L’equilibrio da trovare

Sembra che il mondo ci stia sfuggendo di mano. Prima il covid – che non si è ancora arreso – poi la guerra, generano ansia, incertezza, insicurezza, se non paura.

Stiamo drammaticamente sperimentando i danni della globalizzazione, dopo averne apprezzato anche i vantaggi. Perché la mobilità delle persone, dei capitali, l’interdipendenza dei sistemi economici, hanno prodotto e producono, come molte della vita, effetti positivi e insieme negativi. Solo che l’interdipendenza dei sistemi, che piaccia o no, è un dato acquisito e tornare indietro non si può. Non è possibile abolirla ma solo cercare, nel miglior modo possibile, di governarla.

Tutto questo naturalmente incide sulla vita degli individui, delle famiglie, delle imprese e, inevitabilmente, sulle dinamiche del mercato del lavoro e sui livelli occupazionali. Va detto che i tassi, sia di occupazione che di disoccupazione, hanno retto nel nostro Paese, nonostante il periodo devastante, secondo i dati ISTAT al 31 dicembre 2021. Questo significa che le aziende hanno continuato ad assumere (certo, anche a licenziare o addirittura a chiudere i battenti) ed anzi molti posti di lavoro sono rimasti inevasi perché le aziende non hanno trovato personale adeguato e specializzato per ricoprirli, alla fine rinunciandovi, nella misura, addirittura, di uno su tre (circa 240.000). Un dato sconcertante per le nostre politiche attive del lavoro. Ma nel 2021 le nuove assunzioni (e questo è il punto che fa discutere) sono state per circa 2/3 a tempo determinato (450.000).

Recentemente Paolo Negro della Fondazione Kuliscioff ha osservato che questo dato di temporaneità dei contratti di lavoro non va letto in senso del tutto negativo: in primo luogo si tratta pur sempre di lavoro regolare, benché a scadenza e in secondo luogo «il contratto a termine non è sinonimo di precarietà e la stessa nozione del posto di lavoro a tempo indeterminato comincia a perdere di significato, con l’implicita aspirazione all’eternità che sottintende».

Questa tesi, che a me pare complessivamente ragionevole, ha scatenato una dura reazione di Renato Fioretti su Micromega, il quale ha ricondotto una delle cause della temporaneità del lavoro nientemeno che al Jobs act e quindi a Matteo Renzi sul versante politico, non risparmiando come era prevedibile Pietro Ichino, definito «il licenziatore».

Ora, con tutto quello che è successo e che sta succedendo, pensare che i problemi connessi alla legittima aspirazione delle persone ad avere un lavoro stabile siano da addebitare ad una riforma del Diritto del Lavoro che ha inteso solo riequilibrare le protezioni e le tutele fra chi un lavoro lo ha e chi no e che non ha messo in discussione il principio che per licenziare un lavoratore o una lavoratrice ci deve essere un motivo (solo abolendo, o quasi, l’eventuale diritto alla reintegra – art.18  dello Statuto dei Lavoratori), che queste difficoltà, ripeto, siano colpa di una legge, che peraltro ha allineato il nostro Codice del Lavoro a quello dei Paesi Europei dove il mdl funziona, a me sembra surreale, ideologico, come spesso avviene quando si discute di lavoro.

Le aziende non assumono a tempo indeterminato, o lo fanno meno di quanto a tutti noi piacerebbe, per l’incertezza che pesa sul loro futuro, perché spesso si trovano a dover adeguare gli organici a cambiamenti inaspettati e repentini del marcato, perché incertezza ed insicurezza riguardano ormai non solo i lavoratori, ma pure le imprese.

Non credo che rendere nuovamente i lavoratori inamovibili dal loro posto di lavoro determini stabilità del lavoro, anzi il contrario. E per ogni inamovibile c’è un giovane fuori dalla porta, con le giuste competenze, che aspetta. Voglio ricordare che il contrario della flessibilità e la rigidità, non la stabilità e che proprio un mercato del lavoro eccessivamente rigido consolida posizione precarie.

Una legge (nel caso specifico il Jobs act) non crea posti di lavoro; più in generale, il quadro legislativo deve essere invece coerente con gli obiettivi sia di non impedirne la creazione quando l’economia cresce, sia di distribuire protezioni e tutele in misura equa fra insiders e outsiders, fra chi è dentro il mercato del lavoro (iperprotetto) e fra chi ne resta fuori (sottoprotetto).

Va considerato che la tendenza alla riduzione della durata media dei rapporti di lavoro con il prevalere dei contratti a tempo determinato è un fenomeno che registriamo da anni. Accelerazione dell’obsolescenza delle competenze e globalizzazione (come dicevo in apertura) ne sono le cause principali, perché le aziende lavorano sempre più in un quadro di incertezza.

E tuttavia, alla fine, i lavoratori impiegati con un contratto a termine in Italia non sono superiori alla media europea, attestandosi su un sostenibile 15%. E come se avessimo, più che un mercato del lavoro precario, la percezione di un mercato del lavoro precario. E infatti questo dato in linea con l’Europa può significare che nell’arco di qualche anno la maggioranza dei rapporti di lavoro a tempo determinato in realtà si stabilizza, perché le imprese hanno anche bisogno di inserimenti di medio/lungo periodo e l’eccessivo turn over non è un bene neppure per gli imprenditori.

Quando si parla di lavoro è necessario attenersi alla realtà, con realismo appunto, e senza pregiudizi. Il mondo del lavoro contemporaneo – e sarà così anche in futuro – ci pone di fronte due esigenze, entrambi legittime, direi inevitabili e meritevoli di massima considerazione: quella delle aziende di adeguare all’occorrenza gli organici secondo i trend del mercato e quella dei lavoratori di avere un’occupazione, per quanto possibile, stabile nel tempo, con la garanzia di tutti i diritti fondamentali, ma non quello alla inamovibilità. Ignorando una delle due non andremo lontano e sono dinamiche a ben guardare non incompatibili. Si tratta di trovare il giusto equilibrio.

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