L’età fragile e la natura impervia

La promessa della vincitrice del più prestigioso premio letterario italiano è un segnale bello e positivo: «Prometto che userò la mia voce scritta e orale in difesa di diritti per cui la mia generazione di donne ha molto lottato e che oggi non sono più scontati». Le parole con cui Donatella Di Pietrantonio ha festeggiato il Premio Strega ci dicono che gli intellettuali in Italia ci sono e sono in prima linea per la difesa dei diritti e delle libertà. Non è un segnale di poco conto che segue di qualche mese il dibattito pubblico che ha visto un altro Premio Strega, Antonio Scurati, difendere la libertà e la democrazia in occasione dei festeggiamenti del 25 aprile.

C’è dunque da essere fieri delle scrittrici e degli scrittori italiani che tengono accesa la fiamma vitale e rivoluzionaria della letteratura.

Dopo aver vinto il Premio Strega Giovani ’24, vince anche il premio più ambito con un libro, L’età fragile che, lo dico sin da ora, è il suo lavoro migliore, il più maturo. Un libro che la consacra definitivamente e la consegna alla storia della letteratura italiana.

Il libro prende le mosse da un fatto di cronaca violento: un duplice femminicidio compiuto tra i monti d’Abruzzo. Un pastore macedone uccide due giovani ragazze e ferisce a morte una terza che scampa all’eccidio. Accadimento che sconvolge una piccola comunità di montagna e che ancora oggi, a distanza di ventisette anni dai fatti, è un tabù per molti.  Il racconto della Di Pietrantonio rielabora i fatti introducendo nuovi elementi che non ne attenuano il dolore e la spigolosità, ma ne accentuano le valenze etiche introducendo uno dei grandi temi della contemporaneità, la sostenibilità ambientale dei territori.

Con la forza delle sue parole e del suo narrare smonta, pagina dopo pagina, la finzione del com’era verde la mia valle, della provincia dove non accade mai nulla, terra felice per definizione. Smonta il luogo comune della provincia immune dalle brutture umane, «Il nostro luogo di nascita ci aveva protetti a lungo, o forse era stata una falsa impressione. Siamo cresciuti in una sola notte».

Si ricollega a tradizioni letterarie nobili, abruzzesi come le sue, alla «natura impervia del territorio» di cui Ignazio Silone scrisse in una magistrale, insuperata e insuperabile descrizione dell’Abruzzo del 1948: «Il destino degli uomini nella regione che da circa otto secoli viene chiamata Abruzzo è stato deciso principalmente dalle montagne […] gli Abruzzesi sono rimasti stretti in una comunità di destino assai singolare, caratterizzata da una tenace fedeltà alle loro forme economiche e sociali anche oltre ogni pratica utilità, il che sarebbe inesplicabile se non si tenesse conto che il fattore costante della loro esistenza è appunto il più primitivo e stabile degli elementi, la natura».

E se Silone fa discendere il carattere stesso degli abruzzesi dalla conformazione fisica del territorio che abitano, Donatella Di Pietrantonio attribuisce a quella stessa natura responsabilità sociali che si ripercuotono sulla vita degli ultimi, altro tema caro all’autore di Fontamara.

«Lei non condivideva tutta la retorica intorno alla montagna, i boschi erano suggestivi, ma anche pieni di ombre. Potevano tradirti, potevi perderti. Il ragazzo aveva perso il confine dell’umano. “La natura è bella per i ricchi, non se devi lavorare come uno schiavo”. Non ci avevo mai pensato, quella frase mi ha scossa. Nel tempo ho capito che non valeva solo per il servo pastore. Ciarango, Osvaldo, mio padre: nessuno aveva scelto di vivere nella valle. Erano rimasti nell’unico luogo possibile, dov’erano nati. Non avevano visto altro, né l’immaginavano. Erano schiavi di una necessità. Ricadeva anche su mia madre, su di me. La bellezza intorno a noi non ci riguardava. Non ammiravano la natura, dovevamo combatterla. Bastava un temporale sul grano maturo a impoverirci un po’ di più. Lottavamo contro il vento, le malattie degli animali e i parassiti delle piante. La natura che ci nutriva era la stessa che ci affamava. Quando uscivamo dalla valle non sapevamo comportarci nel mondo».

