalare che per tanti sarà familiare, «Sta zoccol…» nella stessa, identica, accezione che si legge per tutta la durata del romanzo, ha accompagnato l’adolescenza e le conversazioni tra adulti e giovani di molti di coloro che sono nati e vissuti al Sud. «Sta zoccol…» era e continua ad essere l’intercalare delle donne del sud e non ha, quasi, mai, un’accezione volgare. È un modo di pensare il mondo e di chi quel mondo lo abita. È un universo a parte. Un modo di intendere e di vedere la vita costruito sulla relazione tra le persone che tende a sparire nella vita contemporanea. Era caratterizzato e traeva la sua ragione d’essere da uno scambio e una conoscenza reciproca e quotidiana, un universo in cui le persone si parlavano. Si toccavano. Si annusavano e si amavano.

Ho visto molte madri in queste pagine. E tutti gli episodi raccontati, seppur non coincidenti con i fatti che hanno riguardato tutte e tutti, sono gli stessi. La stessa atmosfera. Gli stessi odori, la stessa voglia e volontà di dire grazie e ti voglio bene. «Ti voglio bene perché ti voglio bene».

Infine, il finale era difficile da scrivere. Non per Antonio Franchini.

P.S.: Un elogio vorrei farlo alla confezione del romanzo. Stampato bene, su una buona carta dalla giusta grammatura, si tiene bene tra le mani e la copertina, con plastificazione opaca e anch’essa con una giusta grammatura, valorizza al massimo la foto, il titolo e il nome dell’autore. Bravi.


Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio, Venezia 2024

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