Con una prosa asciutta, intrisa di dolore, Donatella Di Pietrantonio è capace di creare atmosfere in cui ci si può riconoscere. In cui donne e uomini della montagna e del sud si possono riconoscere. Poche pagine e scatta l’immedesimazione. Raccontare di sé per raccontare una storia di appartenenza culturale e collettiva con modalità nuove, ma per rappresentare la stessa, laica, liturgia di sempre.

L’età fragile racconta la caducità della nostra esistenza di fronte ad eventi che sono più grandi di noi, in grado di mettere a nudo le nostre debolezze e le nostre paure come il Covid, per esempio, inaspettata presenza in questo romanzo. Una sorta di grado zero della vita, come essere davanti ad uno specchio così grande da contenere l’immagine di tutto il mondo.

La drammaticità della storia non impedisce all’autrice di attraversare il territorio dell’amore sia dal punto di vista della protagonista sia dal punto di vista dei suoi genitori.

«Io e Dario, fatico a capire dove ci siamo interrotti vent’anni dopo. Nell’abitudine, nei silenzi, tra i corpi sempre più lontani nel letto. A ogni domanda mi rispondo con un’altra, in una catena che non chiudo. Di quella sposa ho esaurito il coraggio, i sogni. Non ho più la sua età, non ne ho la forza. Certe mattine rinuncerei ad alzarmi, anch’io come Amanda».

Generazioni a confronto, spietatezza nel mostrare il lato meno luminoso di una relazione, la dimensione più problematica dello stare insieme e l’incapacità di comunicare.  Ancora una volta il pensiero torna a Silone e al carattere degli abruzzesi mutuato direttamente dalla natura aspra e impervia del territorio.

«Mi ha chiesto di aiutare Osvaldo e poi ha aggiunto: se te lo senti. Se gli vuoi bene, è questo che intende mio padre. Non conosce le parole dell’affetto, la sua lingua ne è priva. A volte l’ho pensato da giovane, che non sapeva dire l’amore a una ragazza alla sua prima e unica esperienza. Forse lei se l’aspettava una mezza dichiarazione in dialetto. Mi hanno concepita restando muti, lui per ignoranza, lei per pudore».

L’età fragile è la vita quando manca l’amore, quando sei solo e vorresti compagnia.
L’età fragile è quando hai paura e non c’è nessuno a rassicurarti, a prendersi cura di te.
L’età fragile è quella che si vive al riparo dal mondo esterno in quella che chiamiamo casa.
L’età fragile è quella in cui si vuole fuggire o fare i conti con la propria storia, le proprie origini.
L’età fragile è quella in cui si mescolano passato e presente. Ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà.
L’età fragile è quella della maturità,  in cui tutto si fa più chiaro, eppure è, sempre, tutto in divenire.
L’età fragile decostruisce luoghi comuni, pezzi di mondo dove regna la felicità e non alligna il male.
L’età fragile è la caducità della nostra esistenza.

«Ho indicato a mia madre la Maiella con la neve ancora in cima. La montagna sacra, disseminata di eremi. Aveva una forma morbida, non minacciosa. Nella valle non riuscivamo più a guardarle le nostre montagne, erano diventate così oscure. Corno Grande, Prena, Tremoggia, incombevano su di noi. Il Dente del Lupo non veniva neanche più nominato».

Le parole servono per spiegare, per farsi capire, per condividere.

L’età fragile è Mia madre è un fiume, L’arminuta, la vita che scorre.

Tutto ciò che arde è vivo.


Per chi volesse approfondire
Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, Einaudi, 2024

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